«Voglio ciò che mi spettina». Alla ricerca di Marco Smacchia

di Damiano Pellegrino

Marco Smacchia – Tempera acrilica e matita su carta, 2015

«Credo che il racconto catastrofico, chiunque ne sia il narratore, rappresenti un atto costruttivo e positivo dell’immaginazione, e non un atto negativo, che sia il tentativo di confrontarsi con un universo palesemente insensato sfidandolo al suo stesso gioco» (1).

In una raccolta di articoli e saggi dal titolo The Visual Encyclopedia of Science Fiction, curata da Brian Ash e dedicata alla fantascienza, James G. Ballard fornisce una definizione di questo genere e del suo lavoro come autore di racconti catastrofici, reputando la sua scrittura un atto di accusa contro la finitezza del reale. Le catastrofi immaginate dallo scrittore inglese danno corpo alle innumerevoli possibilità che la natura nasconde o è stata incapace di rivelare.
Cataclismi, una fauna ambigua e un paesaggio traumatizzato a contatto con l’uomo sono contenuti in buona parte della produzione di Marco Smacchia, che affianca all’attività di grafico per Emilia Romagna Teatro anche quella, forse più sotterranea, di illustratore. Tra i suoi disegni possiamo imbatterci in un’automobile in panne intrappolata nei tralicci delle linee elettriche: la raffigurazione di un incidente. Ma come c’è finita la macchina lì? È caduta dal cielo? È frutto dell’evocazione di un mondo fantastico e paradossale oppure è davvero una rappresentazione veritiera del reale? Il segno si trascina tantissime domande, provocando scarti di senso riconducibili al carattere tragico e ridicolo delle cose. Ancora vediamo una nave percorrere il corso di un fiume e alla fine del tragitto naufragare, sprofondare nello spazio bianco del foglio. Di fronte al disastro imminente la natura, apparentemente muta, mantiene salde le sue proprietà e reagisce alla presenza umana. Il risultato è un’immagine fortemente ambigua, conflittuale e aperta. A monte del suo processo di lavoro rintracciamo l’urgenza di un’idea, la ricerca di dinamiche comunicative inedite che intrecciano significante e significato e l’adozione di codici raccolti direttamente dalla strada e destinati a essere ricontestualizzati. In Smacchia la creazione di un’immagine, che diventa necessaria ed essenziale grazie a una riduzione all’osso delle figure e della spazialità, presuppone un esercizio votato alla ricerca di contenuti a discapito forse della forma e dello sviluppo di uno stile particolare e inconfondibile. A prevalere è il colore nero delle sagome porose e dai contorni marcati, che sembrano annegare nel vuoto della pagina, come nel caso di Sposta dove un albero si inarca reagendo alla sollecitazione dell’aereo in volo e scongiurando un pericolo. Qui la tempera nera acrilica su carta è diluita non con acqua ma con alcol rendendo il colore molto più viscoso e restituendo dei chiaroscuri molto particolari, esaltati infine da una matita morbida. Questa pratica è identica ad altre sue composizioni ed è riconducibile a un lavoro manuale, quasi artigianale, data la sua formazione.

