Silenzio

di Alessandro Serra

“Il giardino dei ciliegi”, ph Alessandro Serra

Prologo

In collegio la notte, prima di addormentarci, pregavamo in coro, al buio, recitando un’oscena filastrocca che finiva con una minaccia zen: facciamo silenzio, a chi ne fa di più! Una volta pronunciata la formula era proibito parlare, quasi respirare. La suora si allontanava piano, chiudeva la porta e scivolava via. Quel silenzio era denso di una comicità indicibile e infinita. Sapevo che tutti stavano ridendo, sapevo che tutti stavano pianificando l’attacco e sapevo anche che l’attacco sarebbe potuto arrivare in un qualsiasi momento e da qualsiasi parte del letto. La scena è stata definitivamente immortalata da Jean Vigo nel 1933 in Zéro de conduite.

Quella stessa gioia ho avuto la fortuna di riviverla da adulto in alcuni incantevoli minuti di silenzio e di buio creati da Antonio Rezza e Flavia Mastrella. Scena vuota, buio, silenzio e quattrocento persone che non possono contenere le risate, e la paura.

 

1. Trilogia del silenzio

La vera arte non sa che farsene dei proclami e si compie nel silenzio.
Marcel Proust

Per alcuni anni abbiamo smesso di parlare e abbiamo iniziato ad ascoltare e a raccontare con le immagini, i corpi, gli oggetti, le luci e i suoni.
La prima opera della trilogia del silenzio è stata Beckett Box.
Le opere di Beckett sono al contempo teatro, letteratura, danza e musica. Non c’è spazio per la scrittura di scena, e non perché gli eredi esigano il rispetto dell’opera, ma perché il teatro è già scritto sotto forma di partitura all’interno del testo.
Beckett non era solo un grande scrittore ma anche un musicista e un regista.
La sua grandezza è anche il suo più grande limite.
Beckett si fa così come è scritto: basta non farsi troppe domande, avere degli ottimi attori e seguire il ritmo.
In Beckett Box ho tolto le parole e operato una scrittura di scena a partire dalle partiture gestuali indicate dall’autore. Tutte le azioni descritte nelle sue opere sono diventate il linguaggio fisico delle figure.
Dopo aver scarnificato i testi di Beckett si resta esterrefatti dalla bellezza dei movimenti dei personaggi. La semplice successione delle azioni fisiche descritte nel testo non è casuale: c’è una danza, c’è un ritmo.
È stupefacente la coesione tra azione e reazione, come se la figura potesse realmente respirare in quel rigoroso spartito di movimenti, senza l’intervento dell’autore e senza l’ausilio della voce.
In teatro si imita la vita e nel compiere questa rappresentazione si inciampa spesso nello scimmiottamento della realtà, per cui si vedono persone travestite da persone che fingono di essere persone. Eppure se fossero davvero persone, cioè maschere, la pratica assumerebbe all’istante un che di prodigioso.
Per rifare la vita e preservarla, occorre giocare e manipolare cose morte, esoscheletri vuoti e risonanti, trasparenti, come quelli che si trovano attaccati alle foglie dopo che gli insetti hanno mutato il corpo.
Compito dell’attore è costruire l’involucro dell’emozione e, una volta creato, mantenerlo vuoto.
Nelle opere di Beckett questo prodigio è già compiuto dall’autore e a nessuno verrebbe in mente di chiedersi chi sia Godot o dove si trovino Hamm e Clov.
I suoi personaggi sono figure e tali devono restare.
In Beckett Box per la prima volta ci siamo emancipati dal personaggio e abbiamo provato la vertigine della figura.
La figura è una forma fisica emancipata dal personaggio, dalle pastoie psicologiche, dalle letture del regista, dai pregiudizi. Essa vive e agisce fuori dalla storia raccontata.
Si deve strapparla via dal testo e lasciare che agisca liberamente, sondandone le potenzialità dinamiche ed espressive per poi gettarla in un luogo che nel frattempo avremo costruito.
Lì incontrerà le altre figure, ma anche gli oggetti, le luci, i suoni.
La figura è l’acme del personaggio. Crearla significa far emergere la sua maschera: una presenza antica, vuota, pronta ad accogliere lo spettatore.
Una volta creata la forma (superficie esterna dell’esperienza) inizia il vero lavoro dell’attore, il suo sacrificio, il suo talento: creare e sostenere il vuoto.
L’errore più volgare e grossolano a questo punto sarebbe tentare di infarcire questo vuoto con presunti stati emotivi.
La forma deve restare vuota.
Vuota.
Lavorare sulle figure create da Beckett mi ha insegnato che il primo passo da compiere è cercare la legge unificante della vita del personaggio, cioè la forma della sua personalità nel tempo.
E così per il testo: cercare la sua immagine muta, il suo simbolo, l’acme di quella vicenda impressionata sui sali d’argento della scena.
Quando l’immagine oltre a rappresentare lo stato emotivo della scena ne incarna anche l’essenza e agisce fisicamente sullo spettatore, ecco che le parole decadono, ogni concetto si spoglia e diviene orpello. Quando ciò accade, la parola deve smettere di significare e farsi suono, oppure silenzio.

