Il teatro e la peste
di Graziano Graziani
Fragilità. È questa la parola chiave che attraversa in queste settimane l’Italia e buona parte del mondo nel momento in cui tutti dobbiamo fare i conti con il lockdown, con lo stare chiusi in casa, misure necessarie per contrastare l’epidemia di Covid-19. Fragilità che, nel caso del settore delle arti e dello spettacolo dal vivo, si somma alla storica fragilità. Se è facile immaginare interventi ministeriali a sostegno delle strutture ufficiali, riconosciute e censite, che ne sarà dei tanti artisti che vivono di spettacoli che non possono più fare, di laboratori, di attività semiufficiale che è quasi impossibile censire? L’ansia per il futuro è serpeggiata fin da subito nel mondo della danza e del teatro, e non poteva essere che così.
Anche dal punto di vista storico, i teatranti hanno sempre dovuto fare i conti con una professione in balia della sorte. La superstizione che vede nel colore viola un colore sfortunato da evitare assolutamente in teatro nasce dagli abiti liturgici della quaresima, periodo durante il quale erano vietati i pubblici spettacoli (e di conseguenza dimagrivano i guadagni). L’altra grande chiusura forzata era dettata, ovviamente, dalle epidemie. Tanto è vero che l’associazione tra il teatro e la peste è divenuta nel tempo proverbiale. Antonin Artaud la rovesciò, in uno suo famoso scritto, trasformando la peste nella metafora di un teatro in grado di scuotere intimamente il pubblico, così come fa il morbo che sconquassa i corpi dall’interno senza lasciare ferite sulla pelle. Ma è chiaro che, fuor di metafora, le epidemie si traducevano per il settore degli artisti in una quasi totale impossibilità di portare avanti il proprio lavoro.
Nell’immaginario collettivo la danza e il teatro, al di fuori del mondo di chi li studia e di chi ne utilizza la portata evocativa e trasformativa per fare critica sociale, appartengono alla sfera dell’effimero. E l’effimero, si sa, in tempi di crisi evapora in pochi istanti. Ma cosa ne resta delle tante donne e uomini impegnati in un’attività che, oltre a diffondere il bello, produce anche il sostentamento economico di quelle persone? Uno dei grandi equivoci che contraddistinguono il mondo artistico in Italia nasce proprio da qui: dalla duplice natura di una professione che oscilla tra l’empireo dell’utopia artistica e la necessità di mangiare. Soprattutto nel settore indipendente, quel settore che della propria marginalità ha fatto (anche giustamente) poetica, la linea di demarcazione tra l’attività fatta per propria soddisfazione personale e quella chiaramente produttiva è sfumata, sfocata, a volte inesistente. Sentirsi chiedere «sì, vabbè, ma per lavoro cosa fai?» è, per un artista che dichiara la propria professione, quasi abituale.
Questo incrocio di fattori ha prodotto un’ulteriore contraddizione. All’inizio dell’epidemia di Covid-19, molti artisti hanno aderito all’appello a non fermarsi, pensando che sarebbe stato assurdo farlo, una catastrofe economica. Quando i primi decreti hanno fermato le attività culturali, qualcuno è insorto cercando di far capire che un settore come quello, da sempre precario, sarebbe presto stramazzato, e argomentando che se si tengono aperti altri comparti produttivi e non i teatri comunque il contagio non si ferma. Quando si è arrivati al lockdown e si è cominciato a realizzare come l’eventuale crollo del settore si situi all’interno di un più generale e devastante crollo nazionale e mondiale, queste argomentazioni sono evaporate. Sicuramente quegli atteggiamenti erano in buona fede, dettati dall’ansia delle proprie economie traballanti e della precarietà che da sempre caratterizza il settore. Complice l’informazione tumultuosa e non chiara, passata dagli appelli come «Milano non si ferma» a una narrazione in cui il virus perdurerebbe per giorni su abiti, scarpe e superfici ed è essenziale stare tappati in casa. La percezione di quanto stava avvenendo è cambiata rapidamente, più volte, e in modo non meno tumultuoso. Anche io che scrivo questo editoriale mettendo in fila tali questioni, fino ai primi di marzo, non consideravo realistico il quadro che si andava delineando e assurda l’idea di una chiusura totale. Al di là delle tante considerazioni che si stanno facendo e si faranno sulla gestione dell’emergenza e sulle ripercussioni sull’economia, ora questa è la realtà che ci troviamo di fronte. E al di là di quelle considerazioni, quello che emerge con forza è che il settore artistico ha assorbito fortemente, fino ad assimilarlo come un dogma, il diktat di non fermarsi mai.
