Meredith Monk dopo Meredith Monk
di Monica Demuru
Quello che sto provando a fare è una musica che delinea energie per le quali non abbiamo parole. Ci sono esperienze nelle nostre vite che non possiamo nominare; ci sono sentimenti e emozioni per cui non abbiamo nomi, che sono tra le crepe… In queste crepe io lavoro con la voce.
Meredith Monk a Frances Morgan in «The Wire 354», New York City, giugno 2013
Leggo e riporto le parole della stessa Meredith Monk, ormai settantenne, con stupore. Questa punta di diamante dell’avanguardia americana parla del suo lavoro al presente e con la semplicità di chi guarda al lavoro da farsi, non al monumento che fu.
Nata nel 1942, vive e svolge la sua multiforme attività quasi interamente nella città di New York, divenendone, già ventenne, uno dei medium più significativi e popolari.
Sul proprio sito internet si definisce: «composer, singer, director/coreographer and creator of new opera, music-theater works, films and installations». Di tutte queste qualifiche, accreditatissime, due sono quelle per le quali è più nota: compositrice e cantante.
Tra il 1968 e il 2020 licenzia una ventina di incisioni da lei composte ed eseguite per voce sola (la sua) o per ensemble (i suoi cantanti e collaboratori da una vita, una struttura familiare e pseudomonacale), pianoforte, tastiere elettroniche, fisarmoniche e scacciapensieri; tutti materiali e vocaboli confluiti negli spettacoli teatrali, nei film, nei concerti, nelle performance e nelle immancabili coreografie danzate che, salvo brevi parentesi, alimentano un’attività costante da oltre cinquant’anni.
La sua arte trasversale, naturalmente multidisciplinare, si rivela potente nell’incarnazione della stessa Monk in scena e nella sua forza umana, dolente e buffa, di un virtuosismo zoppo e velato, dal timbro non sempre intonato ma sempre composto, dall’ipnosi indotta dalla serialità e dal minimalismo.
L’andamento delle performance prevede spesso il suo solo a cappella cui si sommano gradualmente gli altri componenti dell’ensemble, prima in duo, poi in trio e così via fino a un crescente corale polistrumentale. Le sue domande senza parole, il suo linguaggio pre-verbale, le nenie, le frammentazioni di parole intonate, si sono rivelate come “non detto” o “indicibile” rispetto alla storia degli stessi Stati Uniti e in seconda battuta del resto del mondo: esemplari Education of the Girlchild del 1973, prima apertura in composizione e a teatro a una vocalità umorale, disarticolata, dai rantoli del dolore agli acuti danzanti della gioia e del riso, un atto vocale femminista; o Songs from the Hill del 1976, nati nel deserto del New Mexico dalla percezione del dolore e della voce delle culture perdute, degli indios sterminati; o Ellis Island e Scared Song del 1986, sull’immigrazione in America nei primi del Novecento. Procede per concept fortemente narrativi senza una struttura che si possa definire tale se non per i temi: la misericordia all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle (Mercy, 2002), la contemplazione e l’ascesa spirituale negli ultimi anni (Impermanence, 2008 e On Behalf of Nature, 2016) .
Si ha la sensazione che la sua persona sia così affascinante da offuscare l’evidenza e importanza delle sue composizioni (una dozzina quelle strumentali). La sua vocalità anomala – un misto di tecniche dalla contemporanea al folk, in particolare euroasiatico – viene curiosamente definita dalla critica “indemoniata” o “convulsa”, quando a ben guardare la sua espressività è sempre molto controllata per non dire rilassata. La sua danza è lo sviluppo di un linguaggio non complesso tutto sommato riconducibile al panorama della danza contemporanea americana a partire dagli anni Sessanta del Novecento, con contrapposizioni tra sinuosità rotonde e prosecuzioni di linee rette, il tutto seriale e organizzato, limpido e distaccato.
È la profondità della scelta vocale e gestuale, l’organicità tra queste, l’essenzialità sorprendente e di scavo, l’intenzionalità dolente e ipnotica ma trattenuta a procurare nell’osservatore uno sconvolgimento profondo anche davanti a una performance di grande controllo.
