La ricchezza dell’essere

di Francesco Gesualdi

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Il concetto di ricchezza dipende dall’idea che abbiamo della persona. Nel nostro sistema mercantile la persona è concepita come strumento di consumo: tubi digerenti con la bocca ben spalancata per ingurgitare tutto ciò che propone la pubblicità e uno sfintere anale bello largo per espellere tutti i rifiuti che si producono durante il transito. Quindi, si considera ricchezza solo ciò che serve ad assecondare le nostre terminazioni sensitive.
Ma l’essere umano non può essere ridotto al rango di animale da ingrasso. Una vita spesa al servizio del consumo non ci connatura, per questo il sistema si è organizzato per spingerci a forza verso il super consumo. Lo fa attraverso la pubblicità, presentandoci mondi fantastici dove tutti siamo ricchi, sempre giovani e felici – perfino quando ci facciamo la pipì addosso, tanto ci pensa il pannolone profumato a renderci attraenti.

Fra i mille inganni della pubblicità c’è anche quello di nasconderci il ruolo del denaro. Esperienza che invece facciamo al supermercato, dove puoi mettere nel carrello tutto ciò che vuoi, ma poi devi passare dalla cassiera, che se hai i soldi fa passare tutto, altrimenti rimanda tutto indietro. In altre parole, per consumare molto abbiamo bisogno di molti soldi, che la maggior parte dei comuni mortali può ottenere solo dal lavoro. Quanto tempo dobbiamo dedicare al lavoro per ottenere tutti i soldi necessari al consumismo che la pubblicità ci stimola? Ovviamente dipende dal livello dei salari, a loro volta dipendenti dalla forza contrattuale. Oggi, che siamo in regime di bassa forza sindacale, il tempo di lavoro si fa sempre più alto: anche dieci ore al giorno, che aggiunte al tempo per gli spostamenti possono diventare dodici o tredici ore giornaliere. La domanda che si pone, dunque, è dove rimane il tempo per le altre dimensioni del vivere umano. Una ricerca, condotta in Inghilterra su quattromila famiglie, ha rivelato che il tempo medio passato insieme da tutti i componenti di casa non va oltre i cinquanta minuti al giorno. In altre parole, le famiglie non sono neanche delle pensioni, bensì dei non luoghi, delle stazioni di transito nelle quali ci si fa ‘ciao ciao’ con la manina e niente più. Il che dimostra che la grande vittima della nostra vita di corsa sono le relazioni, che quasi non esistono più. Ci illudiamo di poterne fare a meno, ma in loro assenza il disagio esce fuori da tutti i pori sotto forma di insonnia, depressione, aggressività. La conclusione è che ciò che ci viene spacciato per ricchezza alla fine ci fa stare male. E allora di che razza di ricchezza si tratta?

È evidente che l’idea di ricchezza va riformulata, ma solo partendo da una giusta idea di benessere possiamo arrivare a una giusta idea di ricchezza. Nel nostro immaginario ‘benessere’ è sinonimo di agiatezza, confort, denaro, lusso. In televisione i ricchi sono sempre sorridenti, soddisfatti, realizzati, appagati. Ed ecco il corto circuito: ricchezza uguale felicità. Ma negli Stati Uniti, nonostante la crescita del PIL, il numero di persone che si dichiara molto soddisfatta è passata dal 38,3%, nel 1974, al 32,5% nel 2014, a dimostrazione che felicità e crescita economica non procedono di pari passo. La spiegazione l’ha data Bob Kennedy: «Il PIL misura tutto eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta». In effetti, nella logica del PIL siamo solo macchine da produzione e consumo. Robot senza anima, senza affetti, senza empatia. La realtà, invece, è che siamo esseri a più dimensioni: non solo corpo, ma anche sfera affettiva, intellettuale, spirituale, sociale. Si ha vero benessere solo quando tutte queste dimensioni sono soddisfatte in maniera armonica. Il prevalere di una sull’altra non crea benessere; la soddisfazione nella giusta misura di tutti questi livelli dell’essere, invece sì. Dobbiamo smettere di pensare al benessere come se fosse esclusivamente benavere; dobbiamo piuttosto cominciare a concepirlo come benvivere. Il concetto è stato elaborato dagli indios dell’America Latina e si basa sulla convinzione che la buona vita dipende non tanto dall’avere, quanto dalla fecondità della natura, da ritmi di vita sereni, dall’appagamento affettivo, dal sostegno comunitario. È la convinzione che la buona vita si costruisce con forti vincoli comunitari e un forte rispetto per l’ambiente. Il vero benessere è uno stato di armonia in tre direzioni: con sé stessi, con gli altri, con la natura. Altrimenti esiste opulenza, abbondanza, lusso, ma non letizia.

