Economia del buon costume

di Elisa Casseri

Marco Smacchia, “Costiera”, tempera acrilica e matita su carta, 2016

Vorrei che urlasse, mi farebbe così bene se avesse una crisi di rabbia e mi tirasse contro il piatto, il bicchiere o magari tutti e due. Sto facendo quanto in mio potere per farlo andare fuori di testa: sbuffo, non presto attenzione, faccio rumore. Ora sto mancando la presa dei fagiolini apposta, sbatto il metallo della forchetta contro la ceramica del piatto a tempo con quello che dice. Ma niente, lui non ha nessuna reazione, la sua voce non si incrina, le sue parole non perdono sicurezza. È impossibile che io non gli stia dando fastidio, eppure così sembra visto che nonostante tutto riesce a mantenere salda la gestione del suo discorso.
«Ci hai fatto perdere il bonus monogamia», mi dice con calma «e sei pure finita sotto zero con l’onestà. Sotto zero, Alessandra. Numeri negativi. Se non ti riprendi, non metti solo a rischio i tuoi benefit, ma anche i miei…».
Lui lo sa che se urlasse, se si incazzasse e me lo lanciasse in faccia il male che gli ho fatto tradendolo, io non lo scriverei mai sul mio logbook, non lo darei in pasto all’algoritmo di controllo perché non me ne frega niente di recuperare credito facendo perdere punti a lui, non voglio semplificare la mia situazione. Credo che, in parte, non urli anche per questo: avere conferma del fatto che non lo denuncerei lo ferirebbe più di quanto non lo abbia ferito il mio tradimento.
Finito di mangiare, si alza da tavola e ritira il suo piatto: mi chiede educatamente se può ritirare anche il mio, se li finisco i fagiolini o se non mi sono piaciuti e io penso che vorrei solo rivedere, anche per un momento, l’uomo che ho sposato, mi basterebbe un secondo di informalità, qualche distrazione, un errore, un vizio, una qualsiasi intimità. Pagherei oro per riaverlo, se ancora fosse possibile pagare qualcosa.
Quando ti sposi lo sai che l’universo può cambiarti intorno e che le condizioni al contorno possono vincolare l’insieme, definirlo, ma non pensi che ti possa succedere quello che è successo a noi: che il sistema cambi idea su se stesso e si rovesci, modificando radicalmente tutto quello su cui avevi imparato a stare in equilibrio. Alle manifestazioni per l’abolizione del denaro ci eravamo andati insieme, credevamo entrambi che eliminarlo sarebbe stata una rivoluzione, che dopo avremmo avuto un mondo migliore, senza ingiustizie sociali, obblighi, dipendenze. Quando è successo, i primi mesi sono stati di confusione e di festa, con gli sgomberi delle banche e le banconote bruciate in piazza. Poi è venuto il tempo di un nuovo contratto sociale e c’è stata una lunga contrattazione per capire come istruire la nuova società, alienarla da se stessa, distruggere la memoria del passato in modo da sradicarci da quello che eravamo.

