Il lusso della gratuità. A proposito dei festival
di Attilio Scarpellini
«Oggi, se si devono proprio dire le cose come stanno, nessuno sa più che cosa sia l’arte (né tantomeno che cosa sia la bellezza); si sa solo che l’uomo continua ad aver bisogno di un atto, di un lavoro, di una forma che siano puri e gratuiti, cioè che servano unicamente a dare un significato alla vita…» (Nicola Chiaromonte, Il buon attore).
Un giorno, al tavolo del buffet di un festival di teatro ho sentito il direttore di un altro festival di teatro stigmatizzare il carattere “auto-referenziale” del luogo in cui si trovava: l’operatore in questione insinuava il sospetto che i soldi spesi per quella manifestazione – di cui lui stesso in quel momento stava godendo, sia pure in minima parte – fossero mal spesi in relazione al territorio. Nello stesso tempo, mi magnificava i grandi benefici che il suo festival produceva sul suo territorio. Finora, ho visto e sentito l’odio per i festival esprimersi nel modo più acuto soprattutto da parte di persone che erano accolte, ospitate e rifocillate all’interno di un festival, ma essendo la stessa cosa che mi capita, e sempre più spesso, nei foyer dei teatri o all’uscita dei teatri, nelle sale dei teatri e nei convegni dedicati al teatro, ho deciso di non farci caso. L’odio per i festival, però, lo capisco ancora meno che l’odio per il teatro: di quest’ultimo, almeno, eccellenti studiosi hanno spiegato come da più di un secolo faccia parte della stessa estetica teatrale. O meglio: capisco perfettamente che si voglia impedire alla gente di fare festa. Il potere e i poteri – Roland Barthes sosteneva che la parola andasse coniugata al plurale – hanno sempre cercato di tenere a bada la festa, le feste e l’attitudine festiva dei propri sottoposti. Uno dei primi provvedimenti dell’amministrazione coloniale inglese in Kenia fu di proibire la Ituika, una festa che celebrava il passaggio da una generazione all’altra mobilitando per sei mesi, con canti e danze, interi villaggi in una specie di racconto rituale collettivo. L’amministrazione britannica sentiva il bisogno di stigmatizzare e di razionalizzare quell’enorme dispendio di energie simboliche a danno del lavoro, dell’economia e dell’organizzazione sociale: la Ituika venne soppressa e sostituita nelle città dalla fondazione di teatri con il palcoscenico all’italiana dove si mettevano in scena drammi di Shakespeare e commedie di George Bernard Shaw, ovviamente recitati in lingua inglese. Tornando a paesaggi più contemporanei – sembra che siano quelli che ci interessano – la tendenza generale della politica e dell’amministrazione, da qualunque angolo di visuale la si guardi o la si interpreti, è di tipo punitivo. Il principale oggetto di punizione del tardo capitalismo in tempi di crisi, apparentemente, è lo spreco (e lo spreco di denaro pubblico in particolare). In realtà, ciò con cui siamo chiamati a farla finita, una volta e per tutte, sono le eccedenze e gli eccessi, i residui e le superstizioni del simbolico. Se ne è avuta una plastica rappresentazione di recente con l’incendio che ha devastato la cattedrale di Notre Dame: questo rogo sprigionatosi nel bel mezzo di un aprile che non aveva alcuna causa riconducibile a una volontà umana, ma soltanto al caso, all’incuria, alla debolezza, ha suscitato immediatamente un’attrazione irrazionale, e inspiegabile visto il livello avanzato di secolarizzazione della società che ne era coinvolta, un sentimento di lutto di una tale intensità che qualcuno si è sentito in dovere di puntualizzare che la vera tragedia era altrove, come se piangere per il legno combusto di una chiesa costruita tra il XII e il XIV secolo fosse in contrasto col piangere i profughi morti in mare tra le due rive del Mediterraneo. Notre Dame, il suo pensiero, la sua storia, l’arco temporale e di esistenze umane in cui è stata edificata, da persone che non si volevano ancora artisti, ma incidevano le pietre con le cifre di un’appartenenza iniziatica nota solo a Dio e ai loro compagni, è uno spettacolare e incomprensibile esempio di gratuità, un luogo inutilmente abbagliante nel deserto in cui i pellegrinaggi sono stati sostituiti dal turismo, la sua guglia miseramente crollata ha da tempo smesso di essere un axis mundi, un’antenna che intercetta una qualunque comunicazione sovrannaturale. In un certo senso, gli umanisti e i neo-illuministi che hanno stigmatizzato l’incongruenza, l’ipocrisia e in alcuni casi la reazionaria tendenziosità delle manifestazioni di sconcerto scatenate dal suo incendio, non hanno torto. Viviamo fuori dall’orbita del sacro da tanto tempo. E l’arte stessa non è che un culto degradato nel proprio continuo superamento, in quel disgregarsi dei suoi oggetti che è quasi il suo unico spettacolo a contatto con una vita, quella della tarda modernità, abbastanza estetizzata per non aver bisogno delle sue manifestazioni, per renderle definitivamente superflue. La sua unica giustificazione anzi è il ricollegarsi a un sistema di gratificazione culturale e di scambio politico o il suo essere parte di un mercato (di un mercato dell’arte).
