Gina Pane, tra immediatezza e composizione

di Chiara Pirri Valentini

Gina Pane – foto da https://it.qwe.wiki/wiki/Gina_Pane

Nel 1939 Gina Pane nasce a Biarritz, elegante località balneare sulla costa basca francese al confine con la Spagna, paradiso per surfisti e amanti delle onde lunghe. Il padre, un restauratore di pianoforti, è italiano, la madre è austriaca. Passa l’infanzia e la giovinezza a Torino, città che resterà per lei molto importante, anche dopo il trasferimento in Francia. Nel 1961, all’età di ventuno anni, si installa a Parigi per studiare all’Ecole de Beaux-Arts, specializzandosi in pittura e litografia e approfondendo la sua pratica artistica presso gli Ateliers d’Art Sacré. Questa scuola, nata nel ventesimo secolo, vuole favorire l’emergere di un’arte sacra moderna e accessibile al grande pubblico e sarà un riferimento importante nella carriera artistica di Pane, sebbene raramente menzionata nei testi a lei dedicati. Della sua vita privata si conosce poco, se non che negli ultimi anni, prima di una morte prematura a causa di un tumore nel 1990, era in coppia con Anne Marchand, protagonista del suo corto-metraggio Solitrac (1968). Anne Marchand è oggi legataria universale di Gina Pane, detentrice dei diritti di una vasta collezione d’opere, in gran parte donate a musei pubblici.

In una primissima fase, subito dopo gli studi, Gina Pane si dedica alla pittura e alla scultura, producendo grandi quadri e sculture, quest’ultime denominate Structures affirmées (1965-1967), caratterizzati da forme geometriche e colori netti. Questo primo vocabolario formale trae ispirazione dalle opere di Malevi e dei costruttivisti russi ma ricorda anche le sculture contemporanee di artisti americani minimalisti, come Donald Judd o Robert Morris. Come loro, Gina Pane costruisce “ambienti-sculture” partendo da elementi modulari di fattura industriale. Allineati a terra su una base bassa, i pilastri in ferro zincato di Barrière Impenetrable bloccano il passaggio dello spettatore, che cercando di farsi strada attraverso i vuoti creati dall’inclinazione delle lastre di metallo, è chiamato a prendere coscienza del proprio corpo e dello spazio che lo circonda. Quello di Gina Pane è un invito a vivere la scultura, sperimentarla fisicamente, piuttosto che osservarla soltanto. Come vedremo in seguito, ma come pare chiaro già da queste prime indicazioni, il percorso di Pane attraverso l’arte segue una vocazione chiara, una visione, la sua poetica evolve in modo coerente dai primi passi fino alle ultime opere prodotte.