«Li lavo io i piatti», gli dico ed è la prima cosa che dico da quando è arrivata la notifica di segnalazione del mio illecito. La prima volta che apro bocca parlo del niente, ma non ho molto altro da dire o da giustificare: è vero che l’ho tradito. Gli ho mentito, non sono andata al lavoro, mi sono riunita con delle persone che lui non conosce – e che se conoscesse non approverebbe – e poi con una di quelle persone ci sono andata a letto. È successo. Non pensavo che quel tipo lo avrebbe scritto nel suo logbook ma lo ha fatto, l’algoritmo lo ha trovato, ha verificato l’assenza della stessa informazione sul mio e, oltre ad aver tolto a me e mio marito il bonus monogamia, ha anche decretato la mia disonestà togliendomi 50 vipaka dai 35 che me ne erano rimasti. Quindi ora devo fare i conti con quel numero negativo, che vuol dire non solo che verrò licenziata dal bar in cui lavoro e che nessun altro mi assumerà, ma che in generale la mia interazione con gli altri sarà molto difficile, visto che non appena entrerò in contatto con qualcuno, fosse anche il fruttivendolo, a quelle persone arriverà una segnalazione sul telefono per avvertirle del mio stato e permettergli di tutelarsi.
Una delle prime cose che ci hanno spiegato, dopo quei primi mesi di confusione e di festa, è che avremmo dovuto essere onesti con noi stessi: serviva a questo la scrittura del logbook, a riraccontarci le nostre giornate per quello che erano state, senza sovrastrutture, bugie o omissioni. Il logbook non sarebbe mai stato letto da nessuno, sarebbe stato solo comparato ai registri degli altri per fare delle verifiche incrociate, in modo da avere una valutazione della nostra onestà che, sommata alle altre considerazioni morali che avrebbero dovuto essere il faro della nostra vita, avrebbe permesso la definizione della nostra fascia comunitaria e delle conseguenti condizioni in cui avremmo vissuto. La fascia comunitaria, di fatto, è una specie di classe “morale”, praticamente identica alle classi sociali che tanto ci siamo battuti per eliminare.
Prima del mio tradimento, avevamo buone possibilità di entrare in prima fascia, grazie agli enormi sforzi di mio marito – io non sono mai stata una donna virtuosa. Se ci fossimo riusciti avremmo potuto avere una casa più grande, due automobili e la possibilità di accesso alle cariche pubbliche, che è quello che Carlo ha sempre voluto. Per questo non riesco a capire come faccia a mantenere la calma.
«Non ti preoccupare», mi ha risposto quando gli ho detto che avrei lavato io i piatti e poi è rimasto in silenzio per un bel po’; forse sta aspettando che gli faccia delle scuse, si starà chiedendo perché io non abbia ancora cercato di giustificarmi. Onestamente, non voglio collaborare in alcun modo a informare questo nuovo codice sociale, morale, legale, sentimentale. Non so come spiegarglielo a un uomo gentile, onesto, misurato e formale che l’amoralità è una forma di resistenza, che la volontà generale non può mai escludere il conflitto, che quello che abbiamo fatto non è stato creare un mondo a forma della sua gentilezza, della sua onestà, della sua misura, ma una monetizzazione della verità, degli smerci di giustizia, l’educazione sì, ma a piccoli tagli.

Quando hanno introdotto i logbook sono stati creati diversi contenuti condivisibili per spingerci a sostenere il sistema: tutorial, programmi di intrattenimento, clip da inserire sui social network che, per spiegare come comportarsi in questo nuovo mondo senza soldi, usavano il dilemma del prigioniero.
In due diverse stanze ci sono due persone che hanno commesso un crimine: le hanno arrestate e le hanno separate per portarle a dire cosa sia successo senza che possano mettersi d’accordo. Se entrambe collaborano, accusandosi a vicenda, gli vengono dati sei anni di carcere a testa; se nessuna delle due collabora gli viene dato un anno di carcere a testa; se una collabora e l’altra no quella che collabora può uscire senza scontare nessuna pena, mentre quella che non collabora dovrà scontare sette anni di carcere. Per risolvere il dilemma raggiungendo l’equilibrio di Nash, entrambi gli arrestati devono scegliere di parlare. Non potendo sapere cosa sceglierà di fare l’altro, è quella la maniera per minimizzare la propria condanna: collaborando si esclude la possibilità di subire la collaborazione dell’altro e si ottiene quello che è meglio per sé, anche se non si tratta di quello che è meglio per tutti.
Per ottenere che fossero usati i logbook, è stata infilata la morale all’interno del dilemma del prigioniero: è bastato sostituire “il crimine da denunciare” con “il racconto onesto della propria vita” e il buon costume è diventato sistema. In questo modo, si è riusciti a elevare l’individualismo a valore, facendo diventare il quotidiano esercizio di denuncia e giudizio un eroismo di bandiera contro i disonesti.
I pochi che hanno cercato di spiegare che si trattava di un teorema di matematica applicata e che non poteva essere usato per giustificare il controllo della vita della gente sono stati da subito una minoranza ininfluente, costantemente tacciati di essere solo degli immorali che cercavano di insudiciare l’elevazione della società. Vengono chiamati da tutti paretiani perché per spiegare alle persone che “collaborare” non era l’unica scelta possibile hanno usato l’ottimo di Pareto, un concetto di efficienza che descrive la situazione in cui tutti ottengono il meglio e in cui non è possibile migliorare la condizione di un solo individuo senza peggiorare quella di un altro – nel caso del dilemma del prigioniero, è lo scenario in cui i due criminali ottengono solo un anno a testa scegliendo di non parlare. Il problema, però, è che i limiti dell’ottimo paretiano gli si sono rivoltati contro e la tenuta dell’intera analogia è sembrata scricchiolare solo in quell’obiezione, facendo vincere la manipolazione delle informazioni sull’ingenuità del buon senso.
Ero a una riunione di paretiani quando ho conosciuto la persona con cui ho tradito mio marito, ma evidentemente non era un paretiano molto convinto se poi è stato talmente onesto con se stesso da scrivere il mio nome sul suo logbook. Il mio tradimento non aveva uno scopo, non l’ho fatto perché volevo perdere i miei vipaka o far perdere a mio marito la possibilità di entrare in prima fascia comunitaria, non l’ho fatto perché volevo creare una situazione di scontro o perché volevo metterlo alla prova e farmi lasciare. L’ho fatto perché l’unica maniera di esistere in questa società e in questo matrimonio mi sembra quella di non essere onesta con me stessa.