Cosa c’entrano i festival di teatro con tutto questo? I festival che vengono sempre più spesso accusati di non fare sistema con quel che resta dell’antica cultura dei teatri stabili pubblici, periferie impazzite di un centro che non concentra più nulla? I festival che si rendono colpevoli di una contro-programmazione artistica che poi non verrà stabilizzata a beneficio dei molti (che sono ancora pochi) utenti-spettatori delle stagioni dei teatri urbani? C’entrano, anzitutto, perché essi sono i luoghi in cui si mantiene, e in un certo modo si protegge, quella socialità dell’arte che secondo il poeta Elio Pagliarani (1) era la pratica che maggiormente distingueva il teatro dalla nascente (all’epoca in cui scriveva le sue cronache teatrali su «Paese Sera») cultura di massa – o per usare un altro criterio, attivato da vari artisti e interpreti (ne cito solo due, Jerzy Grotowski e Claudio Morganti), i luoghi dove la differenza propriamente artistica dell’atto teatrale può, e può permettersi il lusso di, non coincidere (o di de-coincidere direbbe François Jullien) con il prodotto spettacolare. Mi rendo conto che l’uso della parola “socialità” può entrare in rotta di collisione con la diversità di sguardo presupposta dalla seconda definizione – che darebbe invece adito ai soliti equivoci sull’elitarismo, l’esoterismo e l’esclusivismo degli atti e dei processi artistici puri – e accolgo la contraddizione: ma per “sociale” intendo semplicemente ciò che favorisce l’incontro tra le persone, e non ciò che mobilita il maggior numero di persone possibili. In quest’ultima accezione, il Black Friday, la presentazione di un nuovo modello di smartphone, con la gente che mette le tende sulla strada in attesa dell’apertura del negozio, o l’adunata di una folla totalitaria sono molto più sociali di un funerale, di una festa di piazza, di una messa e anche di un qualunque spettacolo teatrale. Forse si potrà rimproverare alla mia idea di socialità di essere ferma all’evangelico «quando due o tre di voi si riuniranno in mio nome». Ma lo era anche quella di Pagliarani che nella premessa del suo libro chiamava in causa l’intreccio vitale tra il fiato dell’attore e il fiato dello spettatore – e il fiato è l’aleatorio prodotto di una certa intimità, non ancora un contatto, già uno spirito – l’evento di una prossimità, ovviamente non ordinaria (non è mai comunque, ordinaria, come ben si sa, l’irruzione del “mio” prossimo nel mio orizzonte vitale). Ora, i festival non sono vetrine di spettacoli, sono luoghi aperti, in una geografia per lo più decentrata, per accogliere l’arte in ciò che essa ha di più fragile, di più rischioso, di meno omologabile, favorendo il suo incontro con una comunità di pubblico: neanche il più roboante e frequentato di essi, il festival di Avignone, sfugge a questa definizione, se è vero che l’intenzione originaria di Jean Vilar era di portare il teatro d’arte alla prova dell’ascolto popolare. Neanche l’estensione, la capacità di mobilitazione o la ricchezza dei mezzi – per altro quasi sempre relativa rispetto ad altre kermesse – dei grandi festival metropolitani, si tratti di Romaeuropa o del parigino Festival de l’automne, rompono del tutto l’atmosfera festiva che li avvolge o quel sentimento eccezionale di investitura umana dello spazio che, nel caso delle grandi città, si approssima al respiro febbrile delle emergenze e delle occupazioni politiche (e dunque al senso più pericolosamente dionisiaco della festa). In compenso persino la più claudicante delle rassegne organizzata nel più piccolo e sfortunato dei centri vive l’impressione vertiginosa di risignificare nel tempo che le è dato, e attraverso la presenza dell’arte, gli spazi, le relazioni e la storia di una comunità civile, magari indifferente, alle volte addirittura ostile. Non esistono festival senza festività, dunque – e questo vuol dire senza frattura dell’ordine del tempo – né senza il tentativo di istituire un genius loci, di ridefinire lo spazio comune attraverso la liturgia artistica e la trasformazione qualitativa della partecipazione sociale. Che essi accolgano grandi spettacoli internazionali, permettendo scoperte di cui poi, e quasi sempre con estrema lentezza, si approprieranno i palcoscenici nazionali – è accaduto con Milo Rau e con i Rimini Protokoll – o che covino nei loro spazi ospitali studi aurorali, performance di un