Dopo le prime esperienze plastiche, dal 1968 in poi Pane favorisce un’espressione, apparentemente più diretta, che passi per il corpo fisico.
Gli anni in cui l’artista inizia ad essere conosciuta sono quelli delle proteste giovanili, che influenzano fortemente il suo operato come quello dei suoi coetanei artisti.
Era la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta: dopo l’happening, che emerge nella East Coast a partire dagli anni Cinquanta come pratica teatrale fuori dal teatro, assistiamo alla nascita della performance art, questa volta nella West Coast. La performance art si diffonde in America e in Europa, come pratica che pone al centro il corpo dell’artista, protagonista attraverso un evento che si caratterizza per la sua unicità temporale. La pratica a cui ci interesseremo maggiormente, all’interno della performance art, è quella della body-art, che si caratterizza per il superamento dei limiti del corpo e la ricerca del rischio per una attivazione della coscienza fisica e sociale (1).
Alla fine degli anni Sessanta, in Francia, dove la body-art si traduce con il termine art corporel, Gina Pane affermerà: «Ho capito che era precisamente lui, il mio corpo, l’elemento centrale della mia idea artistica» (2). È il critico d’arte Françoise Pluchard, che si occupò molto del lavoro di Gina Pane, a utilizzare per primo il termine art corporel, proprio e anche in riferimento al lavoro dell’artista franco-italiana. Il suo testo, L’art corporel, è edito nel 1974 da Rodolphe Stadler ma già qualche anno prima Pluchard aveva pubblicato delle sue Notes sur l’art corporel sulla rivista «arTitudes international», da lui stesso fondata, che ebbe un ruolo molto importante in Francia nell’analisi dei fenomeni legati alla performance art. Gina Pane stessa prende spesso la parola su questa rivista, attraverso interviste o scritti in prima persona ed è oggetto di numerosi articoli insieme ai suoi colleghi internazionali.
La situazione è molto diversa in Italia, dove non esiste un termine per definire la body-art. Le performance che hanno luogo in questi anni, azioni performative che mettono in luce il protagonismo dell’artista, spesso veicolate dal mezzo fotografico o dal video, sono definite “comportamenti” dai critici Achille Bonitoliva e Germano Celant.
Perché in Italia, diversamente da altri stati europei, manca un termine per definire la body-art? Semplicemente perché, fino agli anni Novanta, questa forma artistica non è praticata in modo esclusivo da nessuno dei protagonisti della scena contemporanea italiana. Artisti come Kounellis, Calzolari, Prini e altri rappresentanti dell’arte povera, pongono il corpo come protagonista a complemento di una pratica plastica o pittorica. Le performance degli artisti italiani degli anni Settanta, come anche la poesia d’azione, che in Italia si diffonde a partire dal 1963, non sono assimilabili alla body-art.
In Italia comunque si sviluppa, da parte di musei e studiosi, una particolare attenzione al lavoro di Pane, e una tendenza a sottolineare le sue origini e il rapporto con il contesto artistico italiano, quasi a voler rivendicare in lei un’esponente di quel movimento, tanto importante in Europa e in America, che è penetrato solo molto più tardi nella penisola.
Ma è davvero la body-art il campo di espressione di Gina Pane?