L’impossibilità di fermare le macchine è un dogma del tardo capitalismo ma anche la condizione esistenziale degli artisti, soprattutto di quelli precari. Può sembrare una contraddizione che un settore che, in molti dei suoi discorsi pubblici, porta avanti una critica serrata a un modello economico e al sistema che lo sorregge, ne abbia assimilato così profondamente gli imperativi, ma in realtà la cosa non deve stupire. Gli studi su come gli odierni contratti precari siano stati modellati su quelli del settore dello spettacolo – da sempre precari, occasionali, stagionali – si sprecano. La fragilità espone chi la abita, anche chi la abita scientemente per poter mandare avanti il proprio percorso artistico, a maggiori sferzate da parte degli imperativi economici e burocratici. Anche chi non vuole conformarsi deve fare i conti con la realtà, che in certi casi è doppiamente ostile. Si finisce per introiettare, per forza di cose, gli stessi diktat che si criticano. O almeno una parte. Fragilità e marginalità sono stati, per molto tempo, anche sinonimo di libertà, di non omologazione. Si sceglieva le prime per praticare la seconda. Eppure questo ha creato una scarsa attenzione ai temi collettivi, di settore, di categoria, i soli che si possano praticare quando serve un qualche tipo di solidarietà mutualistica. Complice un’obsolescenza dei sindacati tradizionali, che faticano a stare dietro alle questioni di un settore tanto poco visibile, dove è praticamente impossibile persino fare distinzione tra le ore di lavoro e quelle di vita, per progetti che a volte sono contemporaneamente di vita e di lavoro. Gli artisti si ritrovano così spesso in un limbo, considerati imprenditori senza che ne abbiano la capacità per esserlo, non tutelati come i lavoratori dipendenti anche quando di fatto sono impiegati nel progetto di qualcun altro, impegnati in forme di lavoro e di guadagno poco classificabili. In un momento di emergenza come questo, la marginalità rivela tutto il suo portato di fragilità. Perché, in molti si chiedono, come sarà possibile calcolare questo lavoro, da sempre invisibile alle istituzioni, quando ci sarà bisogno di chiedere un sostegno? L’emergenza è la fragorosa esplosione di questa contraddizione.
Per parlare del teatro e la peste, allora, abbiamo pensato fosse il caso di partire da un quadro storico, affrescato con dovizia di particolari da Leonardo Mello, che ci racconta una delle capitali mondiali del teatro come Venezia, luogo quasi onirico dove il contagio artistico e quello del morbo hanno corso fianco a fianco varie volte. Valeria Orani riflette invece, dalla sua prospettiva di operatrice e produttrice teatrale che da tempo risiede negli States, sull’incapacità del sistema italiano di dare risposte unitarie, mettendolo a confronto con il meccanismo delle unions, nato in un paese dove quasi non esiste welfare. Danila Blasi sposta l’attenzione sul comparto della danza, dove le fragilità sono ancora maggiori e dove si delinea una crisi che ha a che fare con l’identità professionale stessa delle persone che ci lavorano. Cinzia Spanò, attrice milanese, racconta i sentimenti contrastanti degli attori mentre l’epidemia si diffondeva, cercando di capire se questo blocco forzato può essere rovesciato in un’occasione per ragionare come categoria e uscirne tutti, se non più forti, almeno più garantiti. E infine una chiusura artistica affidata a Damiano Grasselli, teatrante bergamasco, che nella notte cupa della provincia italiana più contagiata ha voluto dare voce a una delle maschere bergamasche più amate, per raccontare sentimenti e paure e fare i conti con quello che sta accadendo. Gioppino parla dei luoghi di Bergamo in un momento in cui non si può uscire e finisce a confrontarsi con un affresco che raffigura danza macabra, che si trova invece a Clusone. Al celebre tema iconografico medievale abbiamo attinto per illustrare questo numero.