La seconda opera della trilogia è stata ispirata dal racconto di Bruno Schulz Trattato dei manichini. Si tratta di uno spettacolo profondamente autobiografico: le immagini della mia infanzia inserite nell’universo magico dello scrittore polacco.
Al suo primo debutto era rimasta una sola parte recitata, parole preziose che sarebbero poi sparite poiché assimilate nelle immagini e nei corpi. All’epoca non sapevamo che pronunciando quelle parole stavamo inavvertitamente rivelando il manifesto di una pratica che ci avrebbe accompagnati nelle creazioni successive: «La Creazione è un privilegio di tutti gli spiriti. La materia è dotata di una fecondità senza fine, di un’inesauribile forza vitale e al tempo stesso di un seducente potere di tentazione che ci spinge a creare. Nelle profondità della materia si delineano indistinti sorrisi, sorgono contrasti, si affollano abbozzi di forme. L’intera materia ondeggia di possibilità infinite che la percorrono con deboli fremiti. In attesa del soffio vivificatore dello spirito, essa fluttua in continuazione tentandoci con le mille curve dolci e molli che essa va farneticando nel suo cieco delirio. Priva di iniziativa propria, lascivamente arrendevole, malleabile come una donna, docile ad ogni impulso, essa costituisce un territorio fuori legge, aperto ad ogni genere di ciarlatanerie e dilettantismi, il regno di tutti gli abusi e di tutte le dubbie manipolazioni demiurgiche. La materia è l’entità più passiva e indifesa del cosmo. Ognuno può plasmarla, modellarla, a ognuno essa obbedisce. Non c’è alcun male a ridurre la vita ad altre e nuove forme. L’assassinio non è peccato. Talvolta non è che una violenza, necessaria, nei confronti di forme refrattarie e cristallizzate dell’esistenza, che hanno cessato di essere interessanti. Qui è il punto di partenza per una nuova apologia del sadismo».

Ancor più che in Beckett Box, nel Trattato dei manichini l’omissione della parola è stata per noi un’esperienza fondamentale per accedere, senza mediazioni letterarie, a ciò che Proust chiamava “memoria involontaria delle membra”, «che vive più a lungo, come certi animali o vegetali intelligenti vivono più a lungo dell’uomo. Le gambe, le braccia sono pieni di ricordi intorpiditi».

