Io non so cosa è il silenzio

di Fabiana Iacozzilli

“Quando saremo GRANDI”, foto di Davood Kheradmand (da sinistra: Simone Barraco, Ramona Nardò, Matteo Latino)

Io non so cosa è il silenzio. So che per trovarlo ho bisogno dell’azione e degli oggetti. Di scoprire come suonano questi elementi. Me lo ha detto Samuel Beckett.

Quando ero piccola ero solita frequentare il ritiro religioso in un istituto in Via di Torre Rossa a Roma, “L’opera Don Guanella”, probabilmente un posto ancora esistente in cui mi riprometto di tornare. Ricordo che, a un certo punto della giornata, dovevamo andare a trovare un nostro posto in cui riflettere su noi i nostri peccati, trovare Dio, e il tutto rispettando un rigoroso silenzio. Ricordo con chiarezza il giorno in cui mi imbattei in un tizio, molto molto vecchio, seduto su una sedia davanti al portone di uno degli edifici del Don Guanella. L’uomo sedeva con il piglio di chi aspetta qualcuno o qualcosa che sarebbe sopraggiunto di lì a poco, era vestito di tutto punto e aveva accanto a sé una grande valigia. Ricordo la sua mano poggiata su di essa. Era lì immobile. Dopo un tempo prese un fazzoletto e si asciugò la fronte. Lo rimise in tasca. Poi lo riprese. Si asciugò gli angoli della bocca e di nuovo lo rimise in tasca. Rimise la mano sulla valigia come a sincerarsi che ci fosse ancora, per tornare poi a osservare il fuori. Dopo un tempo ricominciò con quel suo tran tran di azioni. Azioni quotidiane.
Mi colpiva l’attitudine di mani e piedi. Erano proprie del bambino.
Ricordo di essermi chiesta, a un certo punto, chi muoveva cosa, se l’uomo il fazzoletto o il fazzoletto l’uomo. Ricordo anche di aver sorriso. Poi è arrivata una donna. La donna mi ha allontanato dicendomi che non potevo stare lì, che lì ci stavano i vecchi del ricovero. Io dissi che ne vedevo uno solo di vecchio. Lei mi rispose che quel vecchio non stava bene e che per questo gli permettevano di stare lì: da solo. Quell’uomo aveva ottant’anni e ogni mattina si vestiva a festa per aspettare i genitori. Ogni mattina aspettava i genitori. Aveva ottant’anni.
Oggi penso che in quel momento non ho trovato Dio, ma Beckett. E che mi è andata meglio così. Lì, all’opera Don Guanella in via di Torre Rossa, è nato il mio amore per quelle carcasse umane, quei mezzi uomini mezze cose beckettiani che tanto mi hanno impressionata, ai quali devo molto (ringrazierò per sempre Elisa Bongiovanni e Irene Veri per avermeli presentati) e a cui mi sono ispirata e appoggiata per la creazione de La trilogia dell’attesa.
Perché?
Perché l’esistenza si riduce alla ripetizione incessante di una serie di azioni, a degli schemi o a dei disegni, per dirla con Quad, e perché l’essere umano sta nei suoi limiti.

Tutto è necessario come il silenzio tra un’azione e l’altra

“Mezzi uomini e mezze cose” è una definizione di Fernando Marchiori che usa nella sua introduzione al volume Beckett & Puppet, dove afferma: «La direzione è sempre la stessa: scomposizione del corpo, ricomposizione in una partitura gestuale differente, scrittura come referto di fenomeni e non di psicologie, frammentazione dell’evento, ingrandimento del dettaglio, ripetizione come ritmo interno alla pagina e alla scena» (1).

Ho realizzato La trilogia dell’attesa con la Compagnia Lafabbrica (2), ovvero Elisa Bongiovanni, Marta Meneghetti, Ramona Nardò e Giada Parlanti, con le quali ho lavorato per cinque anni. Si tratta di uno spettacolo composto da tre atti unici: Aspettando Nil, Quando saremo GRANDI!, Hansel e Gretel. Il giorno dopo. Quello che a tutte noi interessava mettere a fuoco, nel nostro lavoro, era comprendere da dove bisognasse partire per trovare l’ironia. L’ironia del fallimento.