Dopo un’adolescenza trascorsa in un paesino dell’Appennino umbro-marchigiano, precisamente ad Apecchio, Marco Smacchia a quattordici anni si iscrive all’Istituto d’Arte “Scuola del Libro” di Urbino, seguendo l’indirizzo di grafica pubblicitaria, e, dopo la maturità, presso la stessa scuola segue il corso di perfezionamento in disegno animato. Questo ambiente e le lezioni, in grado di allontanare gli studenti da un mero professionismo dell’arte a beneficio di una pratica di ricerca costante, si riveleranno preziosi grazie a un confronto aperto con i compagni e gli insegnanti, veri e propri artisti, come Roberto Catani o il duo di videoartisti Carloni-Franceschetti. E quasi inconsapevolmente Smacchia entra già a contatto con il teatro, sbirciando il lavoro ancora in fase di montaggio di Tragedia Endogonidia Film Cycle, undici video elaborati dai due autori Carloni-Franceschetti partendo dal lavoro della Socìetas Raffaello Sanzio. Completati questi studi, Smacchia decide di iscriversi al corso di Sociologia presso l’università di Urbino, scegliendo l’indirizzo disciplinare “Spettacolo e nuovi media”. Nel frattempo continua a disegnare ma non con continuità o con una determinazione tipica di chi ne fa una professione ma trasformando questa passione in un vero e proprio esercizio privato, non badando a un perfezionamento della tecnica.
L’approdo alla scena, o meglio l’inizio di una serie di collaborazioni che unirà il suo segno grafico alla storia di alcune compagnie e realtà teatrali, risale al 2008 quando Smacchia partecipa al seminario Lo stato dell’arte: dire, fare, pensare, curato da Goffredo Fofi e dalla redazione della rivista Lo Straniero tenutosi presso il Teatro Dimora di Mondaino. L’intento di quelle giornate è quello di mettere a confronto scrittori, disegnatori e gruppi teatrali della medesima generazione, tutti under 30 e tutti emergenti, sollecitati da alcune domande e dalla presentazione aperta dei propri lavori. In quella circostanza Consuelo Battiston, Gianni Farina, Alessandro Miele della compagnia Menoventi restano folgorati da un disegno di Smacchia rintracciando alcuni contatti impliciti del soggetto con il loro spettacolo Invisibilmente. Si tratta di una sagoma di una persona ritratta di profilo e con le mani in alto, come arresa, di fronte a quella che apparentemente sembra essere una pistola, ma in realtà è una macchina da presa. Per i Menoventi Smacchia, con il contributo di Alberto Berliocchi, realizza poi quello che diventerà il logo della compagnia: un gioco grafico di ribaltamenti e trasfigurazioni e l’accenno a una figura antropomorfa iperstilizzata. Ancora le tre giornate a Mondaino permettono sia al collettivo di ricerca teatrale fiorentino Sotteraneo sia al gruppo di osservatori e critici delle arti sceniche Altrevelocità di conoscere il lavoro di Smacchia e stringere future collaborazioni: nel 2009 la realizzazione della locandina dello spettacolo Dies irae – 5 episodi intorno alla fine della specie di Sotteraneo e nel 2011 il logo per Altrevelocità. Ma la partecipazione a quel seminario riserva a Smacchia ancora alcune sorprese.