Nel corso della vita il corpo si carica di ricordi, ogni singolo fatto, per quanto insignificante, non può non dissolversi in noi, la pelle stessa ne porta traccia. Le rughe che solcano i vecchi visi sono come pentagrammi sui quali la vita ha composto la propria melodia: guardandoli se ne possono percepire gli echi lontani. Ma soprattutto la struttura ossea, muscolare e il disegno stesso del corpo racchiudono in sé le esperienze vissute e sempre presenti.
Il corpo vita dell’attore si connette con la parte più profonda del testo e non ha nulla a che vedere con lo sforzo mnemonico del ricordare. Attività quest’ultima puramente concettuale che, in quanto tale, non può che produrre corpi inerti, personaggi spenti che si muovono e parlano come in un romanzo illustrato.
I suoni e le azioni possono essere rievocati solo dal corpo, non importa se attraverso le improvvisazioni o affidandosi al caso, ciò che conta è la consapevolezza di essere in cerca di qualcosa di vivo e in continua trasformazione e non di un concetto morto, archiviato nei meandri del cervello.
Il corpo vita di cui parla Grotowski ricongiunge l’attore all’archetipo: la vita vivente di contro la vita vissuta, secondo la nota enunciazione di Sant’Agostino. Quando ciò accade lo spettatore depone le armi della ragione – che non può che cogliere significati – e si concede a una visione più profonda, intima e personale.

A U R E chiude la trilogia ed è forse l’opera che più si nutre di silenzio. Lo spettacolo si ispira alla Recherche di Marcel Proust. Tremilacinquecento pagine senza una parola di troppo, fiume placido e solenne ma soprattutto capolavoro pittorico, sinfonia perfetta di suoni e rumori.
In Proust tutto trasfigura, si agita, fluttua in un mondo che è quello reale, ma è animato da un afflato che appartiene all’altra sfera.  Come nel sogno, che si compie in una dimensione che non è la realtà ma che dalla realtà trae nutrimento, rubandone le immagini.
Nel suo quieto incedere la Recherche si sfalda, il naturalismo si rompe, tutto evapora, rendendo indistinti oggetti e paesaggi. In AURE non c’è storia né personaggi, solo figure e un luogo: la stanza della memoria, più volte descritta da Proust come una specie di secondo appartamento, quello del sonno. 
Come in un teatro di marionette, così riposante per chi ha preso in disgusto la lingua parlata, terra quasi edenica dove il suono non è stato ancora creato.
Autore dello spazio e delle figure Vilhelm Hammershøi, pittore danese del silenzio, capace di permeare la scena di tempo. Nei suoi interni il tempo fluisce come fatto luminoso, tutto è al contempo immobile e vibrante: i tavoli e le sedie sembrano pronti a piroettare, gli oggetti a librarsi in volo, le numerose porte sempre sul punto di schiudersi, rivelando presenze taciute e stanze della memoria involontaria. Nella camera oscura interiore si accende una speciale luce, il corpo dell’attore, che è come la luce: non si vede, ma fa vedere. Ecco allora che un piccolo gesto si ripercuote in noi ed echeggia, risvegliando un fatto dimenticato, che ci sembrava misero e non degno di nota. In modo tale che ciò che si vede incorniciato nell’arcoscenico non sia altro che un fondale dipinto, cioè la vita. E se questo fondale un giorno crollasse, «cadrà nell’universo magico, senza che la caduta delle sue pesanti pietre offuschi con la volgarità d’un solo rumore la castità del silenzio».


2. Il mimo funebre

La conoscenza degli archetipi non è data a chi crede nella forza denotativa delle parole e nominarli è il massimo problema del linguaggio. Soltanto il poeta ne è capace, o un mimo sacro, o il danzatore che tracci spirali attorno al cuore, mostrando la vita che ne procede, come un filo dal gomitolo.
Elémire Zolla

Il mimo sacro di cui parla Zolla è forse quello funebre descritto da Genet: «A Roma ho letto che esisteva – ma forse la memoria m’inganna – un mimo funebre. Il suo ruolo? Precedendo il corteo, aveva l’incarico di mimare i fatti più importanti di cui si componeva la vita del morto quando questi – il morto – era vivo»