La serie di opere, che verranno poi definite “azioni”, e alle quali l’artista dedicherà la sua pratica artistica fino al 1980 circa, ha inizio con Pierres deplacées (1968). Una piccola catasta di pietre è “spostata” dall’artista per essere esposta al sole, in un paesaggio arido, mentre i gesti sono registrati dal mezzo fotografico. Vicina alle scelte paesaggistiche della land-art di Richard Long (anch’essa diffusasi negli anni Settanta come emanazione della performance art) ma anche alle riflessioni sul rapporto tra uomo e natura portate avanti dall’esperienza poverista di Giulio Penone, Pierres deplacées dà vita ad una serie di prime azioni che hanno luogo in spazi aperti. È il caso di Situation idéale: Terre – Artiste – Ciel (1969) o di Enfoncement d’un rayon de soleil (1969), come anche di Terre protegée, in cui il corpo dell’artista è ritratto adagiato a terra, con i piedi in primo piano e il viso che scompare dietro il petto.
A proposito di questa azione l’artista scrive: «(…) Ho protetto un pezzo di terra equivalente allo spazio del mio corpo – l’ho protetto per quattro ore, senza muovermi e di nuovo si è trattato di una specie di… quasi… affetto che ho provato per questa terra che mi mancava, che mi manca, certamente. L’ho protetto con la mia carne, operando un’analogia tra qualcosa di biologico e qualcosa di materiale, che si completano a vicenda. La terra è la fonte del mio organismo biologico e la proteggo perché sono colpevole del fatto che non esista più, che stia scomparendo» (3). Notiamo come il non mostrare il volto sia sintomatico di una volontà di oggettivazione del soggetto a favore di un paesaggio che diventa protagonista insieme ad un corpo, figura iconica. In molte altre delle sue azioni Pane nasconderà il volto, mostrandosi di spalle o da angolazioni laterali, senza pertanto esprimere una esplicita e violenta volontà di cancellazione dell’Io, che avrebbe come effetto contrario quello di far passare il soggetto in primo piano nella sua assenza.
Contemporaneamente a queste prime azioni, testimoni di un rapporto olistico con la natura, Gina Pane crea sculture vicine all’esperienza dell’arte povera, che sembra comunque essere (insieme alle pratiche performative di provenienza americana), tra le maggiori fonti di ispirazioni dell’artista (come si accennava prima, alcuni critici italiani avranno tendenza ad affermare addirittura che l’Arte Povera è l’ambiente culturale da cui nasce la pratica dell’artista italo-francese). È il caso ad esempio di Souvenir enroulé d’un matin bleu (1969), un rotolino di carta celeste fissato alla parete attraverso una piccola struttura metallica in cui è incisa in stampatello la frase «sogno andato di un mattino blu», o di Dessin verouillé (1968), in cui l’artista pone all’interno di una scatola di ferro un disegno sconosciuto. In particolare in quest’ultima opera vi è una memoria duchampiana (come in molta arte concettuale) e manzoniana (di Piero) ma già compaiono i tagli suturati.
È qualche anno dopo, con Azione Sentimentale, che Gina Pane assurge all’apice della sua fama per cui ancora oggi è ricordata. Quest’opera del 1973, che prende vita nella galleria milanese Diagramma, ci dà modo di analizzare il processo di creazione (quasi un protocollo) attuato da Pane, in modo sistematico, per ogni sua opera-azione. Credo che il termine esatto per definire ciò che Pane mette in atto nella costruzione delle sue azioni sia “partitura”, parola che tornerà nel lavoro dell’artista dopo questo primo e lungo periodo dedicato alle azioni performative. Come dalle sue stesse parole in un’intervista ad «arTitude»: «Ogni azione era costruita in tre fasi ed era preceduta prima di tutto da una serie di schizzi, disegni preparatori che indicavano l’intera struttura. Poi era il momento dell’azione vera e propria in cui operavo le piccole mutilazioni sul mio corpo. Il fotografo lavora in relazione ai disegni preparatori. (…) L’azione del corpo non è mai pensata come un’opera effimera, ma come una composizione murale composta da tre passaggi» (4). È evidente come il disegno e la pittura non abbiano mai abbandonato l’opera di Pane, che definisce la sua una «pratica pittorica del corpo». Il pittore è interno ed esterno all’opera e la fotografia funge qui da pennello. Non è mai stato possibile chiarire il grado di autonomia della fotografa con cui l’artista ha a lungo collaborato, Françoise Masson, nella produzione delle foto che compongono la testimonianza dell’azione e allo stesso tempo l’opera stessa, ma Pane sosteneva che: «non è il fotografo che ha realizzato la foto, né io, l’abbiamo fatta insieme» (5).
Alla domanda sul perché della fotografia, la risposta era spesso che questo strumento permetteva che nessuno si sentisse frustrato dal non aver potuto assistere alla performance: uno strumento di democrazia ma anche uno strumento che guidi lo sguardo dello spettatore nella lettura dell’opera performativa. Le fotografie che compongono Azione Sentimentale sono spesso piani ravvicinati o primi piani, il che, secondo Philippe Dubois, permetteva di amplificare e celebrare il corpo, e aggiungerei, di influire sulla reazione emotiva legata all’opera. Nel video d’archivio della performance vediamo Gina Pane entrare in scena (è proprio il caso di dirlo!) con un mazzo di rose (bianche nel primo set, rosse nel secondo) operando dei gesti ripetitivi senza mai mostrare il viso: alzare e abbassare il bouquet, sdraiarsi a terra a gambe larghe (come in Terre protegée) portando i fiori sul ventre, stare in piedi facendo passare le rose in mezzo alle gambe divaricate come se questi fossero il prolungamento del proprio stesso sesso… Solo alla fine, abbandonate le rose, l’artista estrae dall’interno di un fazzoletto le spine che conficcherà nella pelle del suo avambraccio, per poi effettuare un taglio sul palmo della mano con una lametta, lasciando fuoriuscire quel sangue rosso che porta lo stesso colore delle rose. I fiori, simbolo del discorso amoroso, entrano a far parte del suo corpo, lasciando impresse negli spettatori del tempo e nei posteri le immagini per cui Pane è divenuta un’artista celebrata.