In questo trittico abbiamo messo in scena una sfilza di individui che aspettavano qualcosa o qualcuno che li avrebbe potuti tirar fuori dai loro pantani esistenziali, un lavoro di chiara matrice beckettiana, in cui tutto ruotava intorno all’assenza di parole e alla ricerca del ritmo.
Il distacco ironico, innescato da ‘tragedia + tempo’, ci consentiva di trovare il ritmo, il battito delle cose, delle situazioni, delle azioni. Per fare questo tipo di operazione c’era bisogno di silenzio. Silenzio non solo all’interno della sala prove (quello è sempre il silenzio più semplice da trovare), ma una specie di silenzio interiore del personaggio, perché così «le domande affiorano da un antico abisso» (3) e allora scopri che nel silenzio si sentono battere le azioni, si sente il suono che l’azione produce. A quel punto se ne può cogliere il significato oppure l’assenza di quel significato. Va bene lo stesso, per iniziare a creare qualcosa.
Il più delle volte l’azione fa uscire fuori l’uomo, una verità altra sull’uomo, e questo accade quando si entra nel dettaglio dell’azione. Lentamente si inizia a sentire quale è il respiro di quell’uomo, come risuona. Si sente suonare l’uomo, non saprei definirlo meglio di così, è come se si trovasse il battito. Tra una sua azione e l’altra poi c’è una specie di eco. Ecco forse quello è il silenzio che abbiamo trovato ispirandoci a Beckett, quel momento tra un’azione e l’altra in cui il tempo si dilata, in cui si amplifica la ricerca e il bisogno di senso.

Nella scrittura scenica de La trilogia ci interessava usare poche sudatissime parole e l’incontro con la didascalia beckettiana ci entusiasmava perché ci precipitava nella dimensione del silenzio. Ci dava tracce di uomini alle prese con i loro piccoli segreti esistenziali e ci suggeriva una strada per iniziare a costruire le nostre strutture improvvisative e poi le griglie per la costruzione drammaturgica.
Dall’analisi e dall’improvvisazione a partire da quelle didascalie, ho scoperto che il momento in cui si fallisce accade quasi sempre nel silenzio e che il fallimento è una cosa che ha a che fare con il corpo più che con la parola.
In quei silenzi descritti da Beckett, come nella pantomima iniziale di Krapp, se si ascolta bene, si sente il rumore dello sforzo dell’essere umano. Solo nel silenzio si può cogliere davvero quel rumore. In due momenti: quando Krapp «finalmente dà un morso alla banana» e «finalmente a Krapp viene un’idea». In quei due avverbi ho rintracciato un campo di indagine: quel personaggio inciampava, cadeva sulle banane, ci faceva ridere ma poi finalmente gli veniva un’idea. Si rialzava e continuavano nella ripetizione incessante di una serie di azioni mostrando la condanna alla sopravvivenza e la commovente ottusità della resistenza. Credo di aver costruito il terzo atto della trilogia, Hansel e Gretel. Il giorno dopo, partendo proprio da quei due finalmente.

Gli oggetti come protesi dei personaggi e generatori di immagini

«Ristabilire il silenzio è la funzione degli oggetti»
(in Molloy di Samuel Beckett)

Agli oggetti Beckett dedica descrizioni più dettagliate che ai personaggi. In Dondolo il drammaturgo ci presenta D (una donna) in questo modo: la donna sulla sedia a dondolo. Continua poi descrivendo maniacalmente la sedia, l’oscillazione della sedia e la posa. La posa è immobile. Siamo catapultati dinanzi a un’immagine, una fotografia. Un’immobilità esistenziale silente.
I personaggi de La trilogia sono stati concepiti come cose tra le cose, oggetti tra gli oggetti. Dall’assenza di battute, dal considerare l’azione più che una battuta, è nato l’attaccamento dei personaggi alle loro azioni, azioni con le quali finivano per identificarsi. È emerso l’attaccamento a degli oggetti che sembravano essere delle loro estensioni, oggetti come protesi. Abbiamo allora deciso di far suonare/ parlare gli oggetti.
In Quando saremo GRANDI! – secondo atto della trilogia – il personaggio di Zuzzu ha in mano un cubo di Rubik completamente bianco. Non se ne separa mai. Lui ha pochissime battute ma, sicuramente, la sua battuta più importante è il rumore incessante del cubo di Rubik del quale cerca inutilmente di trovare la soluzione.

