Il riso dalla loro esperienza
di compagnia tardito/rendina
dal concreto
Due danzatori, Federica Tardito e Aldo Rendina, con in comune un nomadismo professionale, un giorno nel lontano 1997 si dicono: «visto che viviamo entrambi a Torino perché non facciamo uno spettacolo insieme, perché non ci confrontiamo con la creazione d’autore?». Dopo due anni, intervallando lavori con altri coreografi, è nato Gonzago’s Rose, un duo in cui il linguaggio della danza non bastava per dare voce ai nostri bisogni espressivi, compresi i colori più ironici. Così ci siamo messi al lavoro. Dopo la prima uscita, una versione short, in cui noi e il pubblico ci divertivamo molto, ci siamo decisi a continuare creando però la prima parte dello spettacolo. Sorpresa! Lo abbiamo composto al contrario, è stato piuttosto insolito. Incamminandoci nel processo, il lavoro andava a comporsi intorno alla relazione, ci è stato utile passare attraverso visioni stereotipate per raggiungere l’obiettivo, colorare di ironia e tragicità una scoppiettante storia d’amore.
La danza, la fisicità sono stati i nostri appoggi di partenza, muovere una buona dose di energia e concederci una discreta vena di follia per continuare a procedere. La parola ci è venuta in soccorso, in rima, concedendo spazio a poesie e canzoni strampalate. Il lavoro ha preso certamente una dimensione più teatrale, a volte va così, parti e cammin facendo fai le tue scoperte.
È uno spettacolo che replichiamo ancora dopo più di vent’anni dalla sua nascita e quando lo rimettiamo in prova lavoriamo per tornare alle origini, tenere viva la relazione è fondamentale, infilarsi nel personaggio, ricomporlo ogni volta; il rischio è di farsi prendere dal desiderio di far ridere rincorrendo l’approvazione. La comicità si fa avanti, ma la storia e la relazione sono drammatiche. Ci prepariamo al meglio curando i tempi comici, la cosa che più ci piace e ci vivifica è “l’errore, l’imprevisto”. È un accadimento che ti fa fare uno sbalzo altissimo nella presenza e attiva l’urgenza della vita.
Ci piace ricordare com’eravamo coraggiosamente svitati e impudenti. Nel corpo abbiamo incarnato la gag sovra-dimensionando lo stato d’animo, abbiamo esagerato per poi tornare nuovamente a stare in bilico tra il tragico e il comico con il piacere di creare continue sorprese. Il personaggio maschile è preso dalla sua vanità, un olivastro “terrone” doc, che nasconde dietro il suo estro poetico, rozzezza e sbracamenti, ti divide a metà, da un lato ti fa molto ridere e dall’altro lo vorresti picchiare. Lei è una burrosa Rosalia del profondo nord, una donna stanca di prendere atto di offese e frustrazioni, che si rifugia in un suo mondo di poesie, sogni e rose, fantastica nel suo essere dolce e allo stesso tempo svampita. Sul tram che ha smarrito il desiderio, bruciano ghigni e sfottò, Rosalia e Gonzago sono anime in conflitto, perse nella routine della vita a due. Sondiamo la relazione, ci avventuriamo nelle viscere del rapporto uomo-donna, nell’incomunicabilità della coppia attraverso la strategia del far sorridere mentre si riflette, puntiamo l’attenzione su un problema reale camuffandolo quasi fosse un gioco di poca importanza.
Di loro abbiamo detto: un uomo sicuro duro come la sua sedia‚ hombre pasionado che confonde l’Amor con la violensa‚ una donna offesa‚ prostrata‚ bagnata insieme alle sue rose‚ mujer desiderosa che subisce la violensa per un toco de Amor‚ vivono insieme da “100 anni” allevando rose. Incalzati da incubi travestiti da sogni e poesie annacquate‚ condividono una sola realtà: ballare i vecchi ricordi in abiti stanchi.