Questa pioniera della sperimentazione vocale e solida compositrice, che bisogna immaginare faticosamente attiva nel business culturale americano, priva di sostegno economico pubblico e lontana da conferme commerciali – ma stimata da colleghi come Cage e infaticabile giramondo – incide così intensamente l’immaginario identitario statunitense da ricevere il Dorothy e Lillian Gish Prize 2017 e una National Medal of Arts nel 2015 dal Presidente Barack Obama – quando Monk lo racconta nelle interviste si mette la mano sul cuore – incide per ECM e TZADIK, come a dire l’Alpha e l’Omega della discografia colta e d’avanguardia mondiale. Sul suo sito chiede se vuoi contribuire con una donazione alla sua ricerca, ringrazia le numerose fondazioni che la sostengono e organizza e tiene un seminario alla settimana in casa sua, un sobrio loft nel quartiere di Tribeca.
Per me riconoscere il suo timbro, la sua sigla nelle note circolari che si trasferiscono dalla voce al piano, dal gesto danzato al gesto vocale, riconoscere Monk in quattro secondi di ascolto o da un frammento video è sempre stato un brivido, un pizzicotto, una risatina.
La sua stonatura volutamente dissonante e sottilmente parodistica, il tragicomico universale, mi ha sempre catturato anche nelle sue danze: la grande ieraticità e compostezza si può aprire inaspettatamente in lei ad uno sguardo strabico in camera o ad una improvvisa e comica caduta al suolo, alla Buster Keaton. Per questo la sentivo “una di noi”. Monk sottendeva perfino alle teorie da “tabula rasa” che circolavano fin dagli anni Novanta del secolo scorso negli ambienti teatrali e musicali di ricerca italiani. Praticamente si teorizzava l’assenza di maestri e la rivolta contro ogni genere di accademismo. Il che aveva convinto parecchi di essersi inventati questa o quella tecnica vocale o quella genialissima compartecipazione delle arti semplicemente per ignoranza. Ma se in molti provavamo a cercare nuove vie con la voce lo dovevamo a Monk piuttosto che all’inarrivabile Stratos – che però era più noto, più rock, più maschio e purtroppo deceduto – o al nostro genio.
La genìa femminile di sperimentatrici vocali era solida e non casuale al termine del secolo. A parte Monk si ascoltava, le si andava a sentire dal vivo, Joan La Barbara e tutta la schiera delle cantanti di musica contemporanea europee, le italiane capitanate da Chiara Guidi ma anche Diamanda Galas, una serie di rockeuses tipo Lisa Gerrard e Liz Fraser, la factory delle giapponesi della Tzadik, Sainko, perfino Björk: la voce “ancestrale” era il mezzo meno “logico”, quindi più femminile per statuto, tesi ancora molto in voga seppur incrinata dall’esistenza e dall’attività di un superancestrale Phil Minton e dalla sensualità dolente di Mike Patton. Ma tant’è che fino al 2008, più o meno l’anno della Crisi, abbiamo vissuto un Rinascimento Vocale che ci consentiva di ascoltare, andare a vedere e sperimentare in organici a cui si aprivano le sale da concerto e i teatri. Poi parrebbe che la Crisi abbia fatto ammutolire le voci della ricerca.
Vado a vedere: 2013, ultimo passaggio rarefatto della Monk in Italia a Ferrara.
Se ne può dedurre che la maestra è invecchiata e che starà a Tribeca a fare la calza; che l’avanguardia “non va più”, come si sente dire da organizzatori e istituzioni Italiane, che la reazione all’astratto non verbale ha segnato il ritorno al concreto supernarrativo.
Bene: Monk, a cercarla sul web, si scopre in piena attività. Il 20 marzo scorso «The Guardian» recensisce il suo ultimo cd Memory Day (Cantaloupe Music), incensandolo.
Il 9 aprile scorso, Frank Hentchker manda in rete una conversazione di un’oretta con la vispa Monk per conto dei SEGAL TALKS, una serie di interviste ad artisti influenti affiliati al Theatre Center di Montreal. Monk, a 78 anni, appare distesa e solare, le solite trecce scure, trucco leggero e impeccabile. Una maglietta rossa. Il lockdown è l’occasione per aprirsi ai suoi temi di sempre nell’invito allo studio e alla meditazione. Parla di tutto: degli amici che non ci sono più, di quelli con cui collabora, della morte, della disciplina, delle visioni sonore e compositive mentre fa le pulizie. Mentre ci mostra casa, due stanze, il letto nell’enorme sala-prove-tinello-studio-salotto, la vasca da bagno in cucina, parla di riprendere i concerti. Scopro che l’anno scorso era in Francia per una lunga tournée, che il suo calendario è fitto di concerti, che forma giovani e giovanissimi.
