Vermi
di Veronica Raimo
Quando reggevo l’alcol non reggevo te, e quando reggevo te non reggevo l’alcol. Non vi siete mai coordinati. Mi baciavi e mi contavi i bicchieri sulle labbra. Lo sai anche tu che non esiste un numero. Mi avevano somministrato un test in ospedale. Una di quelle ricerche per far stanziare fondi al dipartimento. Certo, ho detto. Faccio tutto. Mi piace contribuire alla sanità pubblica. Una ricerca imprevedibile: l’incidenza dell’alcol sui disturbi gastrointestinali. La giovane psicologa mi ha portato in uno stanzino, bionda bionda, camice stiratissimo. Che bel sorriso che hai, le ho detto. Mi rassicurava, come una cuginetta. Lei però mi dava del lei. Dovevo barrare le caselle: quanti bicchieri al giorno. Più di uno. Più di due. Più di cinque. Più di dieci. Bum! Non è un’unità di misura il bicchiere. Non ha reagito. E poi bicchieri di cosa? Non mi sembra attendibile questo test. Niente, non si scomponeva. Anche il sorriso, sempre lo stesso. La compiacenza da una cuginetta mi sembrava troppo. Che devo fare? Ho chiesto. Non potevo mica rispondere. Le ho afferrato la mano sulla scrivania. Uno scatto e basta. Non lo so che volevo fare, ma non potevo rispondere. Volevo solo che mi dicesse sì, hai ragione. Questo test non ha senso. Invece ha ritirato la mano. Scusa scusa scusa, ho detto. Più dicevo scusa, più indietreggiava. Ti sto chiedendo scusa, cazzo. Niente. Ha aperto la porta, fuggita. Mi dispiace che non ho contribuito alla ricerca.
Mia madre è morta in una clinica privata. Non se la poteva permettere. Io mi posso permettere tutto, ma voglio crepare in ospedale. E tu mi chiedevi: quanti te ne sei fatti oggi? Oddio, di nuovo. Vi siete fissati coi bicchieri. Posso calcolare i centilitri, i decilitri, cerchiamo di essere scientifici nelle questioni serie. Poi aprivo la bocca. La spalancavo. Miasma. Cloaca. Sono due parole così belle. Due nomi di donna. Hanno pure il diminutivo facile. Miaaaaa, sono tua Miaaaaa, miagolavo. Oppure chiamami Cloe. E non capivi. Questo è sempre stato un problema. O il problema. Tu non capivi e pensavi che fossi io a straparlare. Hai il fegato a pezzi, mi dicevi. No, no, no. Il fegato sta bene. Ho il cuore a pezzi. Senti. Ti prendevo il dito. Tocca, tocca qui. Un distaccamento di cuore sul collo, lo senti? Mi teneva sveglia tutta la notte. Come un vermiciattolo sottopelle, che strisciava dentro, pulsante. Un vermiciattolo con un cuore suo. No, forse più un coleottero, un calabrone, uno di quegli affari grossi e ronzanti che sbatteva contro la pelle. Una falena in un’aula scolastica. O un colibrì.
Non so se è un colibrì quello che ho visto stamattina. Sembrava un insetto, enorme. Ma poi è apparso un becco. Un insetto mostruoso col becco. Non so distinguere gli animali. Qui non so distinguere niente. Erano i soldi, le transazioni che mi aiutavano a distinguere. Mi sono spaventata. Odio gli insetti. Tutti. Ehi, ehi! Mi prende per mano il bambino. Ehi, indica col braccio una farfalla gigante. È troppo presto. I rumori si amplificano, lo sbattere di ali mi atterrisce. Che dovrei fare? Ammirare i colori. Non posso mostrarmi spaventata di fronte a questo bambino. Ma mi terrorizza quella farfalla. Le antennine, le zampette. È puro orrore. Dice delle parole il bambino. Mi sforzo anch’io. Bello, bello. E poi: basta, dico. Basta. Tanto non mi può capire, e io non capisco lui. Abbiamo solo i nostri corpi. Io e te bambino non abbiamo niente da dirci. Ma mi tiene per mano. Le dita piccolissime. Non ho mai stretto una mano più piccola della mia. Bambino, ti prego, non farmi provare tenerezza. Posso schiacciartele queste dita mentre guardiamo la farfalla. Sorride. Non ha ancora tutti i denti. Mi fisso sui buchi. Un giorno ti resteranno solo questi. Come tuo padre. Come tua madre. Sorrido anche io.