Per continuare a trattare il tema della risata ci fa piacere tirare in ballo il nostro caro Circhio Lume, spettacolo che ci ha avvicinato al mondo del clown o, come preferiamo dire, alla dinamica clownesca, trasposizione teatrale dell’attività della nostra struttura egoica o personalità. È un viaggio concreto che svela un elenco di “io sono” ingigantiti nel tempo, originati da fantasiosi giudizi che inizialmente posiamo su di noi come adesivi e che nel tempo crediamo etichette inamovibili. È uno stato interiore di urgenza, vicino alla sopravvivenza, un bruciante motore interno che ti spinge a fare di tutto pur di essere al centro dell’attenzione e se quello che stai facendo non funziona, devi cambiare e cambiare ancora, tenendo d’occhio il pubblico accertandoti che sia insieme a te.
Questo uno dei principi sul quale si è appoggiata la ricerca dello spettacolo Circhio Lume, una pièce giocata dentro a un cerchio da tre sbiaditi clown, per un circo fatto di numeri emozionali.
Il titolo è nato per errore, a forza di fare tentativi, qualcuno per sbaglio ha detto Circhio, ci è sembrato perfetto, meglio di così. Lume perché quello che facevamo veniva messo in luce, in modo chiaro, senza artifici, il pubblico coscientemente o no era invitato a scorgerne il gioco.
appunti di viaggio
Siamo partiti dal desiderio di confrontarci e riconoscere in noi i meccanismi che mettiamo in atto per farci amare e che spesso sconfinano nella messa in scena di un dramma che si ripete e si ripete… Per fare questo ci siamo resi conto che dovevamo fare un grande lavoro: imparare a riconoscere le idee che abbiamo su di noi non aderendo al giudizio.
Ci siamo allenati per lungo tempo a trasformarci‚ ad allargare i nostri confini‚ a non identificarci con la forma. Se ti identifichi con l’emozione‚ lasciandoti prendere da un’idea‚ cioè da quel sentimento che è puramente mentale‚ c’è il pericolo di rimanere costretti… se permetti che ciò accada‚ si ridurrà moltissimo lo spazio‚ anche quello corporeo‚ ed è una sensazione che assolutamente non aiuta a liberare l’atto creativo. Per agire abbiamo bisogno di spazio.
Per addentrarci nelle zone d’ombra abbiamo dovuto accendere più volte la luce scegliendo la via dell’umorismo salvatore…
Ognuno di noi durante la ricerca era chiamato a riconoscere un suo meccanismo egoico, da volgere più tardi in dinamica clownesca, con la quale giustificare il proprio assurdo agire.
Non è stato semplice in quanto attingevamo alle nostre sensibilità ed emozioni.
Potevamo utilizzare i nostri compagni per creare la scena, in questo caso il danzatore/attore al centro del dramma, per mostrare la sua infinita sensibilità e disperazione crea la separazione tra due sposi e quando il risultato dell’azione sta per scemare, ne crea un’altra ancora più drammatica e improbabile ai fini di rinnovare l’inconsolabile emozione della tristezza e dichiarare una sensibilità oltremisura. Poverino! Il tutto accostando la situazione tragica a un’azione comicamente assurda, in un costante crescendo, senza cadere nel voler solo far ridere o risultare univocamente drammatici.
La colonna sonora serviva a sostenere l’emozione, agendo coi corpi un linguaggio in bilico tra il tragico e il grottesco.
Il secondo focus di Circhio Lume viene giocato intorno all’emozione della paura, il performer costruisce un’azione scenica per mostrare il coraggio, con l’ausilio dei compagni/complici crea situazioni di rischio e più mostrerà il panico, più conquisterà un posto nell’Olimpo per il suo umanissimo coraggio. Che impavido temerario, nonostante tutto!
