Mara Cerri attraverso lo specchio

di Chiara Lagani

Mara Cerri, “Toto, Dorothy, Frank Baum, Volpino, Tic Toc”, disegni per lo spettacolo di teatro ragazzi “OZ” di Fanny & Alexander

La prima volta che ho incontrato Mara Cerri era un giorno di fine estate a Mondaino, all’Arboreto, in occasione di un seminario pensato e voluto da Goffredo Fofi che vedeva scrittori, disegnatori e teatranti uniti in una tre giorni di scambi di pensieri e di pratiche. Era il 2008, cioè più di dieci anni fa ormai, e da quelle giornate derivarono, direttamente o indirettamente, incontri e progetti importanti del decennio successivo. Forse fu là che vennero gettati i semi della collaborazione tra Mara Cerri e Paolo Cognetti, ad esempio, che al tempo già pubblicava per Minimum fax, ma non era ancora così conosciuto: non aveva nemmeno scritto, per intenderci, Sofia veste sempre di nero, credo, e certo nessuno si immaginava da quel giovane un po’ schivo e taciturno, ma molto affascinante, che di lì a pochi anni avrebbe addirittura girato l’Italia e il mondo vincendo lo Strega. Poi c’erano Menoventi e Teatro Sotterraneo, che là conobbero Marco Smacchia, con cui avrebbero presto collaborato in vario modo e con esiti a volte sorprendenti e ci fu l’incontro sempre di Smacchia con quello che sarebbe di lì a poco stato il team direttivo del festival di Santarcangelo (Bottiroli, Sacchettini e Ventrucci, coordinamento critico organizzativo del festival dal 2009-11, direzione e co-direzione artistica dal 2012-14): chissà che non fu proprio allora, magari per qualcosa che si dissero, che ebbe origine la prima scintilla di interesse che portò poi a quella che fu una lunga collaborazione sulla grafica del festival, senza che ancora lo sapessero.

Voglio dire che non è mai facile fissare cronologie precise per gli incontri artistici, come per quelli amorosi del resto, ma in certo senso potrei dire che, forse, anche il mio incontro con Mara, se proprio dovessi indicare una data all’anagrafe, per le strane e remote vie che prendono le vicinanze e i rispecchiamenti reciproci nel tempo, ha origine proprio in quelle giornate. Io assistei all’incontro finale di questa tre giorni, in realtà, senza partecipare al seminario vero e proprio, che si dava in forma chiusa. Ricordo con precisione ed esattezza la sensazione che provai nel sentire parlare il piccolo gruppo dei disegnatori. Erano Mara, Magda Guidi e Andrea Petrucci, e anche Virginia Mori e Sergio Gutierrez se ricordo bene, e poi c’era Marco Smacchia appunto. Li guardavo parlare come si guardano gli animali di una razza diversa dalla nostra, o come si guarda un alieno, un marziano che ti porta un pezzo di un nuovo mondo, il suo, finora per te impensabile, fatto di un linguaggio che ti piace ma che non capisci interamente. Muovevano le mani parlando e io li seguivo ipnotizzata, mi perdevo nelle loro bolle di silenzio e nelle loro parole che, per quanto si scusassero in continuazione lamentandosi di non essere abituati ad usarle, mi parvero belle di una bellezza sconosciuta, esotica, irresistibile.

Da allora cominciai a seguire abitualmente il lavoro di alcuni di loro, in particolare di Mara, Magda e Marco direi. Un giorno vidi un disegno di Mara che mi colpì moltissimo. Si trovava sulla copertina dello «Straniero» di Goffredo Fofi e raffigurava una ragazzina con una maglietta blu e i pantaloncini rossi. La ragazza aveva un caschetto di capelli biondi e gli occhi azzurri fissi sulla propria copia: un essere molto simile, ma di sesso maschile, che teneva in braccio, come fosse un manichino. A guardar bene, l’altro non era che un guscio, una strana armatura di ferro o latta – pensai, ma solo perché era grigia – che prima conteneva la ragazza, come un involucro perfetto, ma che poi si era rotta, andando in frantumi. I pezzi del corpo di latta giacevano tutto intorno, ai piedi della fanciulla, ancora rivestiti parzialmente del corpo-guaina ora spezzato. Era un abbraccio incantato, il loro, quasi privo di passione, lo sguardo pieno di stupita, serena accettazione. In quel periodo con la mia compagnia, Fanny & Alexander, stavo mettendo in scena un ciclo di spettacoli dedicato alle storie del Mago di Oz e, vedendo quell’immagine, mi venne subito in mente il Boscaiolo di latta e anche la fanciulla di cui, nel racconto, lui si innamora. La storia è nota: una strega cattiva per impedire quest’amore incanta la scure del taglialegna innamorato perché la bellissima giovane è anche una specie di schiava della strega e lei non vuole perdere i suoi servigi. La scure si abbatte allora implacabile sul giovane, mentre è al lavoro, con furia omicida e gli taglia le braccia, le gambe, la testa, gli spacca il corpo a metà. Ma un fabbro raccoglie i pezzi e li rimette assieme: ne nasce un uomo di latta, bellissimo e lucente e la fanciulla lo ama, se possibile, ancora più di prima, perché il suo corpo è ora stupendo, quando brilla meravigliosamente al sole. Ma l’uomo non può più amare la fanciulla, perché ha perduto il cuore. Niente cuore, niente amore. Tutto vuoto.
In futuro avrei imparato che quel disegno, nelle intenzioni originarie di Mara, era un solo personaggio: una ragazzina che porta in braccio il suo stesso involucro grigio. Quell’involucro per Mara era ambiguo, in bilico tra la fragilità di una terracotta e la durezza di una corazza, di un’armatura. Forse proprio questo aspetto, ci siamo dette poi, aveva generato in me l’idea di Nimmie Amee, la ragazza di Oz, col suo Boscaiolo a pezzi: avevo inserito l’elemento maschile che avrebbe dato origine, nel nostro futuro lavoro su Oz assieme, all’immagine dei due amanti per come è ora. Ma sarebbero passati degli anni ancora, e certo in quel momento nessuna delle due poteva immaginare che ci saremmo incontrate in quel modo. No, anzi, questo non è del tutto vero. In realtà io, in tutti questi anni, ho inseguito incessantemente il lavoro di Mara, spinta sempre da un’attrazione fortissima.