Vado a vedere alcuni video delle performance con gli adolescenti che eseguono le sue partiture e per cui ne compone di nuove. In un clima eccitato e vivace le voci giovanili, mescolate e volutamente giustapposte al suo timbro anziano, restituiscono smalto alle vecchie composizioni e si arricchiscono dello scambio e del contrasto, come le voci della vita e del mondo, imperfette ed emozionanti.
Capisco che lo Spirito della città di New York è ancora molto potente, getta ponti per il Dopo, passa il testimone. Ma insieme ad altri artisti osserva il proprio tempo e, convinta della propria attualità, sa immaginare una diversa condizione di natura – impermanente – riuscendo ad essere sempre “inattuale”. È proprio la sua inattualità costante che le permette di non cadere nell’oblio, di non essere schiacciata sulla cronaca.
«Il suo lamento popolare neolitico è un salmo dell’era spaziale irradiato da un altro pianeta» scrive John Lewis recensendola sul «Guardian» a marzo. Non mi pare una frase cortese per una rispettabile cariatide quanto piuttosto la dimostrazione che la questione non sia cosa c’è “Dopo” Monk ma “Dove”.
Ora, a parte l’attività costante della redazione di Battiti – epica trasmissione di Rai Radio 3 – , è evidente che in Italia negli ultimi dieci anni – ignorando la richiesta del pubblico e la presenza di ottimi performer e ricerche interessanti – non si è fatto più spazio per la musica alternativa, la vocalità di ricerca in teatro, non invitando più neppure chi riempie i teatri nei paesi europei a noi più vicini, chi è riconosciuto come cercatore di una verità oltre il testo, perché, come dice Chiara Guidi – storica voce rabdomante della Socìetas Raffaello Sanzio – «la voce è puro voler dire che non spiega».
“Dove” ascoltare Monk o il “Dopo”? Non qui.
Monica Demuru
Monica Demuru è attiva sulla scena teatrale come attrice, cantante e autrice, e ha sviluppato un percorso di ricerca sulla vocalità tra musicalità pura e attenzione drammaturgica. Lavora in teatro con Societas Raffaello Sanzio, Massimiliano Civica, Deflorian-Tagliarini, Joris Lacoste-Encyclopedie de la Parole, Muta Imago, Letizia Renzini, Massimo Luconi, David Riondino, Annalisa Bianco – Egumteatro, Santasangre. Stabilmente in duo con Cristiano Calcagnile in Blastula.scarnoduo e con Natalio Mangalavite in Madera Balza, ha inoltre al suo attivo i concerti narrativi con Barbara Casini e Gabriele Mirabassi; con Stefano Bollani e Ares Tavolazzi ; con Paolo Benvegnù, Petra Magoni e ferruccio Spinetti; con Raffaello Pareti e Alessandro Marzi ; con Luca Tilli e gli allievi dell’ Accademia Silvio D’Amico. Collabora a progetti musicali di artisti che stima: dal jazz italiano di Bollani, Rava, Girotto, Petrella, Coen, alla canzone pop dʼautore di Peppe Servillo e Avion Travel,Tetes de Bois, David Riondino, Canio Loguercio e Paolo Benvegnù; dalla sperimentazione della musica contemporanea, improvvisata o di composizione, elettronica e acustica di Elliot Sharp, Zeena Parkins, Jamie Saft, Hector Zazou, Scott Gibbons, Chiara Guidi e Claudia Castellucci, a Giovanni Guaccero, Alvin Curren e Jato Orchestra, Gabrio Baldacci e Giancarlo Schiaffini.
Svolge attività didattica su vocalità e pratica scenica per varie istituzioni e scuole tra cui LʼAccademia Nazionale dʼArte Drammatica “Silvio DʼAmico”. Collabora in qualità di lettrice a Rai Radio3. Nel 2013 vince il Premio “Maria Carta”. Candidata in finale al Premio Ubu 2017, sia come attrice che per il miglior progetto musicale (“Il Cielo Non E’ Un Fondale” di Deflorian-Tagliarini) e al Premio Ubu come migliore attrice 2018 (“Belve” diretta da Massimiliano Civica). Nel 2019 vince il premio Archivio Mario Cervo per il CD Madera Balza.