Gina Pane non era l’unica al tempo a mettere alla prova la resistenza del proprio corpo attraverso azioni performative, in quegli stessi anni Ulay si cuciva le labbra, Chris Burden si faceva crocifiggere su una Volkswagen, il gruppo viennese Wiener Aktionismus (composto da Günter Brus, Otto Muehl, Hermann Nitsch e Rudolf Schwarzkogler) operava azioni ad alto tasso di violenza fisica. L’artista francese Orlan già praticava i suoi esperimenti di chirurgia estetica volti a mettere in luce le contraddizioni vissute dal corpo femminile. Ciò che accomunava tutte queste performance era l’intrinseco intento di protesta politica. La cubana Ana Mendieta, nello stesso anno di Azione Sentimentale, scandalizza il suo pubblico con Untitled (Rape Performance). Qui l’artista, la cui pratica è improntata a rituali di memoria tribale, oltre che agli ideali femministi, si fa trovare nella penombra del proprio appartamento, nuda, ricurva sul tavolo, legata e insanguinata, mentre inscena brutalmente uno stupro. Mendieta, la cui pratica artistica era stata fortemente influenzata dalla deportazione subita in giovane età ad opera di un piano anti-comunista, che da Cuba l’aveva portata negli Stati Uniti, commentava così la sua esperienza infantile: «era come se fossi stata strappata dal ventre materno».
Qual è il posto di Gina Pane all’interno di questo scenario di performance politicamente engagée?
«Per me che sono una donna, la ferita esprime anche il mio sesso, esprime anche la schisi sanguinante del mio sesso. Questa ferita ha il tono del discorso femminile. Aprire il mio corpo comporta per me sia dolore che piacere» (6). Potremmo quindi affermare che vi è un impegno femminista nell’opera di Pane ma il suo “concetto” non si esaurisce in un intento politico. Infatti la stessa artista afferma anche che, nell’aprire il proprio corpo, ella permette a chi guarda di riconoscere il proprio stesso sangue, lo fa «per amore vostro: per l’Altro». Ecco che emerge un altro tema molto importante relativamente all’opera di Pane, quello legato alla spiritualità. L’arte di Pane è volta al religioso, inteso nel senso etimologico come qualcosa che unisce (dal latino “religare”, unire). Le mutilazioni che l’artista infligge al suo corpo attraverso l’uso delle spine alludono alle stigmate di Gesù durante la crocifissione, simbolo dell’offerta della propria vita per salvare il popolo.
Riportare il divino al corpo, al suo legame con la materia carnale, con la terra (la rosa) è qualcosa che accompagna trasversalmente l’opera dell’artista, fino alla fine, mentre è già evidente nel periodo di studi parigino.
L’interesse di Gina Pane per il religioso non ha nulla di “istituzionale”, quanto esprime un intento verso l’Altro e la volontà di riconoscere un aspetto spirituale “nella vita comune degli esseri umani”. Un simile sentimento di empatia sociale è già espresso in Je, performance che precede di un anno Azione Sentimentale, e in cui l’artista si pone sospesa sul cornicione di una finestra della galleria Arges a Bruxelles.
Ecco cosa scrive subito dopo l’esecuzione della sua azione: «mettendo il mio corpo sul davanzale della finestra tra due zone: una privata ed una pubblica, volevo esprimere un potere di trasposizione che infrangesse i limiti dell’individualità, fino a far sì che l’“IO” partecipasse all’ “ALTRO”» (7).
Anche attraverso questa performance, come per le successive, non è quindi lo scandalo o la provocazione ciò che l’artista ricerca – a differenza di altri artisti del tempo – ma una forma di condivisione, di corpo sociale, unito al gesto poetico, iconografico e sacro.
Anche in questa occasione, come altrove lungo questa breve analisi, le parole di Pane accompagnano la pratica artistica. Diversamente da altri colleghi, Pane amava analizzare il proprio lavoro, offrire allo spettatore uno sguardo autoriale sulla propria poetica attraverso la parola, spesso scritta a mano sugli schizzi preparatori. Ci chiediamo se questo non fosse un modo per Pane di far sì che la propria opera si distinguesse dalle altre esperienze performative a lei contemporanee, poiché è in effetti anche grazie alle sue parole che riusciamo, oggi come ieri, a cogliere l’originalità del suo lavoro rispetto al contesto in cui nasce e si sviluppa.