Il mimo funebre è divenuto per noi un esercizio imprescindibile in ogni scrittura di scena.
La prima azione da compiere è estrarre dal testo le azioni dei personaggi e insieme agli attori comporre una partitura fisica. Tale coreografia diverrà poi materia gestuale che nel segreto contribuirà alla tessitura dell’ordito. Il mimo funebre possiede una valenza narrativa ed evocativa ma altresì emozionale poiché essendo anche una danza si manifesta come tale quando viene animata dall’attore o dal danzatore.
Quando abbiamo iniziato a lavorare sul Macbeth ogni attore ha composto il proprio mimo funebre. Insieme a Chiara Michelini abbiamo aiutato gli attori a precisare e coreografare i movimenti e il risultato è visibile nella scena iniziale in cui le streghe stenografano con i loro corpi la vita di Macbeth. Il sortilegio non si compie quindi tramite le parole scritte da Shakespeare o con gesti stereotipati, bensì grazie ai movimenti delle streghe. Chi guarda non sa di stare vedendo tre manifestazioni mimiche della storia che tra poco gli sarà raccontata. Lo spettatore non possiede gli strumenti per decodificare, non conosce la causa ma partecipa emotivamente all’effetto, cioè alla danza.
È ciò che a volte accade con la poesia. Quando si legge una poesia si è investiti da qualcosa che non ha a che fare col significato, l’emozione primigenia è fisica, ritmica e musicale. È quel determinato timbro che trafigge, il significato viene dopo oppure, nella migliore delle ipotesi, non arriva proprio.
Non arriva perché non c’è. È la forma stessa il significato.
E così le streghe compiono gesti scurrili e divertenti ma in realtà ognuna di loro sta rivivendo nel proprio corpo il destino di Macbeth. Ciò che si vede è il mio montaggio, si vede l’effetto ma non la causa, e così mentre una strega incorona Macbeth l’altra taglia la gola al re Duncan. Ma se faccio incontrare queste due azioni, il risultato è che una strega tocca reiteratamente il sedere a quell’altra, e di solito lo spettatore ride. Ride mentre Macbeth taglia la gola al re. «Il mimo funebre dunque per la grande parata prima della sepoltura del cadavere, se vuol far rivivere e rimorire il morto, dovrà scoprire, e avere l’audacia di dirle, queste parole dialettofaghe che, davanti al pubblico, si mangeranno la vita e la morte del morto».

In Beckett Box i due assistenti danzavano la vita di Vladimiro ed Estragone, nel Trattato dei manichini in un primissimo piano le mani intrecciate evocavano un mio lontano ricordo d’infanzia. Più avanti le stesse mani fluttuavano attorno al volto della bambina in una scena che ricorda le ingiurie e i maltrattamenti del Cristo deriso del Beato Angelico.
Si tratta in realtà di una pratica ampiamente diffusa nel teatro greco, l’arte di raccontare con le mani: la Cheironomìa.
Nelle tragedie greche giunte fino a noi c’è qualcosa di troppo e qualcosa di perduto.
Troppi fatti e troppe parole riguardano Tebe e il cosmo democratico ateniese e non più noi.
Lo spettatore non è in grado di decifrare quelle informazioni, non conosce i luoghi, i nomi, i legami di parentela.
Della tragedia greca si è persa la visione, quella interiore, misterica, ma anche quella esteriore, spettacolare. Perché, forse è bene ricordarlo, la tragedia nella sua componente dionisiaca era anzitutto un fatto visivo: vedrai quelle cose, era detto agli iniziati a Eleusi.
Ma soprattutto si è perso il sapere iconico collettivo, ovvero l’immediata capacità dello spettatore di identificare una determinata forma o figura, e nel contempo riconoscere le informazioni contestuali o emotive a essa solitamente connesse. Mi riferisco agli schemata: un gesto, un modo di camminare o una postura che immediatamente e icasticamente identifica il personaggio all’interno di una situazione. Lo stesso valeva per l’uso di certi oggetti qualificanti, dei costumi propri di una determinata etnia o del modo di indossarli assieme agli accessori per delineare il rango sociale. Tutto ciò contribuiva al racconto e così la parola poteva farsi canto.
Entrano in scena una serie di figure con le braccia alzate ed ecco la forma del funerale. Alla precisione del gesto corrisponde la facilità da parte di chi guarda di individuare la convenzione. Ma tale gesto è anche una danza interpretata e agita dal danzatore che nel costruire e sostenere quel vuoto emana una determinata euschemon (eleganza), energia che si trasfigura in emozione.
La parola può informare e dire allo spettatore che Antigone è morta, provocando un’emozione ancora diversa, di rango inferiore certo poiché concettuale. Ma la parola stessa può, quando si fa suono, cantare quella morte e spostare ancora una volta la natura dell’emozione a un livello più profondo.
Forse è azzardato ma quanto appena suggerito potrebbe essere una verosimile descrizione di ciò che i greci chiamavano mousike techne (arte delle Muse) che è insieme canto, musica, danza e poesia.
A noi restano solo parole scritte e una poesia meravigliosa che chiamiamo letteratura.
Finché non viene cantata, danzata e mostrata in scena è solo morto orale.