Ti stanno marcendo i denti mi dicevi. Ero come un cavallo, sempre a ispezionarmi la bocca. Erano i miei dentini da latte. Latte marcio, latte cagliato. Non sorridere nelle foto, dicevi. Poi ci pensiamo. E invece eccomi lì tutta denti sul giornale. Com’è che scrivevano? Una risata sgangherata. Le parole per la pazzia si assomigliano tutte. Io comunque mi trovavo bella. Vengo sempre meglio nelle foto rubate. Non erano proprio rubate. Ero complice. Facevo il palo di me stessa. Appena ti distraevi un attimo. Ma ti distraevi poco. Avresti dovuto farlo di più. Anche io. Guardarci con gli occhi distratti. Come quando ci si innamora. Non è la disattenzione il declino. La fine degli amanti è fatta di attenzione, di cura. La cura è atroce. Un attimo dopo ti ritrovi a barrare le caselle di un test in ospedale. Quanti te ne sei fatti oggi? Mi illudevo parlassi di uomini. Che bello, mi desideri ancora. Ma no, erano sempre i bicchieri.
Fa un guaito il bambino. Ho stretto troppo forte. La farfalla è volata via. Oh che peccato. È andata via, dico. In un altro mondo avrei detto: aspetta, te la compro. Ma qui non si può. E allora: flop flop flop. Sbatto le braccia, mani sotto le ascelle, come una gallina. Ridacchia. Ho mollato la presa. Bambino sei libero, puoi andare. E infatti. Andato. Ma non è libero. Anche se la finzione è questa. Dovremmo essere tutti liberi, sanati dalle dipendenze. Comunque, sempre più libero di me. Lui ha la sua mamma sdentata. Tu mi hai piazzato quel tizio assurdo alle spalle. Mi chiedo dove abbia imparato a pedinare la gente. Capisco non sia facile su una spiaggia deserta. Davvero crede che non me ne accorga? O le istruzioni sono queste? Un’ossessione blanda. Tieni la distanza, ma deve sentire il fiato sul collo. Almeno una brezza di fiato. Però è un tipo socievole. Ha fatto amicizia con i locali. Gli toccano la barba. Lo fermano per strada e gli toccano la barba. Lo vedo che torna al suo bungalow pieno di cibo. A me danno soltanto la frutta. Ho la stanza infestata di frutta. È talmente colorata che fa male agli occhi. Fa tutto male agli occhi. Provaci a guardare un tramonto su queste spiagge.