Per la trentanovesima edizione del festival di Santarcangelo il comitato critico-organizzativo, composto da Silvia Bottiroli, Rodolfo Sacchettini e Cristina Ventrucci, anch’essi presenti a quell’incontro condotto da Fofi, propongono a Smacchia il lavoro di grafica per la realizzazione dei materiali visivi del festival. Lui in un primo momento è incerto, data l’enorme risonanza della manifestazione e la sua giovane età, ma poi accetta l’invito. Lavorerà a ben sei edizioni di Santarcangelo a partire dal 2009, curando la grafica di tutto il materiale promozionale cartaceo fino al 2014, l’ultimo anno di lavoro per lui e i tre membri del coordinamento. Nel corso di questa esperienza dona a ciascuna edizione un’estetica sempre nuova e mai scontata, sperimentando un vero e proprio scambio di saperi con gli stessi direttori artistici. Nel 2009, nel corso della prima riunione organizzativa del festival, tenutasi presso il Teatro Comandini a Cesena, Chiara Guidi insieme a Romeo Castellucci scelgono le fotografie di Alexey Titarenko, alle quali accostare un progetto grafico. Ancora Ermanna Montanari suggerisce a Smacchia il nome di Leila Marzocchi, un’autrice pubblicata da Coconino Press, per la realizzazione dell’immagine ufficiale della quarantunesima edizione del festival. Al disegno delle murene e alla fanghiglia melmosa che si trascinano dietro è accostato il respiro del bianco, il colore scelto per la grafica del catalogo di quell’edizione. In quegli anni il festival di Santarcangelo strizza l’occhio a un buon numero di illustratori emergenti appartenenti a una scena forse più underground e di rottura, offrendo occasioni d’incontro all’interno delle giornate di programmazione. L’edizione del 2012, ad esempio, dedica al cinema d’animazione una serata in Piazza Ganganelli, prevede un incontro pomeridiano con David Schilter, curatore della rivista lettone di fumetti Kuš!, e la circolazione durante tutta la durata del festival di un giornale disegnato, che restituisce la visione degli spettacoli attraverso delle vignette. Sempre nel corso di quell’anno, il 2012, Smacchia, ormai consapevole di quale segno e forma servano all’identità del festival, ha carta bianca sull’artista da scegliere per realizzare l’immagine ufficiale coordinandola al suo progetto grafico. La scelta piomba su un’illustratrice norvegese inedita in Italia, Mari Kanstad Johnsen, alla quale il festival internazionale di fumetto Bilbolbul tempo dopo dedicherà parte del suo programma.
Uno scambio aperto e possibile tra il lavoro di tutti i componenti dell’organizzazione e Smacchia si ripete quando si tratta di concepire due immagini per la quarantaduesima edizione, realizzate appositamente da lui. Una delle questioni della programmazione di quell’anno, il 2014, preme sul rapporto tra la nostra società e tutto ciò che invece sta fuori da essa, riconducibile in qualche modo al non ordinario, a ciò che è selvaggio ed esotico. Come dialogano questi due ambiti? Dopo diverse prove la scelta cade sul soggetto di una tigre. Su una delle due parti del manifesto compare il faccione marmorizzato del felino, ritratto quasi in una posa da fototessera, rimandando anche alla tipica iconografia dei grandi cartelloni pubblicitari dello zoo e abbracciando anche la dimensione del circo e del baraccone. Sulla facciata posteriore una tigre (forse la stessa di prima) fissa lo spettatore e calpesta una bicicletta rovesciata a terra in un ambiente di fatto poco caratterizzato. Quale dei due elementi, la bicicletta o la belva, ha invaso il territorio altrui, smarrendo i propri confini ma ampliando i propri margini di libertà e movimento? La tigre selvaggia sta occupando un giardino pubblico o un bambino si è addentrato impunemente in una giungla con la bici? Il disegno potrebbe essere la raffigurazione di una potenziale tragedia: la tigre ha divorato un bambino. O ancora il segno grafico potrebbe innescare una scena comica. La tigre decide di approfittare della bici e pedalare? Gli spazi vuoti di quest’opera lasciano tante possibilità all’immaginazione del lettore.
In quasi tutti i lavori di Smacchia, non soltanto quelli personali ma anche quelli pensati per lo spettacolo dal vivo, emerge allora la predilezione per un’immagine spiazzante e fastidiosa, come la scena che avrà di fronte il pubblico una volta entrato in sala. La rappresentazione si carica di incisività e turbamento ed è contraddistinta da un segno per niente affinato, destinato a rifiutare uno stile o una classificazione, una ricercatezza o una giusta composizione. Una certa dose di ambiguità e indicibilità, che sta alla base anche del fare teatro, assorbe il suo lavoro, assimilabile più a una sorta di esplorazione incerta. La raffigurazione è in grado di restituire all’osservatore vere e proprie gags-situazioni, basate su un difficile e inesprimibile equilibrio. L’immagine realizzata per la cartolina promozionale dello spettacolo Docile della compagnia Menoventi si muove in questa direzione. Occupano il centro della composizione una gabbia e una donna in piedi, con una veste attillata e le braccia allungate verso l’alto. Ha i piedi ben piantati a terra nell’unica porzione di spazio lasciata libera dall’inferriata. È un’acrobata, pronta ad eseguire un esercizio ginnico, o è una prigioniera decisa a evadere da quella gabbia? Il colore rosa scuro dello sfondo dona al soggetto un’atmosfera di artificio, di festa e di morte, di gioco crudele.
In Fine millennio: istruzioni per l’uso, una raccolta di articoli giornalistici di James G. Ballard da cui è tratta la citazione riportata all’inizio di questo contributo, l’autore ripercorre il secolo che ci siamo lasciati alle spalle trattandolo come un enorme ingrosso. Marlon Brando e Mae West, Barbarella e Velluto Blu, Chris Marker, il fumetto Dick Tracy, un elenco dei suoi libri preferiti, Shangai, la Coca-Cola. E poi ci sta dentro anche l’opera di Marco. 

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1.  J. G. Ballard, Fine millennio: istruzioni per l’uso, Milano, Baldini&Castoldi, 1999, p. 292

 

Damiano Pellegrino

Damiano Pellegrino ha conseguito la laurea triennale in Beni Culturali presso l’Università di Catania discutendo la tesi La macchina dei suoni. Immagini e scrittura nella fiaba “La famosa invasione degli orsi in Sicilia” di Dino Buzzati. Oltre ad occuparsi di teatro, prendendo parte dal 2015 all’esperienza del Teatro Coppola di Catania e dando vita a una rassegna di spettacoli e laboratori dedicati all’infanzia, collabora con “Altre Velocità. Redazione intermittente sulle arti sceniche” e “Arabeschi. Rivista di studi su letteratura e visualità”. Attualmente è iscritto al corso di laurea magistrale in Arti Visive presso l’Università di Bologna.