Potremmo fare appello se io dimostrassi che non è vero ciò che ha scritto quello sconosciuto sul suo logbook, ma Carlo nemmeno me lo ha chiesto. Non urla, non discute, non si incazza, non chiede: spero che lo faccia per strategia, ma avendo appena perso quello per cui lavora da mesi, non capisco come possa resistere dal mandarmi affanculo, cacciarmi di casa, lasciarmi. Eppure continua a resistere: anche se mi sono messa davanti a lui, a braccia incrociate, e lo fisso respirando più forte che posso, continua imperterrito a ignorarmi e a scrivere qualcosa sul suo computer.
Quando mi arriva sul telefono una notifica che suona come suonano le segnalazioni importanti, smetto di respirare forte e sciolgo le braccia per poterla leggere. Dice che se confermo quanto Carlo ha appena scritto sul suo logbook potrò commutare 75 vipaka di saggezza, 95 di coraggio e 30 di temperanza in 20 vipaka di onestà – in questo modo non sarei più nei numeri negativi e potrei ricominciare la mia riabilitazione sociale.
Carlo chiude il computer e mi guarda andare in cucina, il tempo di prendere i fagiolini avanzati dal secchio dell’organico e torno da lui. Con la mano che sgocciola olio, glieli appoggio accanto, a macchiare il divano beige.
«Con questi, vorrei ripagarti per la tua gentilezza», gli dico con calma, subito prima di mettermi a urlargli contro talmente forte da finire su tutti i logbook presenti nel raggio di 50 metri. Ovviamente non mi risponde, continua a massimizzare il suo profitto minimizzando i rischi, mentre io non so più nemmeno a che gioco stiamo giocando.
Vorrei solo che mi tirasse contro un fagiolino, ne basterebbe davvero solo uno per riaprire le trattative di questa relazione, ma scommetto 1000 vipaka che non lo farà.

 

Elisa Casseri


Elisa Casseri è nata nel Basso Lazio nel 1984 ed è laureata in Ingegneria Meccanica. Nel 2014 ha pubblicato Teoria idraulica delle famiglie per Elliot e, nel 2015, ha vinto la 53a edizione del Premio Riccione per il Teatro con L’orizzonte degli eventi. Autrice del blog Memorie di una bevitrice di Estathè, collabora con la rivista Nuovi Argomenti. Il suo ultimo romanzo, La botanica delle bugie, è stato pubblicato da Fandango nel 2019.