Che cosa è la ricchezza?
di Sergio Beraldo
La domanda «Cosa è la ricchezza?» è complessa. Io comincerei pertanto da una distinzione che può contribuire a limitare la confusione in cui inevitabilmente si cade quando si è interpellati in modo così diretto, su circostanze cui è anche legato, direttamente o indirettamente, il senso che diamo alle nostre tiepide vite.
Innanzitutto distinguerei una ricchezza materiale da una ricchezza che materiale non è. La distinzione potrebbe apparire banale, ma io non credo che lo sia. Si noti: io non ho distinto una ricchezza materiale da una immateriale; semplicemente perché vi sono molte componenti della ricchezza materiale – almeno per come io la definisco – che sono immateriali. Si pensi ad esempio ai brevetti.
Dunque io distinguo una ricchezza materiale da una ricchezza che materiale non è. E mi chiedo, innanzitutto: in cosa consiste la ricchezza materiale? Quale ne è il fondamento?
A ben guardare il fondamento della ricchezza materiale è dato dai desideri degli uomini e dalla competizione che tra gli uomini s’innesca per soddisfare tali desideri. La parola desideri deve qui essere intesa in senso ampio, in modo da comprendere anche i bisogni irrinunciabili dell’uomo (alimentarsi, per esempio).
È la scarsezza di un oggetto rispetto alla domanda che ne fanno gli uomini in vista della soddisfazione dei propri desideri, che conferisce pregio all’oggetto. Che fa di un oggetto una risorsa, il cui valore è tanto più grande quanto maggiore è la scarsezza rispetto al desiderio.
La ricchezza materiale è pertanto il complesso delle risorse possedute, il cui valore dipende da quanto stringente è la competizione per accaparrarsele. Da quanto sono intensi i desideri degli uomini per esse.
L’accumulazione di ricchezza può essere un obiettivo in sé. Chi non ricorda le vignette di Zio Paperone che nuota nell’oro? Anche ne La roba di Giovanni Verga – dove il protagonista desidera che i propri possedimenti lo seguano all’altro mondo – l’accumulazione della ricchezza sembra guidata dal solo desiderio compulsivo di ammassare risorse desiderate anche da altri, qualificandosi pertanto, l’accumulazione, come un obiettivo specifico e primario.
Più frequentemente, tuttavia, la ricchezza materiale è ancillare al raggiungimento di altri obiettivi; in questo senso è una fonte di potere, perché facendo perno sui desideri che la alimentano, rende possibile condizionare il comportamento altrui.
Come certamente saprete, alcuni economisti hanno documentato il processo di concentrazione della ricchezza materiale che si sta compiendo a livello mondiale. La ricchezza si concentra, il potere si concentra. L’eccessiva concentrazione della ricchezza materiale è un male. Non solo perché svilisce l’idea della società umana come di una società fondata sulla cooperazione per il mutuo vantaggio, in cui ciascuno ottiene un’equa quota del prodotto sociale alla cui formazione ha contribuito. L’eccessiva concentrazione della ricchezza è un male perché a essa è associata un’eccessiva concentrazione del potere.
Le società liberali sono fondate sulla divisione del potere, sul suo spezzettamento. L’eccessiva concentrazione della ricchezza – e dunque l’eccessiva concentrazione del potere – costituisce un pericolo per la società liberale. Soprattutto poi se tale ricchezza si alimenta della capacità di controllare risorse cruciali per il funzionamento stesso di tali società. Mi riferisco qui, per esempio, al problema relativo alla concentrazione di potere a favore di organizzazioni che controllano risorse cruciali per l’accesso e l’utilizzo della rete; si pensi ad esempio a Google.
In precedenza ho chiarito che avrei distinto una ricchezza materiale da una che materiale non è. Ho provato – non saprei dire se in modo efficace – a definire ciò che si può plausibilmente intendere per ricchezza materiale. Il passo successivo consiste nel chiedersi cosa si può invece intendere per ricchezza che materiale non è.