Spesso tralasciato è l’ultimo periodo di produzione dell’artista, quello delle Partitions, serie che l’accompagna fino alla fine. Dopo aver utilizzato la fotografia come strumento pittorico del corpo in movimento, attraverso strutture ben precise dettate da disegni preparatori, Pane torna alla scultura, senza dimenticare l’esperienza performativa. All’inizio degli Ottanta quindi, abbandona le azioni per creare le meno note Partitions, installazioni, spesso a parete, che portano con sé, anche se solo in modo parziale, tracce e residui di opere precedenti o delle stesse azioni.
In seguito, dal 1984 in poi, ogni riferimento alle azioni scompare e le opere successive che faranno parte di questo stesso ciclo si ispirano alla Legenda aurea, romanzo agiografico scritto da Jacopo da Varagine nel XIII secolo, sulla vita di quei martiri che accettarono la sofferenza nella speranza di operare un’azione positiva sul mondo a loro contemporaneo. Per rappresentarli, l’artista trae inizialmente spunto dai dipinti di maestri del Rinascimento come Paolo Ucello, Hans Memling o Filippo Lippi. I corpi dei santi sono ridotti a poche posture, per poi scomparire completamente, lasciando di sé solo una leggera impronta, incisa in filigrana, nelle lastre di metallo che compongono le ultime Partitions.
In opere come François d’Assise trois fois aux blessure, stigmatisé. Verification version 1 (1985-1987) il metallo e il vetro si fanno veicolo del rapporto tra cielo e terra, dell’ascensione, del corpo tra sacro e profano, fatto di carne e sangue. Queste Partitions sono come delle vere icone di matrice contemporanea, che approfondiscono i temi del sacro attraverso i linguaggi contemporanei, ciò che l’artista ha studiato agli Ateliers d’Art Sacré di Parigi, in età giovanile.

Il cerchio si chiude, si torna al sacro, mentre notiamo come la centralità del corpo sia stata l’elemento conduttore di tutta l’opera di Gina Pane, fin dalle prime sculture. E mentre ne proliferava l’esposizione come atto politico, Pane pone il corpo al centro senza teatralizzarlo, situandolo all’interno di un tracciato e di una visione ben precisa in grado di sublimare la carne avvicinandola al sacro.
«La lentezza, le pause tra i gesti, il tempo meditativo e la luce bianca erano tutti elementi destinati ad eliminare la narrazione, allontanare il senso di confessione soggettiva, escludere il rischio di teatralità. L’azione fu in questo modo composta solo da immagini pure, in cui visione e pensiero dialogavano senza discontinuità» (8).
La composizione, il disegno della partitura che precede l’azione, si affermano come un atto sovversivo in un contesto in cui persevera la performance come atto effimero. Le sue azioni sono pensate per essere “immortali” e allo stesso tempo la coerenza del percorso e la forza emotiva delle sue opere fanno sì che il suo messaggio non si iscriva in un’epoca o in una corrente ma acquisisca un registro universale, capace di attraversare le epoche. Il lavoro di Gina Pane, spentasi alla giovane età di 51 anni, arriva fino a noi con la stessa forza di un tempo, frutto di un percorso organico e concluso, sebbene la fine della sua carriera sia arrivata troppo presto e questo lasci in noi il desiderio di chiedersi “come sarebbe stato se…”.

 