Adesso vorrei provare a comporre, se mi riesce, una breve presentazione di lei, un piccolo ritratto scritto, meno fulmineo ed esatto, magari, dei tanti disegnati che poi lei mi ha fatto, ma tant’è.
Mara Cerri, pesarese, è creatura marina e terrestre al contempo. Condivide coi marchigiani le improvvise incandescenze di follia visionaria che possono stupire e a volte paralizzare chi ne fa esperienza; inoltre la lingua dolce e ventosa, come il più fiorito dei vini (che lascia però la sua impronta amara).
Se dovete immaginare la sua casa, i luoghi che ella vive, pensateli pieni di luce, regolati dal caos ordinato delle sue molte ore di creazione, privi di confine tra il giorno e le notti delle sue visioni, sempre aperti per quelli che ama. Il suo mare è un gran mare calmo e metallico che cova tempeste, ma se fosse una montagna vi respireresti un’aria tanto pura da far bruciare le narici, profumata di boschi e abeti. Che sia un maniero a picco sul mare o una baita lambita dall’oceano, se amate inebriarvi di bellezza e di vita, qui potrete sostare.
Mara, come tutti gli artisti veri, non si fa mai troppi sconti e questa è la sua grande virtù e al contempo la sua dannazione. L’ho vista affrontare tirate di lavoro estenuanti senza quasi accorgersi della fatica, mai paga, sempre alla ricerca di quel salto-vertigine da far fare alle figure, ai colori, ai guizzi delle sue intuizioni. A volte mi innamoro dei suoi disegni meno rifiniti, più schizzati, “veloci” come dice lei, disegni che per lei magari sono solo le basi di un lavoro che verrà e allora quasi mi rimprovera, se la spingo a mostrarli, se la convinco a pubblicarli in un dossier speciale o altrove, anche se poi solitamente acconsente, perché Mara ha un animo grande e un cuore generoso e raramente tiene stretti i suoi molti doni.
Dopo la Scuola del libro di Urbino, una delle migliori che abbiamo in Italia, circondata da colleghi che poi diventeranno anche compagni di alcune delle sue avventure, Mara Cerri inizia a lavorare indefessamente, pubblicando con Orecchio acerbo editore, Emme edizioni, Fabbri editore, E/O, e collaborando con numerosi quotidiani e riviste (Il manifesto, Lo straniero, Diario, Carta, Internazionale…). Non si ferma mai: negli anni, spinta da una furia e una voracità che hanno del sorprendente, dà vita a cortometraggi di animazione (tra cui lo stupendo via Curiel 8, storia mirabilmente delicata e struggente di un vuoto d’amore, realizzato assieme a Magda Guidi, con cui le due artiste si aggiudicano il primo posto al Torino Film festival 2011, nella Sezione Corti), poi albi illustrati, mostre collettive e monografiche (tra le quali la recente Tra sonno e veglia, allestita nel 2018 a Riccione in occasione del TTV Festival e ancora oggi in tournée, che rappresenta uno spaccato considerevole dell’itinerario artistico della Cerri). Ma non solo: stringe collaborazioni strette con scrittori e poeti (Paolo Cognetti, lo si diceva; poi Andrea Bajani e Albino Pierro, tra gli altri). Disegna manifesti, anche per il cinema (Lazzaro felice di Alice Rohrwacher) o per l’ultimo Salone del Libro di Torino e inoltre insegna, prima anche a Bologna, in Accademia, e ora nella sua amata Urbino, dopo essersi ritrasferita a Pesaro, magnetica e controversa come solo le città natali.