3. Shakespeare

Il silenzio è l’araldo più perfetto della felicità e la mia sarebbe una felicità da nulla se si potesse esprimere a parole.
William Shakespeare

Non ho mai fatto a meno della letteratura. Mi sono sempre riferito ai testi, ma ho sempre cercato di compiere il teatro attraverso la letteratura, mai il contrario.
Dopo anni di voto del silenzio sono tornato alla parola e sono ripartito da Shakespeare.
Le sue opere giunte fino a noi sono solo parole, rarissime le didascalie e nessuna punteggiatura, quindi non c’è traccia del Tempo. Rare sono le indicazioni sullo spazio e sulla luce.
Tutto è nei dialoghi, la scrittura di scena è nascosta tra le parole. Ma sono parole radianti, dice Peter Brook, che oltre alla carica poetica irradiano immagini ed emozioni.
In alcuni dialoghi del Re Lear ad esempio, si parla di frequenti eclissi di sole e luna le quali, dice Gloucester, «non promettono nulla di buono, sebbene la scienza della natura possa farle apparire, in un modo o nell’altro, razionali, tuttavia la natura si vede colpita dai seguenti effetti: l’amore si raffredda, l’amicizia si interrompe, i fratelli si dividono. Nelle città, sommosse; nelle nazioni, discordia; nei palazzi, tradimento; e si spezza il vincolo tra figlio e padre. Questo mio malfattore rientra nella predizione; il figlio contro il padre. Il Re abbandona la traiettoria naturale; e abbiamo il padre contro il figlio».

In poche frasi Shakespeare ci mostra a parole l’immagine del Testo: l’eclissi.
La luna e il sole oscurano la terra e spezzano il vincolo tra padre e figlio. Ma non è finita qui.
Edmund, suo figlio illegittimo, risponde a Gloucester: «Ecco la mirabile stupidità del mondo: quando le nostre fortune decadono – spesso per gli eccessi del nostro stesso comportamento – rendiamo colpevoli dei nostri disastri il sole, la luna e le stelle, come se fossimo delinquenti per necessità, sciocchi per coercizione celeste, furfanti, ladri e traditori per il movimento delle sfere, ubriaconi, bugiardi e adulteri per obbedienza forzata all’influsso dei pianeti – e tutto il male che facciamo è dovuto all’imperativo divino. Magnifica trovata dell’uomo puttaniere, quella di mettere i suoi istinti da caprone a carico d’una stella».

E subito entra Edgar, il figlio legittimo:

«EDMUND: Sto pensando, fratello, a una predizione che ho letto l’altro giorno su ciò che dovrebbe seguire a queste eclissi.
EDGAR: Ti occupi di queste cose?
EDMUND: Credimi, gli effetti di cui scrive costui sono tremendi. Odio innaturale tra il figlio e il padre; morte, carestia, rottura di antiche amicizie, divisioni nello stato, minacce e maledizioni contro re e nobili, diffidenze infondate, messa al bando di amici, dissoluzione di eserciti, rottura di matrimoni e non so che altro».

Shakespeare dice a parole cosa vedremo fra poco e ci dice anche quale dovrà essere la luce che illuminerà quest’odio innaturale.
Una volta che l’eclissi si manifesta come fatto luminoso, fisico ed emotivo, allora molte parole possono cadere e lasciare spazio al tramonto di un vecchio uomo che grida nel buio e nel silenzio una sola parola per cinque infinite volte: «never, never, never, never, never».