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1. Per approfondire il tema della Performance Art (in Italia), cfr. Sciami n.7: https://webzine.sciami.com/galassia-performance-art
2. «J’ai compris que c’était précisément lui, mon corps, l’élément fondamental de mon concept», Gina Pane, citazione riportata in: Blandine CHAVANNE, Julia HOUNTOU, Gina Pane, lettre à un(e) inconnu(e), Ecole nationale Supérieure des beaux-arts. Ecrits d’artistes, Paris 2003 (traduzione dal francese di Chiara Pirri Valentini)
3. «(…) j’ai protégé un morceau de terre équivalent à l’espace de mon corps – je l’ai protégé pendant 4 heures, sans bouger et encore une fois c’était une sorte de… de… presque d’affection que j’avais pour cette terre qui me manquait, qui me manque, évidemment. Mais je l’ai protégée avec ma chair, c’est-à-dire que j’ai fait une analogie entre un fait biologique et un fait matériel se complètent l’un l’autre. La terre est nourricière de mon propre organisme biologique et moi, je la protège parce que je suis coupable de ce qu’elle n’existe plus, de ce qu’elle disparaît», Gina Pane, citazione riportata in: brochure della mostra Gina Pane, Mac Val, Museo d’arte contemporanea, Vitry sur Seine: http://www.macval.fr/Gina-Pane-4315 (traduzione dal francese di Chiara Pirri Valentini)
4. «Chaque action était construite en 3 étapes. Elle était précédée tout d’abord d’une série d’esquisses, de dessins préparatoires où se mettait en en place toute la structure. Puis venait l’action proprement dite au sein de laquelle je me mutilais. Le photographe travaillant en relation aux dessins préparatoires. (…) L’action corporelle n’a jamais été pensé comme une œuvre éphémère, mais comme une composition murale composée en 3 temps», intervista a Gina Pane del 1989, riportata in Sophie Delpeux, Le corps- caméra. Le performer et son image, Editions Textuel, 2010 (traduzione dal francese di Chiara Pirri Valentini)
5. «Ce n’est pas le photographe qui a fait la photo, ni moi. Nous l’avons faite ensemble», Gina Pane, citazione riportata in: Sophie Delpeux, Le corps- caméra. Le performer et son image, Editions Textuel, 2010 (traduzione dal francese di Chiara Pirri Valentini)
6. «Pour moi qui suis une femme, la blessure exprime aussi mon sexe, elle exprime aussi la fente saignante de mon sexe. Cette blessure a le caractère du discours féminin. L’ouverture de mon corps implique aussi bien la douleur que le plaisir», Gina Pane, citazione riportata in: Blandine CHAVANNE, Julia HOUNTOU, Gina Pane, lettre à un(e) inconnu(e), Ecole nationale Supérieure des beaux-arts. Ecrits d’artistes, Paris 2003 (traduzione dal francese di Chiara Pirri Valentini)
7. «En plaçant mon corps sur le parapet de la fenêtre entre deux zones: l’une privée, l’autre publique, j’ai eu un pouvoir de transposition qui a brisé les limites de l’individualité pour que “JE” participe à “l’AUTRE”». Testo dattiloscritto redatto da Gina Pane dopo l’azione, conservato negli archivi dell’artista, a Parigi (traduzione dal francese di Chiara Pirri Valentini)
8. «la lenteur, les pauses entre les gestes,la durée méditative et la lumière blanche furent autant d’éléments destinés à couper court au moindre récit, à la moindre confession d’un individu, à la moindre action théâtrale . L’action fût aussi composée uniquement d’images pures, dans lesquelles la vision et la pensée échangent sans discontinuité», Gina Pane, citazione riportata in: Blandine CHAVANNE, Julia HOUNTOU, Gina Pane, lettre à un(e) inconnu(e), Ecole nationale Supérieure des beaux-arts. Ecrits d’artistes, Paris 2003 (traduzione dal francese di Chiara Pirri Valentini)

 

Chiara Pirri Valentini

Chiara Pirri Valentini (Roma, 1989), residente a Parigi, è studiosa, project-manager e giornalista, capo redattrice “arti performative” per Artribune. Interessata allo studio delle pratiche performative e al dialogo tra i linguaggi coreografici e le arti visive, ha scritto per numerose riviste, in Italia e all’estero, e curato progetti multimediali per festival e istituzioni, tra cui Centrale Fies, il Macro di Roma e Romaeuropa festival. Per quest’ultimo cura i contenuti dei programmi di sala fin dal 2016, sotto forma di interviste agli artisti. Nel 2019 da vita a VoicesOfOthers (https://www.voicesofothers.com/), progetto on-going e sito-archivio di interviste e conversazioni con artisti, curatori, direttori artistici, tecnici e addetti ai lavori provenienti da diverse aeree geografiche e campi dell’arte, attraverso cui l’autrice nutre il desiderio di ascolto che da sempre caratterizza la sua ricerca teorica. In Francia collabora con curatori e agenzie di comunicazione, tra cui Hervé Mikaeloff e l’agenzia Clémentine au bureau, per la realizzazione di progetti artistici per le aziende e istituzioni (Dior, Renault, Loewe, Unesco…).