Vivere di festival. L’impensato del teatro*

di Leonardo Delogu

Castrovillari, Castello Aragonese, Festival Primavera dei teatri (edizione 2019: 25/05 > 01/06)

Il primo Amore

Il mio primo festival fu Santarcangelo 2004. Allora avevo da poco cominciato a lavorare con il Teatro Valdoca di Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri, e Santarcangelo dei Teatri quell’anno era diretto da Silvio Castiglioni con la collaborazione di Silvia Bottiroli, Andrea Nanni e Massimo Eusebio.

Nella locandina campeggiava un grande orso bruno.

Sono andato a ricercare il catalogo del festival.

Dall’editoriale della direzione artistica:

«Fin dall’inizio è stato chiaro che si trattava di dare credito ad artisti che erano disposti a mettersi davvero in gioco, a intraprendere o a perseguire la propria ricerca con la “disperata vitalità” cantata da Pasolini a giocare di contrappunto con la realtà, a rischiare il fallimento nel tentativo di contrastare il processo di derealizzazione che corrode la vita di tutti noi… È quindi un gesto sconsideratamente politico, che si è opposto al profluvio di richieste di visibilità di un nuovo teatro a tutt’oggi perlopiù ignorato nelle stagioni dei teatri pubblici, l’esigenza di restituire al festival il suo intrinseco statuto di festività».

L’editoriale continua raccontando il perché ci fosse una importante presenza della danza «non per un interesse specifico per questa disciplina» ma perché maggiormente in grado di affrontare con lucidità temi come “l’espropriazione dell’esperienza” e “la relazione tradizione-innovazione”. Prosegue parlando d’incontro tra il nomadismo dello sguardo e il nomadismo delle pratiche sceniche, di «cartografia mobile dove esuli e apolidi possano incontrarsi e confrontasi nel tentativo comune di ritrovare attraverso la scena, un rapporto con il presente libero dalle dittatoriali smisurate angustie dell’intrattenimento forzato».

La posizione presa dall’allora direzione artistica racconta un’idea di festival che credo sia interessante verificare oggi a distanza di quindici anni: un festival ospita artisti che hanno voglia di rischiare il fallimento ma cosa significa “rischiare il fallimento” oggi?
Un festival non è una vetrina del contemporaneo ma una festività, un rito, un atto collettivo.
Come si attualizza un rito nel presente di un mercato che fagocita tutti gli spazi di liminalità trasformandoli in spazi di consumo? e come si relazionano i festival ad una o più generazioni che premono per avere un riconoscimento che non trovano nei canali istituzionali preposti? Come sopravvivono gli artisti? E come possono tentare atti rischiosi se non ci sono luoghi protetti, nidi da cui tentare il volo? E ancora. La danza, il corpo. Come è possibile che nonostante sia un’evidenza la capacità della danza, di certa danza, di dispiegare un discorso sul mondo più attuale di altre discipline, continui ad abitare le periferie del campo, non riuscendo per davvero ad essere sostenuta? Ed infine la dimensione politica. Come si posiziona un festival rispetto al racconto del presente? Di cosa si occupa e come si concepisce un festival nell’epoca dell’antropocene?

La prima cosa che mi viene in mente pensando ai festival è il camper, le tende, i campeggi, i vari posti in cui ho dormito, mangiato, fatto festa, fatto l’amore. Nella mia esperienza un festival accade quando ha la capacità di realizzare quello stato di eccezione che in primo luogo torce e distorce i riti quotidiani, tutta quella vita che si apre nel tempo di perdita che si consuma, al lato dell’intensità del tempo della visione. Un habitat, un campo esperienziale, in grado di manifestare un’inedita configurazione di possibilità.

Non mi ricordo niente di preciso di quell’edizione del 2004 di Santarcangelo, ma so per certo che giravano racconti di una compagnia che da mesi stava coltivando un campo che sarebbe diventato palcoscenico del loro spettacolo e che da qualche altra parte, un altro gruppo, stava fondendo una vera campana di ferro e, sia quando lavoravano sia quando erano in un tempo più disteso, erano soliti parlarsi tra loro usando il Voi; qualcuno mi raccontava dell’effetto straniante che questa esperienza gli stava offrendo. Credo di aver perso entrambi gli spettacoli quell’anno ma il Teatro delle Ariette con L’estate.fine l’abbiamo riprogrammato nel 2018 a Corale progetto che gestiamo insieme ad altri compagni di viaggio nelle aree colpite dal terremoto del 2016, coltivando noi per loro il campo/palcoscenico, mentre Masque con il progetto Davai, fu la celebrazione dell’editoriale del festival: la fusione della campana non riuscì (o almeno cosi si raccontò).