Mi fisso solo sul bianco. Abbacinante in un modo diverso. I corpi flaccidi, immacolati di tutte queste donne piene d’amore. Madonne entrate nella seconda fase della vita. I loro Cristi neri accovacciati in grembo. Chissà da quanto tempo non si sedevano sulla sabbia. Coi bermuda chiazzati sul culo per l’umidità. Ci salutiamo noi che ci possiamo capire. Non riescono a crederci che abbia rinunciato a tutto. Loro al massimo sono manager aziendali. Il loro successo era solo dato dai soldi. La loro gloria, il loro splendore, era tutto lì. Ma io? Io ero un’altra cosa. Ero una star. Luminosa e guasta. Ci scambiamo frasi. Le vedo con quello sguardo smaliziato di chi mi ha riconosciuto. Che ci faccio qui? Persino un autografo. Non è per me, ci ha tenuto a dirmi. Un donnone teutonico, le gote rosa da aria buona anche se era una CEO da grattacielo. Portava i capelli grigi con una sfumatura azzurrognola: alla luce del sole sembravano la pelle di un pesce. Poteva essere mia madre. Credo abbia pensato la stessa cosa. Un giorno ci arriverai anche tu. Ecco cos’era quello sguardo sulle mie gambe. Metti un po’ di ciccia però. Questo avrebbe detto mia madre. In realtà l’ha detto. Persino due minuti prima di morire. Sembri un attaccapanni. Mamma sei tu quella sta morendo, cazzo. Tanto che le fregava. Mi ha lasciato tutti i debiti della clinica. C’è voluto il primo demo per ripagarli. Ma non puoi pensare ai soldi quando tua madre sta morendo. Come no! Ci ho pensato tutto il tempo. Eccolo l’amore della cura. L’attenzione. Però senza debiti nemmeno lo facevo il demo. Quindi grazie mamma. Se risorgi posso pagarti tutto. Tutte le cliniche del mondo. Pure una crociera se vuoi. Pure due settimane su quest’isola del cazzo a rimorchiare neri e fingere che il denaro non esista. Capisci il paradosso? Spendi una fortuna per farti sequestrare i soldi. Però ti fai le amiche. Impari il tedesco che ci tenevi tanto. Mangi il pesce. Gli esercizi a riva. Mi manchi, mamma. Non ti avrei mai portato qui. O forse sì, ma per ridere. Ci saremmo nascoste qualche banconota nei calzini. Perfino nelle mutande. Eppure mi rilassa la vista del donnone. Del suo amore. Enorme. Grasso. È qui in cerca di piacere, io che cerco l’astinenza. Ho solo le mie gambe stitiche. Le gambe da attaccapanni. Non ci voleva tanto a mettere un po’ di ciccia. Mi dispiace, mamma. Ho lesinato le soddisfazioni per una vita. Una figlia affettivamente parsimoniosa. Non era un dispetto. Era incapacità. Sono ancora incapace. Adesso che assomiglio a un attaccapanni deforme. Lo stomaco gonfio che irradia gli arti stecchini.
Non te lo mettere quel vestito, mi dicevi. Ti fa vedere la pancia. Mi controllavi la bocca. Il corpo. La mente. Ti facevo sentire un pezzo nuovo al piano e mi fissavi i peli sotto le ascelle. Poi li tagliamo, eh? Non so nemmeno come facevi. Suono sempre con le spalle strette. Il tuo scagnozzo li apprezza. Non so salutare il sole, ma alzo le braccia al cielo sul lungomare. E lo vedo che mi guarda. Dalla sua distanza di sicurezza. Ammicco. Vieni, vieni, avvicinati. L’abbiamo fatto lì, sulla spiaggia, davanti a tutti. Davanti ai pesci. Davanti ai marinai. Davanti agli insetti. Mi leccava l’ascella come fosse una fica. Lo so che non mi credi. E fai bene. Perché non è vero. Un barbuto incorruttibile. Ma anche io sono incorruttibile. Il mio amore era incorruttibile e non ci hai fatto niente. L’hai buttato su quest’isola a farlo annacquare. A ingozzarlo di frutta. Di polpa tropicale. Di manioca. Mi sfarina in bocca. Tra i denti marci. Il sapore dolciastro e quella forma mostruosa. Sembra il cibo dell’apocalisse. Un giorno non resterà più nessuno sulla terra. E tu verrai a prendermi. Sopravvissuta col mio corpo di legno tra i cadaveri delle donne