Un primo tentativo di definire la ricchezza che materiale non è, potrebbe fare perno sulla circostanza che ciascuno di noi possiede un patrimonio di relazioni. Non solo gli economisti e i sociologi, ma anche gli antropologi e biologi, hanno enfatizzato le qualità relazionali degli uomini, ponendo in evidenza i vantaggi che derivano all’individuo dal patrimonio di relazioni che, appunto, possiede. Viste in questi termini – come patrimonio che può dare luogo a vantaggi per l’individuo – anche le relazioni sarebbero però una componente della ricchezza materiale, così come l’ho definita in precedenza. Il mio patrimonio di relazioni – banalizzando: la mia agenda – è qualcosa che può essere ambito dagli altri in vista della soddisfazione dei propri desideri. In questo senso è una componente della ricchezza che ho in precedenza definito come materiale.
Prendendo il toro per le corna definirei la ricchezza che materiale non è, come l’insieme delle condizioni che consentono di vivere una vita pienamente e autenticamente umana.
Ma cosa significa questo? Cos’è una vita pienamente e autenticamente umana?
La risposta a questa domanda conduce inevitabilmente lontano dalle mie competenze di economista. Chiedo scusa pertanto se per l’urgenza di rispondere mi espongo al rischio di apparire ingenuo o superficiale.
Nella mia prospettiva, una vita pienamente e autenticamente umana è una vita cui non è impedito di contemplare la bellezza e di concorrere al suo perfezionamento nelle circostanze in cui ci è dato di vivere. Siamo nati per la bellezza; è il nostro vero, incompreso destino. L’insieme delle condizioni che ci consentono di contemplare la bellezza e di concorrere al suo perfezionamento nelle circostanze date, costituisce, a mio avviso, la ricchezza che materiale non è. Tra queste condizioni porrei il sussistere di relazioni interpersonali ispirate al principio di gratuità.
Com’è noto, San Paolo intende la carità come amore incondizionato; la carità è per lui la vera ricchezza; ciò che dà senso e valore non solo a qualsiasi talento e capacità umana, ma anche alle componenti della ricchezza materiale: «Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna». È evidente che la carità così intesa è prerogativa dei santi (il celebre dialogo tra San Francesco e il povero Frate Leone sulla strada che da Perugia portava a Santa Maria degli Angeli, lo testimonia in modo brillante). Per le persone comuni è forse più facile intendere la carità come vera amicizia. Ma la vera amicizia non è poi così diversa dalla carità. In realtà ne è una manifestazione: così come la carità paolina, anche la vera amicizia è infatti caratterizzata dal suo nutrirsi di gratuità.
Non vi sarà sfuggito che, in linea di principio, tra le circostanze che consentono una vita pienamente e autenticamente umana – ciò che io ho posto come gli elementi costitutivi della ricchezza che materiale non è – vi sono anche le condizioni materiali che ciascuno sopporta. Sono così impellenti le nostre esigenze materiali, che Gesù stesso esorta i suoi seguaci a ricordarle nella preghiera al Padre: panem nostrum quotidianum da nobis hodie. Questo significa che la nostra capacità di creare valore mediante l’ambizione innescata dal desiderio non deve spaventarci. Occorre però considerare che la ricchezza così prodotta è solo una parte della nostra potenziale ricchezza complessiva; una parte non in grado, peraltro, di appagare la nostra ricerca di senso, la nostra ambizione a essere felici.
Qualche anno fa, si scoprì che il Cardinale di una importante città italiana aveva circa un miliardo di lire nella propria personale disposizione. I risparmi di una vita, disse. Rimasi molto colpito. Rimasi colpito perché il Vangelo di Matteo è molto chiaro sull’insegnamento di Gesù relativo alla ricchezza: «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore».
Un fraintendimento, tra Gesù e il Cardinale, doveva certo essersi verificato.
Sergio Beraldo
Sergio Beraldo è Professore associato di Economia politica presso L’Università di Napoli “Federico II” e research fellow del Center for Studies in Economics and Finance (CSEF). I suoi interessi di ricerca ricadono nell’ambito dell’Economia pubblica e della Teoria economica delle istituzioni.