giorno, danze di lontani paesi e installazioni site-specific, non fa alcuna differenza; non se si ammette che ciascun festival introduce nel paesaggio artistico la differenza della propria vocazione e se si smette, invece, di misurare il suo diritto a esistere su una funzionalità che è sempre e comunque relativa a un sistema dominato dal primato e dalla centralità dei teatri nazionali (che in alcuni, fortunati, casi sfogano la creatività compressa nel rachitismo delle stagioni proprio nei festival ad essi collegati). Nel festival è il rapporto gerarchico tra teatro e spettacolo, tra processo e risultato, a essere ribaltato secondo una prospettiva di gratuità che è invece inammissibile (o appunto occasionale) nell’economia ristretta dell’interesse (commerciale e/o politico) a cui le istituzioni teatrali sono necessariamente legate: in un sistema dove la qualità stessa si traduce in un algoritmo, è del tutto ovvio che l’arte, e la stessa tormentata discussione che la riguarda e ne definisce il riconoscimento, non possano rappresentare dei criteri dirimenti ma facciano parte dei conti che non tornano mai. Non si tratta affatto di rivendicare una presunta innocenza dei festival rispetto all’attuale produzione spettacolare, è palese che questa innocenza non esista e che anzi la distanza tra i due modelli amministrativi si riduca sempre di più e di conseguenza si accentuino gli episodi di cattiva gestione, gli abusi perpetrati in nome della sopravvivenza economica – e quel che è peggio perpetrati ai danni degli artisti – o si moltiplichino i fenomeni di scambio politico con i territori che, da quando sono diventati proiezioni cartesiane del potere centrale, interpretano il ritorno di consenso legato alla produzione culturale non più come un’eventualità o un lavoro paziente ma come una specie di inalienabile diritto sovrano da esigere tutto e subito. Ma è certo che anche questi esempi di degradazione sono il frutto di un’opera di svalutazione culturale dei festival e che quest’ultima è a sua volta il prodotto di un’offensiva più generale diretta a rimpiazzare i valori dell’arte con quelli dell’intrattenimento – e a saldare definitivamente quella bilancia mai in equilibrio tra l’arte e l’amministrazione di cui parlava Theodor Adorno. Non dico nulla di nuovo, in fondo, di quello che Piergiorgio Giacchè è andato ripetendo in questi anni sul rovesciamento valoriale delle relazioni tra economia, politica, cultura e arte. Con l’evidente ritorno sulle grandi scene di un teatro pompieristico nuovamente delegato alla produzione marginale del meraviglioso, dove gli antichi valori vengono restaurati come feticci (prendete la parola, ad esempio, e scoprirete subito che, ad onta dell’entusiasmo suscitato dal suo ripresentarsi sulle nostre scene, nessuno in realtà la ascolta, nessuno riesce a restituirle un autentico valore drammatico ma tutti la trattano al contrario come un’appendice della gesticolazione estetica dello spettacolo: è un ritorno, certo, un ritorno da ritornante, da gradito fantasma che abitava il castello) è scontato che parta il segnale dell’assalto ai festival, alla loro presunzione, alla loro auto-referenzialità, al loro elitismo – questo peccato supremo che l’avvento di una democrazia solo maggioritaria ha reso inespiabile – per non dire della loro astrusa abitudine di continuare a coltivare e a praticare il simbolico nell’ambito di comunità piccole e per altro aperte. È il programma di sistematica e devastante deforestazione della marginalità artistica proposto da Alessandro Baricco, in nome dell’alfabetizzazione al moderno, in un articolo su La Repubblica di ormai dieci anni orsono che cominciava con dei preoccupanti accenti di pietas, per poi passare a elencare una lunga lista di esuberi della cultura e delle pratiche artistiche. Festival inclusi.
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- Elio Pagliarani, Il fiato dello spettatore e altri scritti sul teatro (1966-1984), L’Orma editore, Roma, 2017
Attilio Scarpellini
Attilio Scarpellini, critico,saggista e autore radiofonico. Ha scritto L’angelo rovesciato. Quattro saggi sull’11 settembre e la scomparsa della realtà, La fortezza vuota (con Massimiliano Civica) e la voce “teatro” sull’Enciclopedia delle arti contemporanee I portatori del tempo curata da Achille Bonito Oliva (Vol. III. Il tempo inclinato). Collabora con Radio 3 Rai.