L’immagine si discosta dal dato realistico per portare lo spettatore alla visualizzazione di un frame che è la materializzazione in termini concreti della situazione psicologica o esistenziale dei personaggi. Questo frame, questa immagine non ha bisogno di niente di più che se stessa, ha bisogno di vivere nel silenzio per essere fruita a pieno. Non servono parole, servono luci per amplificare il suo rumore. Come racconta Roy Andersson: «Mi piace costruire immagini dove ci sia una luce tale da non permettere alle persone di nascondersi».

Infine una nota biografica e un indirizzo di lettura. Ieri sera, mentre mi agitavo nella ricerca di parole che potessero meglio esprimere la mia esperienza con Beckett e il mio incontro con i suoi silenzi, mentre pensavo che il silenzio mi fa paura perché mi fa mettere a fuoco la mia impotenza, ho trovato in Appunti per un naufragio di Davide Enia un altro piccolo tassello: «Non è affatto strano che mio padre abbia trovato nella fotografia un mezzo assai congeniale per esprimersi. In questo contesto asfittico e sentimentalmente quasi analfabeta nella capacità di nominare il proprio desiderio, le foto di mio papà si configurano come un tentativo di apertura nei confronti della realtà. Le sue foto, in qualche modo, diventano le parole che non si sono dette. Fotografare è il modo in cui, finalmente, mio padre parla ad alta voce con se stesso, ammettendo la propria impotenza rispetto a una data circostanza o valutando la dimensione di un fallimento, indagando a fondo la ragione delle cose, senza l’assillo di una risposta immediata. Al contempo, la sua fotografia aspira a essere anche altro da sé, facendosi simbolo, riempiendo proprio quei silenzi che le sue parole non riescono a colmare».


1. “Beckett & Puppet. Studi e scene tra Samuel Beckett e il teatro di figura”, a cura di Fernando Marchiori, Titivillus, 2007

2. La compagnia Lafabbrica è un collettivo artistico nato nel 2008 con il quale abbiamo costruito le drammaturgie sceniche de La trilogia dell’attesa (2008/2013). Hanno partecipato al progetto: Elisa Bongiovanni, Marta Meneghetti, Ramona Nardò e Giada Parlanti in quanto ideatrici e attrici del lavoro. Hanno contribuito inoltre alle drammaturgie dei singoli capitoli: Simone Barraco, Marco Canuto, Matteo Latino, Irene Veri, Francesco Zecca e Francisco Espejo (dramaturg del III capitolo).

3. Citazione da un’opera abbandonata di Samuel Beckett

 

 

Fabiana Iacozzilli


Regista-drammaturga e pedagoga, porta avanti un lavoro di ricerca improntato sulla drammaturgia scenica e sulle potenzialità espressive della figura del performer. Nel 2002 si diploma come regista presso l’Accademia “Centro internazionale La Cometa” dove studia con N. Karpov, N. Zsvereva, A. Woodhouse. Dal 2003 al 2008 è regista assistente di P. Sepe e assistente di Luca Ronconi. Dal 2008 è direttrice artistica della compagnia Lafabbrica con la quale si impone all’attenzione nazionale attraverso un teatro sorretto da un fortissimo impianto visivo e scenotecnico. Dal 2011 è membro del Lincoln Center Directors Lab (Metropolitan/New York) e nel 2013 Lafabbrica diventa compagnia in residenza presso il Teatro Vascello di Roma.
Tra i suoi spettacoli ricordiamo La classe un docupuppets per marionette e uomini che debutta in prima nazionale a Romaeuropa Festival, vince il premio In Box 2019 e il bando di residenze interregionali CURA 2018; Il gabbiano da Anton Checov e La trilogia dell’attesa uno spettacolo di forte matrice beckettiana vincitore di numerosi riconoscimenti tra cui il Play Festival 2013 (Atir e Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa). Dal 2017 collabora con la drammaturga Tiziana Tomasulo e con gli attori della sua compagnia al progetto Da soli non si è cattivi_Tre atti unici che debutta al Teatro Vascello nello stesso anno.
Si occupa inoltre di formazione e pedagogia e, negli ultimi anni, oltre alla cattedra presso la Link Campus di Roma e alle collaborazioni con il Centro Internazionale La Cometa e il Teatro del Cerchio, si dedica a una ricerca attenta e costante sull’improvvisazione teatrale.