Il dialogo di Edmund sopra citato risulta didascalico, Edmund che avrebbe letto una predizione su ciò che dovrebbe seguire alle eclissi…
Shakespeare reiterava più volte la stessa informazione affinché tutti gli spettatori di qualsiasi estrazione culturale e sociale potessero capire e non perdere il filo della trama. Ma quando un evento si vede e agisce emotivamente su chi guarda, le parole che lo hanno descritto o evocato devono farsi da parte e dissolversi nel silenzio. Del resto Shakespeare fu il primo a sfruttare deliberatamente le potenzialità musicali e narrative del silenzio, fino ad arrivare, proprio nel Re Lear, a indicare in una rarissima didascalia nella scena straziante dell’incontro di Cordelia col padre morente, la parola musica.
Quella scena, dice Shakespeare, deve essere accompagnata dalla musica. La didascalia musica è immediatamente seguita dalla frase del dottore che invita Cordelia ad avvicinarsi a Lear:

«DOTTORE: Vi prego, avvicinatevi. Quella musica, più forte!
CORDELIA: O caro padre! Il ristoro deponga la tua medicina sulle mie labbra e questo bacio ripari il male crudele che le mie due sorelle hanno fatto alla tua riverenza».

Queste parole, dice Shakespeare, vanno cantate in musica.
Tramite le parole Shakespeare ci fornisce la chiave d’accesso per compiere ogni sera la funzione primaria del teatro: mostrare l’immagine che sta dietro al testo.
Il testo racconta che Macbeth uccide il re ma tra le parole si nasconde anche l’immagine di Macbeth che uccide il sonno. Questa immagine si compie nel silenzio.
Le parole dicono l’immagine ma non basta dire ciò che più volte è scritto. Una volta individuate si può fare a meno persino di pronunciarle, poiché dirle non comporta alcun effetto, esse devono avere una corrispondenza nelle immagini. Si può ripetere all’infinito la frase Macbeth ha ucciso il sonno, senza che nulla accada in scena, oppure si può mostrarne l’immagine.
Bisogna vedere la morte del re e sentire la morte del sonno.
Nel MACBETTU, la scena della morte di Duncan è accompagnata da nove minuti di silenzio e di penombra. Ogni sera si assiste a una preziosa apnea collettiva. Le guardie vengono abbeverate come maiali, il vino le stordisce, si adagiano in terra, russano e cantano in coro la morte del sonno. Nel testo originale quelle parole che ora formano una partitura musicale vengono raccontate in un dialogo tra Macbeth e la Lady. Sono solo parole in un dialogo, ma parole preziose, poiché pronunciano l’immagine. Noi dobbiamo trovare l’equivalente visivo ed emozionale delle parole così che gli spettatori possano guardare in silenzio l’osceno fatto: Macbeth uccide il re.
Ma tale silenzio è stato anticipato e creato dal coro dei dormienti che gridano dall’aldilà l’indicibile immagine: Macbeth ha ucciso il sonno.

4. Parole di silenzio

La danza è una poesia silenziosa e la poesia una danza parlante.
Plutarco

Marcel Proust, Samuel Beckett e a Anton Cechov sono gli autori che più amo e che considero maestri di scrittura. Nelle loro opere accadono per me due cose fondamentali: si dice la verità e si compie lo straordinario attraverso l’ordinario. Ma soprattutto mi pare che sia lo stile a rendere così prossimi questi autori all’apparenza così lontani. Mi riferisco alla capacità di utilizzare un numero limitato di parole per comporre frasi di una bellezza folgorante. Parole semplici, alla portata di tutti, e non importa se Beckett si esprime per sentenze mentre Proust è capace di comporre un periodo di trenta righe senza un punto e senza che il respiro, nel dirle, vacilli per un solo istante.
Descrivere il mare è difficilissimo, disse Cechov a Bunin: «Sapete che cosa ho letto di recente sul quaderno di uno scolaro? “Il mare era grande”. Punto. È straordinario, a parer mio».