spiaggiate. Consumate come meduse, prosciugate dal sole. Ci divideremo le radici. Scaveremo sotto terra. Un canto di morte sotto a un albero gigante. Tu saprai anche dirmi come si chiama. Sai dare un nome a tutto. Un sicomoro. La fine dell’ombra su tutta l’isola. E finalmente potremmo crepare in pace. Ma prima di quel giorno, amore mio: perché hai lasciato che mi ingozzassi di manioca? La mamma del bambino mi ha regalato un cesto di mele cotogne come fosse una rarità. Mi ha fissato col suo sorriso sdentato. Il suo sorriso per stranieri. Per stranieri depredati. Ma da piccola io ci facevo la marmellata con le cotogne. L’avresti mai detto che ero una bambina così devota? Ore a tagliuzzare, togliere i semini, gratta il limone, avvita i coperchi, rimesta, fai bollire, il bagnomaria. Era bella la mia vita di barattoli. E poi che è successo? Un giorno mi sono messa a cantare. Che bella voce, bambina. Con questa voce freghi tutti, diceva mia nonna. Come no. Non si canta per strada. E io cantavo per strada. Sei arrivato col tuo cappotto da attore. Col tuo cappotto da esibizionista. Eri un’esibizionista. Hai aperto il cappotto e mi hai fatto vedere tutto. Il futuro. Mi piaceva. Anche il pezzo da cinquanta che mi hai allungato nel cappello. Ma non ce l’hai una famiglia, bambina mia? No, che non ce l’avevo. Come se non lo sapessi quando mi hai raccattato per strada. Padre non percepito. Madre morta da tre giorni. Mi hai accolto dentro al cappotto. Perfetto. Lo mettiamo subito nella bio. Prima però ci hai tolto le marmellate. E allora perché mi hai spedito qui a biascicare grazie per il cesto di cotogne? Eri tu a doverlo capire. Se compri una ragazzina per strada, ci potevi pensare. Avrei passato tutta la vita a farti le marmellate. A cantare per te. A gambe incrociate sul pavimento. I piedi neri sotto le cosce. Che bella voce, bambina! Tanto il pianoforte lo suono male. Mi bastava un banjo. Tu a letto, io una bambina prodigio di vent’anni. Di trenta anni. Quaranta anni. Cinquanta. A che è servito togliermi da lì? Il cesto di mele era pieno di vermi. Sono andata in spiaggia a lanciarle dentro l’acqua. C’erano le onde alte. Annegheranno? Mi spiaceva per i vermi. Ero tentata di tuffarmi per salvarli. Si diventa eroi a salvare una vita sola. Un solo verme ce l’avrei fatta. Sarei diventata un’eroina per tutto il mondo dei vermi. Gli altri potevano pure annegare. Si è tuffata per salvarne uno! A volte capita. A volte capita che passi un uomo col cappotto e salvi una ragazzina per strada. Ti sentivi così? C’era una volta un signore che lanciava le mele bacate nell’acqua, poi le mele erano venute a galla e lui ne aveva raccolta una. Se l’era stretta sotto al cappotto. L’aveva asciugata. Che bella mela, gli dicevano. L’aveva messa su un vassoio e la guardavano tutti. La sua mela migliore. Gli davano un soldino per guardarla. Ci ha fatto un mucchio di soldi con quella mela. Ma era una mela bacata, e il signore lo sapeva. Io avrei salvato il verme, non la cotogna. Ma non ho fatto neanche quello.
Veronica Raimo
Veronica Raimo è nata a Roma nel 1978. Laureata in Lettere sul cinema della Germania divisa, ha vissuto a Berlino occupandosi di ricerca presso l’Università di Humboldt. Nel 2000 è stata selezionata per il Festival Romapoesia e per il Poetry Slam nazionale di Roma, e nel 2004 per il Festival di poesia di Perugia. Ha pubblicato su Alias, il manifesto, le Monde diplomatique, accattone, Capitolium, XL di Repubblica, Roma c’è. Collabora con Work-out e la rivista islandese in lingua inglese Grapevine. Attualmente collabora anche con il gruppo teatrale Teatro Instabile con sede a Berlino. Varie le sue traduzioni dall’inglese, per minimum fax, Fandango e Coconino Press. Il dolore secondo Matteo è il suo primo romanzo.