Quando, ormai quasi tre anni fa, Einaudi mi incaricò di tradurre per la collana dei Millenni i quattordici Libri di Oz di Frank Baum, su cui da tempo lavoravo in teatro, pensai immediatamente a Mara come illustratrice, ricordandomi di quell’immagine galeotta della ragazzina col corpo a pezzi. Andando a cercare sul web per mettere insieme una sorta di portfolio ad hoc dei suoi disegni da portarmi in casa editrice, trovai inaspettatamente frammenti sparsi di un immaginario già tutto oziano, come se senza saperlo Mara stesse illustrando da anni, a strati, tanti degli archetipi di quelle storie. C’era, ad esempio, una grande scarpetta rossa che faceva da letto a due ragazze, che vi giacevano dentro abbandonate nella più estatica delle reciproche confidenze: ci vidi Dorothy che, arrivata da Glinda, trova una sorella, una se stessa più saggia, più grande e più bella, una che conosce il segreto delle cose e la via del ritorno e glieli rivela maliziosamente ed enigmaticamente. Poi c’erano gli animali, alter ego silenti acquattati sotto il letto, alle spalle, accanto alle fanciulle. Una giovane donna languida che appende i suoi capelli ad asciugare al porta-asciugamani di un bagno piastrellato e un’altra che si avvolge le nuvole al collo come una sciarpa: tutte le regine, le divinità madri, sacre e al contempo vagamente spensierate, di quell’oscuro, ilare mondo, Oz. Per non parlare delle molte immagini da via Curiel 8: la ragazza che fissa la sua stessa casa, in miniatura, e dentro vi si rivede vivere, in una sorta di regressione infinita, senza ritorno. Insomma, entusiasta della mia proposta, confesso che andai da Mara piuttosto sicura e fiduciosa della sua risposta e le chiesi dunque se voleva illustrare quel mio Millennio. La sua reazione, ancora una volta, mi spiazzò. Mi guardò molto seria e un po’ severa, almeno io la percepivo così, e mi disse, lo ricordo molto bene: «io non sono interessata a illustrare le cose così come sono scritte». Ed era chiarissimo quel che voleva dire: se ti immagini una disegnatrice che segue alla lettera le istruzioni, e che si limita al dettato del grembiulino a quadretti azzurri e bianchi di Dorothy, della casa fatta col legno che «avevano dovuto portare da lontano», se vuoi qualcuno, insomma, che ti chiuda le figure del racconto dentro una cornice rassicurante e affermativa, io non sono la persona che fa per te.
Così è iniziata la nostra avventura: un gioco mai fermo, sempre mobile e impermanente, in cui le forme nascevano dalle intuizioni più imprevedibili, perché Mara lavora così, e anche le sue immagini non si fermano mai, e sono piene di strane, libere associazioni. C’è sempre un’increspatura tra il suo mondo interiore e la realtà, e le sue visioni sono spesso anche l’eco che il quotidiano imprime nella sua esperienza, che viene poi ribaltata e proiettata verso l’esterno con ironia e disincanto, ma con inneschi magici sempre imprevedibili. Guardare le figure di Mara è come attraversare un paesaggio in movimento: quando credi di avere afferrato un profilo, ecco che lo riperdi, quando credi di avere una risposta, ecco nascere una nuova domanda. Come Alice attraverso lo specchio, puoi leggere davvero il suo mondo solo se accetti di entrare in un sistema di regole molto preciso, in cui nulla è mai quello che sembra e tutto alla fine può esser letto in profondità, anche e proprio sulla superficie dei corpi: quella pellicola senza volume che li circonda può nascondere spine, stelle, proiettili, fiori imprevisti. E prima seguendo la frontiera delle figure, i loro confini talora esili, poi affondando in slarghi di colore pastoso e illuminato, ecco che si accede alle profondità di Mara: e allora, casomai, il rischio, se ti sporgi troppo a guardare, è di essere imprevedibilmente risucchiato da quei fondali misteriosi, lontano dall’apparente superficie, che ormai ha liberato irrimediabilmente i suoi molti corpi e le loro arcane manifestazioni.

 

Chiara Lagani

Chiara Lagani, attrice e drammaturga, scrive i testi originali degli spettacoli del gruppo Fanny & Alexander, con base a Ravenna e attivo in Italia ed Europa. Il gruppo, fondato da lei e da Luigi De Angelis nel 1992, gestisce attualmente a Ravenna gli ex-magazzini dello zolfo denominati “Almagià”, adibiti oggi a teatro, centro culturale e spazio dedicato ad attività musicali e performative di vario tipo. Con Luigi De Angelis, Chiara Lagani condivide l’ideazione e la direzione artistica di tutti i progetti del gruppo.
Nel 2017 si aggiudica il Premio Riccione Speciale per l’Innovazione drammaturgica e l’anno successivo le è dedicata una monografia al Riccione TTV festival. Sempre nel 2017 scrive a quattro mani con Elio Germano lo spettacolo La mia battaglia che debutta a Riccione nella stagione 2017/18.
Ha curato e tradotto per Einaudi un Millennio con i 14 Libri di Oz di Frank L. Baum (2017) illustrato da Mara Cerri e sta attualmente traducendo, sempre per Einaudi, il terzo romanzo di Lewis Caroll, di prossima uscita.

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