Nella logica del benvivere, la ricchezza cambia volto: si ridimensiona l’avere e si rivaluta l’essere. Si restringe la ricchezza materiale e si espande quella immateriale, a partire dall’integrità del creato (che assume valore infinito, anche solo pensando ai nostri bisogni primari). La nostra prima esigenza è respirare, subito dopo viene il bere: senza una buona aria e senza una buona acqua non abbiamo prospettive di vita. È una verità di una banalità disarmante, che però abbiamo dimenticato inseguendo il mito dell’automobile. Il crescere dell’incidenza dei tumori, tuttavia, dovrebbe aiutarci a rimettere ordine nella nostra scala dei valori: che ce ne facciamo di case affollate di cose se poi ci ammaliamo ogni volta che apriamo bocca?
Un altro tipo di ricchezza che acquista importanza quando guardiamo alla globalità della persona è la possibilità di vivere in una comunità capace di solidarietà. Un tempo, quando la sicurezza della nostra vita dipendeva dalla disponibilità del vicino di casa a soccorrerci, la solidarietà stava in cima alla lista delle nostre priorità assieme alla salute, al buon clima, all’unità familiare. Oggi invece, che crediamo di poter comprare tutto col denaro, ci illudiamo di poter fare tutto da soli. Ma il tempo del bisogno, prima o poi, arriva per tutti. Sarebbe bene non aspettare di essere in una situazione di difficoltà estrema prima di capire quanto sia importante poter disporre dell’aiuto altrui. Potremmo continuare con il sapere: quanto vale la conoscenza che ci conduce al bene supremo dell’autonomia, della dignità, della sovranità? E la fiducia? Quanto vale sapere che ti puoi fidare degli altri, che sei contornato da persone oneste? Senza fiducia non funziona neanche il mondo mercantile: nella diffidenza non si concludono affari, non si stringono contratti, non si concedono crediti. E senza volersi soffermare sulla ricchezza rappresentata dalla libertà, dal sentirsi amati, dall’avere tempo sufficiente per riposarsi e ritirarsi nel silenzio, vale la pena citare la pace e l’equità, due ricchezze apicali che si ottengono solo se abbiamo coltivato adeguatamente tutte le altre che stanno scritte nel libro dei saggi, non in quello degli economisti.

 

Francesco Gesualdi

Nato nel 1949 nei pressi di Foggia giunge a Barbiana nel 1956 ed è allievo di don Milani fino al 1967. Partecipa alla stesura di Lettera a una professoressa. Nel 1983 si trasferisce a Vecchiano (Pisa) per vivere un\’esperienza semi-comunitaria con altre famiglie decise a dare solidarietà concreta a situazioni di difficoltà. All\’interno di questa iniziativa fonda il Centro Nuovo Modello di Sviluppo per affrontare, da un punto di vista politico i temi dell’insostenibilità ambientale, della povertà, della fame, del disagio nel Nord come nel Sud del mondo. Attualmente è pensionato e coordina, a titolo di volontariato, il Centro Nuovo Modello di Sviluppo. La sua attività di saggista inizia nel 1982 con la pubblicazione di Economia conoscere per scegliere un testo di divulgazione economica destinato alla scuola. Prosegue con la pubblicazione di un’altra ventina di testi (di cui alcuni a firma propria, altri del Centro Nuovo Modello di Sviluppo), i più recenti dei quali sono: Manuale per un consumo responsabile (Feltrinelli), Sobrietà (Feltrinelli), Le catene del debito (Feltrinelli), Risorsa umana (Edizioni Sanpaolo), Gratis è meglio (Altreconomia), Società del benessere comune (Arianna). Ha anche scritto due romanzi: Il mercante d’acqua (Feltrinelli) e I fuorilega del Nordest (Dissensi).