Credo che un festival possa essere anche questo: una moltiplicazione delle possibilità in cui accettare anche la perdita dell’appuntamento, l’essere asincronici, una piazza di incontri in cui accade anche di non incontrarsi ma dove il racconto può avere la stessa capacità trasformante tanto è carico e vivo d’intenzione quello che è accaduto.

«Non sappiamo più accendere il fuoco, non siamo capaci di recitare le preghiere e non conosciamo neanche il posto nel bosco, ma di tutto questo possiamo raccontare la storia. E, ancora una volta, questo bastò». Così si chiude uno scritto di Sholem in apertura de Il fuoco e il racconto di Giorgio Agamben.

Il racconto di quei due lavori fu l’apertura di una possibilità che impresse nella testa qualcosa che si materializzò molti anni dopo.
Rimango stupito da quanto quel clima di pensiero nel quale mi ero ritrovato quasi per caso, a poco più di vent’anni, appena entrato nel mondo del teatro, avesse avuto un imprinting e anche alcuni aspetti di destino a guardare come poi è andata la storia.

Un’alleanza di corpi

Scrive Heather Davis nella definizione di Art in the Anthropocene in Posthuman Glossary di Rosi Braidotti e Maria Hlavajova:

«L’Antropocene ci chiede di ripensare la traiettoria dell’uomo su questo pianeta sia in termini biologici che geologici. In altre parole, è un concetto che ha il potere di ricordarci del nostro tempo limitato e contingente su questa terra, e che il nostro stesso essere è legato alle rocce e agli altri esseri umani che ci compongono. Cosa ha a che fare l’arte con tutto questo? […] In primo luogo, l’estetica può essere compresa dalla sua fonte etimologica cioè la percezione del mondo esterno da parte dei sensi, dal greco antico αἴσθησις che significa percezione dei sensi. Preso in questa luce, l’Antropocene segna un periodo di defamiliarizzazione e alienazione della percezione dei sensi. Questo è soprattutto ciò che si sta svolgendo intorno a noi: la completa trasformazione delle sensazioni e delle qualità del mondo. In altre parole, il mondo in cui siamo nati si sta ritirando davanti ai nostri occhi, provocando una riorganizzazione dell’apparato sensoriale del nostro organismo. Inoltre, molte delle minacce per la nostra salute non sono immediatamente sensibili: le sostanze chimiche che si infiltrano e proliferano nell’ambiente o il graduale riscaldamento del pianeta sono difficili da sentire, vedere o toccare».

Nel nostro lavoro (1) – parlo al plurale perché il teatro e la danza sono sempre un fatto di comunità – queste, che sono ancora domande aperte con cui ci misuriamo giornalmente, hanno trovato un campo di lavoro nella relazione con l’aperto, con la pratica del camminare, con la costruzione di accampamenti, con la creazione di rituali per paesaggi. Il nostro lavoro si è raffinato nella relazione con i luoghi e con le comunità, con gli eventi atmosferici e la prossimità delle piante e sempre di più ha preso una forma d’irriproducibilità, di epifania, un processo di abitazione e di relazione, che tenta di sfuggire a qualsiasi forma di solidificazione, di metodo, di riconoscibilità, di richiesta del mercato. Non si tratta di progetti site specific contro progetti di repertorio. Piuttosto di quali forme riescono a sostenere un contenuto che è nell’oggi, inevitabilmente, politico e che non può non tenere conto dell’affaccio sul precipizio in cui siamo: come creare il giusto habitat per le forme emergenti? Come accompagnarne l’emersione e come allo stesso tempo generare una pratica militante, sprofondata nel mondo, in trasformazione, sempre accesa? Come incarnare la catastrofe che siamo, senza cedere al nichilismo o all’algido distacco dalle cose, ma dentro un processo prolifico e vitale di dis-abitazione delle certezze e delle posture acquisite?

Il nostro lavoro è cominciato nei festival e dalle condizioni materiali che un festival offre. L’idea di accamparsi per esempio nasceva anche per trovare un modo per risparmiare i soldi dell’ospitalità e investirli per pagare il lavoro delle persone coinvolte. Ci accorgemmo poi, e un po’ lo speravamo, che in quell’abitare laterale, poco domestico, c’era una strada che ci nutriva, che nutriva la qualità del gesto e del pensiero, influenzato da quel modo di abitare.