Dopo aver allestito tre panche pericolosamente in bilico una sull’altra a evocare un grattacielo in fiamme, il naufragio di una nave o una torre traballante, a ognuno la sua visione, seguiamo una sorta di eroe alle prese con un salvataggio rischiando il tutto per tutto dall’alto della sua invenzione scenica. I due complici si inter-scambiano nel ruolo del salvato o del carnefice in aiuto dell’attore principale. I tre famigerati clown creano costanti situazioni di pericolo, in un continuo crescendo tra finzione e realismo, deliziando il pubblico con momenti di suspence.
Musica da colossal hollywoodiano, corpi epici da film muto, oggetti assurdi, situazioni surreali, azioni portate all’estremo da capovolgere all’ultimo istante, sorreggono il finto/vero ambaradan, vissuto con grande ingaggio corporeo.
Per il terzo focus abbiamo intravisto la possibilità di giocare l’emozione della rabbia. La ricerca, smascherare le nostre forme d’Ego, è stato un viaggio tortuoso ed entusiasmante allo stesso tempo. Sono sempre stati i nostri compagni a scorgere in noi il loro affacciarsi, tra il rispetto e l’ilarità incontenibile. Per questa emozione, per niente scontata da giocare, abbiamo attuato un altro processo aggirando l’ostacolo: trovare delle azioni, dei movimenti e coreografarli, per poi successivamente immettere l’emozione. Il quadro era “allestire il mio funerale”. Cuore del gioco creare le scuse e le occasioni per svelare il meccanismo – chiedo aiuto in questa situazione delicata e disperata, ma li induco all’errore così sbagliano tutto quello che dovrebbero fare, pertanto sono giustificato ad arrabbiarmi e a scivolare irrimediabilmente in una vittima incompresa. I gesti marcati della danzatrice/attrice al centro del focus mostrano determinazione e spietatezza sui corpi dei due malcapitati, seguiti da azioni dolci e amorevoli, di contrasto, in una scena giocata con arguta e palese astuzia, spingendo la rabbia ai limiti dell’isteria.
Per questo quadro il pubblico, soprattutto quello femminile, a fine spettacolo ci ha spesso ringraziato per aver mostrato l’umano meccanismo/dramma che l’ego o la personalità crea e perpetua per essere vista, riconosciuta in senso ampio ed esistenziale. Abbiamo esplorato con tanta passione e determinazione una via per esperire l’essere veri e finti contemporaneamente, stando in bilico tra il tragico e il grottesco, per offrire lo smascheramento, attenti a non installarci in zone di confort e sicurezza, sognando di essere poetici e mai banali. Un vero giro sull’otto-volante sotto un cielo luminoso!
Il 3 agosto 2006, su www.delteatro.it Andrea Porcheddu scriveva dello spettacolo: «Un circo delirante e divertente, che gioca intelligentemente sul filo dell’idiozia, dichiarata, conclamata, devastante […] Circhio Lume è un pastiche arguto e folle, spinto al parossismo […] portano la loro ipotesi di non-danza sino ai territori della clownerie più cupa e destabilizzante, intrecciando teatro e danza con la sapienza gentile di chi conosce alla perfezione la propria capacità: non si risparmiano e anzi sembrano elogiare uno spreco di energie tale da allestire enormi partiture fisiche, eccessive sino al grottesco».
La situazione che ha creato la risata più piena è legata al fiasco.
Dopo che hai mostrato le tue più mirabili acrobazie, giravolte e prodezze annunciando al mondo il tuo prossimo virtuosismo, dopo che ti sei caricato, attirando ancora una volta l’attenzione del pubblico per il gran finale. Sei stato così bravo che tutto intorno si è fermato, le luci sono puntate solo su di te. Hai piazzato il cerchio nel quale salterai per dare lustro alla tua uscita trionfale. Hai creato il gran silenzio, rullo di tamburi, rincorsa, salto perfetto, al centro, Crash! Il cerchio è in frantumi. Gelo che dura un eterno secondo, il pubblico esplode in una grassa risata e dentro di te il mondo è crollato, vorresti solo sparire, ma sei al centro, tutti ti guardano, tenti un sorriso, una smorfia simpatica per risollevarti e cancellare il tragico fallimento, ma non funziona, il pubblico ride ancora di più, raccogli i cocci per un’elegante ritirata e quelli ti cadono, breve momento di empatia dalla platea, ma i tuoi “innocenti” compari non riescono a trattenere la risata, anche loro si liberano, riparte quella del pubblico, spietata, che da qualche parte lo sa, hai creato tutto affinché accadesse un ridicolo dramma.