Questa economia di mezzi espressivi, che è propria della poesia, apre le porte alla visione interiore del lettore, una visione che riconduce al silenzio che ha generato quelle parole.
Lo stesso vale per la musica: una frase musicale di Mozart è immediatamente leggibile da chiunque. Ciò che conta è la costruzione della frase, la punteggiatura, le pause, in una parola: il ritmo.
Ciò vale per la letteratura ma ancor più per il teatro: i dialoghi devono essere agili, scorrevoli, una semplice parola detta nel modo giusto al momento giusto può produrre attimi di profonda intensità, e silenzio.
La musica, il ritmo e i silenzi di un testo si scrivono con la punteggiatura: la durata di una frase, l’intervallo di una virgola, lo stop di un punto, la sospensione dei puntini…
Ma soprattutto la pausa.
È con la parola pausa che l’autore suggerisce il tempo. Questo tempo a volte coincide con la scrittura di scena altre volte no. In Beckett le pause si confondono con le parole, e la gestione del tempo è totalmente in mano all’autore. Al termine della sua opera Play (Commedia) Beckett scrive la seguente didascalia: Repeat play, ripetere la commedia. Il tempo lo dà lui, non il regista.
In Cechov le pause sono rare ma fondamentali. Il quarto atto de Il Giardino dei ciliegi, scrive Cechov in una lettera, dovrebbe durare dodici minuti massimo, eppure nell’atto dell’addio Cechov per nove volte indica pausa, come se questa fuga fosse continuamente frenata. E proprio in termini musicali si riferirà a Dančenko: «Deve essere una fuga non un adagio! È spaventoso! Un atto che dovrebbe durare 12 minuti maximum, voi lo trascinate per quaranta minuti. C’è una sola cosa da dire: Stanislavskij ha rovinato la mia pièce. Pazienza».

Un esempio dal terzo atto. Lopachin torna dall’asta e viene interrogato da Ljuba e Piśčik:

«PIŠČIK: E allora quest’asta? Che aspetti a raccontare!
LJUBOV’ ANDREEVNA: È stato venduto il giardino dei ciliegi?
LOPACHIN: Sì, è stato venduto.
LJUBOV’ ANDREEVNA: E chi l’ha comprato?
LOPACHIN: L’ho comprato io.
Pausa.
Ljubov’ Andreevna è affranta; cadrebbe se non si reggesse fra un tavolo e una poltrona. Varja si toglie il mazzo di chiavi dalla cintura, lo butta sul pavimento in mezzo al salotto ed esce».

La pausa, e dunque il silenzio, è dopo la battuta di Lopachin, non prima. Sono tre battute fondamentali sulle quali non va posta enfasi alcuna, se non si vuole cadere nel melodramma. Come nella vita le parole scorrono, si accavallano, si attraversano, scombinate e confuse, finché s’impone il silenzio che traccia una partitura e incide l’aria rendendola densa: a volte rarefatta, a volte irrespirabile e piena di dolore.
Spostare quella pausa e metterla prima dell’ultima battuta di Lopachin – nel tentativo di creare un’insensata suspense – equivale a trasformare un’opera perfetta in una sceneggiata.
Cechov costruisce momenti di prezioso silenzio, e questo è un esempio mirabile. C’è una pausa che interrompe bruscamente le parole e questa pausa diviene il silenzio su cui si staglia il suono metallico di un mazzo di chiavi gettato in terra, presagio delle scuri che presto si abbatteranno sui ciliegi.
Ignorare le pause, ignorare i silenzi, ignorare il ritmo equivale a ignorare il testo.
Dobbiamo scolpire l’aria, rendere sensibile il tempo, lasciare scorrere le parole come una musica, senza fingere pensieri, appoggi.
Nella vita non si pensa: si parla, si agisce, si sbaglia…
Compito della scrittura di scena è ricostruire lo spazio e il tempo plasmando la materia tutta:
luce, danza, oggetti, suoni…
Compito della scrittura di scena è edificare il silenzio.
Poiché è nel silenzio che si compie l’indicibile.