Il primo progetto, King, è nato dall’idea di congiungere due festival, Armunia e Santarcangelo dei Teatri attraverso due performance site specific nate dall’abitazione delle spiagge bianche di Rosignano Solvay e dell’area della cava del Parco dei Cappuccini a Santarcangelo di Romagna. In mezzo un lungo cammino dalla costa Ovest alla costa Est dell’Italia durato diciassette giorni. Il tema era proprio quello di capire come un certo stile di vita nomade, selvatico, in stretto contatto con l’esterno potesse influenzare la materia performativa e come l’eco, il riverbero di un viaggio a piedi, potesse propagarsi nei racconti orali fuori dal nostro controllo.

King è stato uno spettacolo fondativo, il punto d’inizio di un viaggio ancora in corso che ci ha portato a sviluppare un lavoro tutto dentro il tema della relazione tra umano e non-umano cercando di ricollocarci nella giusta dimensione di esseri di relazione, dipendenti da un contesto e non come dominatori e specie privilegiata.

Stavamo allora, era il 2013, già nel dibattito sul ruolo dell’arte in un’epoca come la nostra – il cosiddetto antropocene o meglio capitalocene – ed eravamo convinti, e tutt’ora lo siamo, che l’arte dal vivo abbia bisogno di un ripensamento, per poter sprigionare tutto il suo potenziale di prefigurazione che ci sembra sopito nella forma del teatro borghese del novecento, nel rito ormai stanco dell’andare a teatro. È un ricollocamento che implica un lavoro interno ed un’alleanza esterna.

La nostra risposta interna è stata quella di ricercare sul tema della percezione a fronte della rappresentazione, indagare sia dentro la nostra materia come performer e autori che nell’incontro con il pubblico, il sistema percettivo, considerando il corpo il luogo dell’attacco finale del sistema liberista e capitalista. Ripartire dal corpo, dai corpi per aprirsi poi allo spazio che occupano, al modo di prendere informazioni dalla realtà e costruire pensiero, alla capacità di connivenza con l’altro da sé, chiunque e qualunque esso sia.
Un lavoro che tenta uno scavo verticale nel corpo per dispiegarsi invece sull’asse orizzontale della relazione con il fuori, con la possibilità di una scrittura di paesaggio laddove il paesaggio è la complessità delle forze visibili e invisibili, umane e non umane che popolano uno spazio- tempo. Questo ha richiesto sperimentazioni, molto spesso fallimentari, tempo, assenza di pressione e fiducia, rigetto di qualsiasi dinamica competitiva. Ed ecco l’alleanza esterna: i festival sono gli unici in grado di accompagnare e ospitare questa fragilità e creare lo spazio di condivisione con un pubblico. (2)

Senza un’alleanza che rompa l’asimmetria di potere tra programmatori, critici, artisti nessun cambiamento è possibile. Per questo un festival va pensato come uno «stato di eccezione – la possibilità di decidere quale potere sovrano fondare» (3). Un potere che abbia il carattere dell’orizzontalità delle relazioni, della presa in carico collettiva, della collaborazione: una palestra d’invenzione di pratiche e immaginari. Ma siamo disposti a cedere potere per entrare in una relazione che dimora nello sconosciuto? Accettare di perdere potere, decidere gioiosamente di cedere, per fare alleanza con cuori simili mi sembra una bella e necessaria sfida.

Per un rito incendiario

Heather Davis continua: «In terzo luogo, l’arte è un luogo poliarchico di sperimentazione per vivere in un mondo danneggiato, offrendo una gamma di strategie discorsive, visive e sensuali che non sono limitate dai regimi di oggettività scientifica, moralismo educativo o depressione psicologica. L’arte può fornire uno spazio per trattare con il trauma affettivo ed emotivo del cambiamento climatico, delle dighe e dell’inquinamento ambientale in quanto può tenere insieme le contraddizioni. Abbiamo bisogno di modi di espressione per la perdita collettiva che stiamo subendo e di luoghi per esprimere il tributo emotivo di vivere in un mondo diminuito. Questo senso di molteplicità che è contenuto nell’arte fornisce un modo per vagliare le numerose contraddizioni della nostra vita quotidiana, per affrontare scale di tempo, luogo e azione divergenti e discontinue. La pratica artistica può anche fornire uno spazio di proposizioni e immaginari futuri».