al filosofico
Accompagnati dal gioco e dalla leggerezza, incontriamo e accogliamo le mille facce dell’IO, che possiamo anche chiamare coscienza egoica, quella parte di noi che pur di ottenere il centro dell’attenzione è disposta a creare e distruggere allo stesso tempo. Cosa crea e cosa distrugge? L’IO crea falsi sensi del sé, che agiscono possibilmente dentro a un dramma illusorio, da sostenere e alimentare costantemente fino al momento di distruggere tutto per poter ricreare un dramma nuovamente illusorio. Una vera ri-creazione!
Il clown‚ oppure colui che si addentra nello stato d’animo del riso, grazie al suo riconoscere i meccanismi della coscienza egoica‚ quell’«io sono» che si identifica con la conoscenza mentale che abbiamo di noi stessi‚ crea uno spazio di consapevolezza. Ci permette di poter “danzare” con gioia la gabbia dentro cui ci tiene costretti l’ego e così spalancarne le sbarre‚ in fondo‚ semplicemente‚ illusorie. Diventiamo così partecipi di un movimento vitale e liberatorio che offre uno sguardo compassionevole verso l’umano‚ capace di poterne sorridere.
Da Un nuovo mondo di Eckhart Tolle: «L’ego non è sbagliato, è solo inconsapevole. Quando osservate l’ego dentro di voi‚ state cominciando ad andare al di là di esso. Non prendete l’ego troppo seriamente. Quando scoprite in voi un comportamento egoico‚ sorridete. A volte potrete persino farvi delle belle risate. Come può l’umanità essersi ingannata per tanto tempo su questo?».
Percepiamo lo stato che ci porta al sorriso e perché no al “morir dal ridere” come uno stato d’animo, un posizionamento interiore al quale tendere per toccare un punto di grazia e innocenza. È quando l’uomo si è guardato da un altro punto di vista, diciamo più elevato, dentro alla materia ma anche al di là della materia, è in quell’istante che si è rilassato e spontaneamente si è reso disponibile ad accogliere la condizione umana; in quel breve momento arriva un sorriso che lo accompagna a giocare gli inciampi che la vita offre costantemente. Da qui nasce il cogliere la possibilità di allentare i confini di una seriosa tenuta, arriva il tocco di grazia, l’autoironia.
Una nostra cara amica, Marina Borruso, rispetto a questo punto ci ha scritto: «a chi non è capitato di trovarsi proiettato in un movimento assolutamente spontaneo che in un istante ha gettato un ponte fra la serietà più seria e l’ilarità più libera…? A chi non è capitato di essere catapultato in una capriola di questo genere senza volerlo, senza cercarlo perlomeno una volta nella vita? E ancora prima di riaversi guardandosi indietro non ha potuto fare altro che ridere innocente e leggero, come se in questa capriola avesse perso finalmente tutti i vestiti».
In primis per accogliere la condizione umana come danzatori e attori siamo chiamati a fare un buon lavoro di conoscenza, a muoverci come degli esploratori all’interno di noi stessi, raccogliere esperienze che ci informano profondamente rispetto a come funzioniamo sia a livello fisico che emotivo e mentale. Entusiasmante andare al di là del giudizio frenante e limitante, e accogliere al di là della forma tutto ciò che si muove in noi, ma proprio tutto senza esclusione di colpi. Ah! Questo allenamento ci guida nel meraviglioso viaggio per andare oltre le idee che abbiamo su di noi, a riconoscere gli strettissimi confini dentro ai quali infiliamo noi stessi e gli altri. Spazi angusti! E soprattutto ci conduce a incontrare, al di là del giudizio, quella parte di noi che chiameremo coscienza egoica, materia di indagine per la nostra ricerca sul “riso”.