Epilogo

Le parole costruiscono il silenzio, così come la grande musica non è altro che imitazione del silenzio. L’ascolto della musica attiva il silenzio interiore e prepara il sopraggiungere del silenzio esteriore. Ciò è accaduto in forma esemplare a Lucerna nel 2012 con la direzione del requiem di Mozart di Claudio Abbado. Al termine del Lux aeterna, il direttore resta inebriato dalla musica che decanta in lui, nel suo respiro, nel suo sguardo e negli occhi che guardano in alto, e così il pubblico per quaranta interminabili secondi ascolta il silenzio. Il miracolo di una comunità in meditazione collettiva.
Il silenzio che segue un’opera Mozart è esso stesso opera di Mozart e se Abbado non avesse chinato il capo per ringraziare starebbero ancora lì, a decantare il silenzio, cioè a cantarlo, celebrarlo. Come usa con i vini più pregiati: l’attesa della decantazione affinché respiri e si purifichi, e così nelle grandi passioni della vita, la decantazione le libera delle scorie e dagli eccessi dell’emozione chimica, affinché resti l’essenziale.
La musica non è nelle note, scrive Mozart, la musica è tra le note.
Il testo non è nelle parole ma tra le parole.
Non si tratta di recitare un testo ma di espiantarne l’aura.

 

Alessandro Serra

Si forma come attore a partire dallo studio delle azioni fisiche e dei canti vibratori nel solco della tradizione di Grotowski per poi arrivare alle leggi oggettive del movimento di scena trascritte da Mejercho’ld e Decroux. Integra la sua formazione teatrale con le arti marziali che pratica sin da giovanissimo. Nel frattempo si laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo all’Università la Sapienza di Roma con una tesi sulla drammaturgia dell’immagine. Fondamentale, negli ultimi anni di formazione, l’incontro con Yves Lebreton e il suo metodo del Teatro Corporeo. Nel 1999 fonda la Compagnia Teatropersona, con la quale comincia a mettere in scena le proprie opere che scrive e dirige, curandone scene, luci, suoni e costumi. Tra il 2006 e il 2011 il lavoro di ricerca sulla scena come puro fatto materico si concretizza in una “trilogia del silenzio” composta dagli spettacoli Beckett Box (premio Beckett&Puppet), Trattato dei Manichini (Premio ETI Nuove Creatività e Premio di scrittura di scena Lia Lapini) e AURE, in cui la drammaturgia è praticata quale vero e proprio espianto di aure dalle opere letterarie di Samuel Beckett, Bruno Schulz e Marcel Proust. Nel 2009 crea la sua prima opera per l’infanzia, Il Principe Mezzanotte, finalista Premio Scenari Infanzia, Premio dell’Osservatorio critico degli studenti, presentato in oltre trecento repliche in Italia e all’estero. Nel 2013 crea Il Grande Viaggio (Premio del Pubblico al FIT Festival di Lugano), opera tout public sul tema dell’immigrazione. Nel 2015 la sua ricerca teatrale si accosta al linguaggio della danza e con il sostegno della fondazione Giacometti di Stampa (CH) crea L’ombra della sera, dedicato alla vita e alle opere di Alberto Giacometti. Nello stesso anno, in collaborazione con gli attori della compagnia Accademia Arte della diversità di Bolzano crea H+G, premio EOLO 2015. Nel 2017 ritorna al teatro di prosa e crea MACBETTU inspirato all’opera di Shakespeare e recitato in lingua sarda. Lo spettacolo vince il Premio ANCT 2017 dell’Associazione Nazionale Critici di Teatro e il PREMIO UBU 2017 come miglio spettacolo dell’anno. Al MESS festival di Sarajevo MACBETTU vince la Golden Mask -Oslobodenje- oltre al “Luka Pavlović” theater critics’, e il Grand Prix “Golden Laurel Wreath Award” ad Alessandro Serra come miglior regista.
Premio le maschere del Teatro italiano 2019 miglior spettacolo per MACBETTU, premio le maschere del Teatro italiano 2019 miglior scenografo Alessandro Serra. Nello stesso anno crea FRAME dedicato all’universo pittorico di Edward Hopper. Nel 2019 dirige Umberto Orsini nel Costruttore Solness di Ibsen. Nel 2019 vince il Premio Hystrio alla regia.