Nella nostra professione la ricerca che portiamo avanti avviene principalmente tramite lo strumento del corpo, luogo di esperienza e di indagine, luogo di svelamenti, uno strumento molto sensibile e potente allo stesso tempo. È necessario relazionarsi ad esso con cura e rispetto perché il “lavoro” è delicato e profondo, ci inoltriamo nel mistero che si manifesta nel presente e ogni volta, se ci abbandoniamo con fiducia e generosità, il viaggio è com-movente.
Oltre ad allenarci per diventare esploratori, ci alleniamo costantemente per renderci canali. In che senso? Canali nel senso di materia umana che si offre e si lascia guardare mentre attraversa una certa condizione, nel nostro caso l’emersione della coscienza egoica, lo svelamento dei suoi “trucchi” e così del suo goffo manifestarsi.
Per poter far questo salto celestiale e così compiere un altro passo fondamentale per abbeverarci alla fonte della comicità, è necessario imparare a lasciar andare. Come posso “giocare” con le parti di me, se me le tengo tutte strette? È impossibile, arriva un momento in cui grazie all’ausilio della presenza e della non identificazione con ciò che mi attraversa, faccio un passo indietro e osservo ciò che emerge come condizione appartenente all’essere umano. Arriviamo così a esperire un posizionamento fondamentale per il nostro anelito, siamo al centro di noi stessi, presenti a noi stessi e allo stesso tempo osservatori di noi stessi. Da questa posizione privilegiata possiamo vedere le cose da un altro punto di vista, godere e nutrire il senso universale di ciò che emerge perché l’altro è un altro me stesso in un altro tempo e in un altro luogo. In questo luogo magico si fa spazio il manifestarsi dello stato di grazia e del riso.
Infine possiamo anche dire che lo stato del riso per noi è una ribellione pacifica, è gratitudine alla vita, perdono, la gioia dell’essere che si manifesta, è scivolare via dalla morsa dell’ego, è una via verso la libertà, insomma il paradiso possibile!
Da L’uomo che cammina di Christian Bobin: «Era un tipo d’uomo particolare: sentiva solo la gioia: per il resto, era sordo».
compagnia tardito/rendina
La compagnia tardito/rendina nasce dall’incontro dei danzatori/coreografi Federica Tardito e Aldo Rendina. Insieme per vicinanza e frequentazione di un sentire comune, assaporano il gusto di percorrere le vie dell’ ironia nelle sue diverse forme. Tra gli spettacoli più significativi “Gonzago’s Rose”‚ “Circhio Lume”‚ “Oh Heaven” (il Paradiso Possibile), “Il Compito”. Dalla collaborazione con Bruno Franceschini: “L’anatra, la morte e il tulipano”, vincitore Eolo Awards 2015 e Tempo, spettacoli per l’infanzia. Attualmente la compagnia sta lavorando ad un nuovo spettacolo, un solo di Federica Tardito dal titolo provvisorio “A Sonja”, vincitore del bando AiR – Artisti in residenza 2020 della Lavanderia a Vapore, Torino.
Parallelamente alla frequentazione della scena intraprendono una ricerca che li avvicina alla pratica della presenza. Intraprendono un percorso di studi e ricerca sulla meditazione. Conducono da anni un’attività pedagogica che intreccia il teatro, la danza, lo humor e la consapevolezza.
Federica Tardito e Aldo Rendina sono Artisti Associati dell’Associazione Sosta Palmizi/MiBAC.
www.compagniatarditorendina.com