Ho continuato a pensare ai festival in questa direzione, anche quando mi è capitato di collaborare alla direzione artistica (sempre fatti comunitari come, Nutrimenti o i primi anni di Ternifestival e poi gli ultimi con il progetto “Foresta e Corale”), come un tempo straordinario dove il ripensamento dell’ordinario diventa un punto qualificante; un “milieu” dove si possono sperimentare nuove forme di abitare e di stare insieme e nutrirsi delle tensioni artistiche che lì vengono convocate e si radunano, sotto forma di corpi, visioni, suoni, Non riesco a pensare ad un festival se non come un sovvertimento della norma che regola lo spazio pubblico, sia esso la piazza, un campo, una fabbrica abbandonata o uno spazio commerciale trasformato in teatro. Per me i festival sono estivi, afosi, temporanei, aperti, notturni, sensuali. Sono uno stato d’eccezione che prefigura l’impensato.

Gli spettacoli dei festival sono gli “impensati” del teatro che prendono forma, quei dispositivi che non hanno una relazione stretta con il mercato ma che sono tutti orientati alla ricerca, all’abitazione della frontiera. Non ci deve essere niente di conservativo in un festival. Un festival è una turbina accesa che consuma tutto quello che ha e può, in un grande sforzo collettivo.

Non c’entra il mercato, c’entra l’altrove.

Un altrove che nel suo reinventare il rito, reinventa se stesso e apre a possibilità ancora non viste, apre allo sconosciuto e agli sconosciuti, mette lo spazio dell’incontro al centro della propria riflessione e per questo allarga un pubblico, aumenta la percentuale di biodiversità.

Eppure stiamo assistendo ad un fenomeno paradossale, ad un progressivo smantellamento che passa attraverso due movimenti apparentemente opposti: da un lato la moltiplicazione di festival che spuntano a celebrare qualsiasi cosa – il sistema che si appropria di uno spazio liminale e lo trasforma in occasione di consumo – generando così un effetto moltiplicatore che ne annacqua e distorce la funzione , dall’altra si prova a togliere struttura, finanziamenti, a quelle realtà che hanno tentato negli anni questa strada. Non posso non pensare al Ternifestival che ho contribuito a fondare e dirigere, dentro un’esperienza di comunità (4) durata dodici anni e che temo non tornerà più, proprio a causa di questo desiderio conservativo, assenza di responsabilità politica o peggio strategia di demolizione di ciò che non si riesce a controllare, di chi spesso occupa i vertici delle istituzioni. Oppure i festival diventano una roccaforte, quella sorta di contro stagione del contemporaneo che tenta di difendere un mondo da istituzioni che non riescono ad aprirsi e a farsi contaminare, garantendo un po’ di ossigeno a quelle artiste e artisti che hanno ancora desiderio di abitare la frontiera.

Non so quale sia la strada da percorrere, mi viene da pensare che in realtà la potenza dei festival risieda anche in questa fluidità tra struttura e apertura: la potenza di un festival è quello di generare una struttura che ha come funzione l’incendio. Ma se non c’è un’architettura, sia essa immateriale come il pensiero o materiale come le risorse economiche, non c’è niente che possa prendere fuoco. O un festival genera varchi, apre e rende possibile nuovi scenari o semplicemente conferma un sistema che però è sempre più iniquo, inaccessibile, inefficace.

Nell’autunno dopo King tornai a veder come stava il campo dello spettacolo fatto a Santarcangelo e guardando dall’alto mi accorsi che a terra c’era un disegno di sentieri nell’erba che erano le tracce degli spostamenti dei perfomer durante l’abitazione e lo spettacolo.

Qualcosa ancora persisteva, li, nella vastità del campo.

Proposi al festival di poter far nascere un giardino da quell’esperienza.
Ho sempre pensato al lavoro artistico come molto vicino al lavoro del giardiniere, ma un giardiniere che accompagna, che fa «il più possibile con e il meno possibile contro» come direbbe Gilles Clément. Un giardiniere che concepisce l’opera come un giardino aperto in grado di accogliere l’imprevisto e di curare senza giudizio tutto quello che viene, evitando il più possibile di modificare, per far corrispondere la visione al proprio gusto estetico. Qui le famose piante invasive si radicano e proliferano tanto più c’è scarsità di risorse. Disseminano, impollinano, ibridano i contesti. Poi a volte arriva un incendio. Una volta Gilles mi disse che non bisogna essere tristi per l’arrivo di un incendio: apparentemente si sprigiona una forza distruttiva e fuori controllo ma in realtà ci sono semi sotto la terra che si aprono e germogliano solo se toccati dalle alte temperature che le fiamme di un incendio provocano.
Sono semi che possono stare sotto terra anche migliaia di anni e che poi improvvisamente si manifestano rendendo visibile quello che fino a quel momento non era pensabile vedere.

Un rito opera per la conservazione della specie, per il mantenimento dello status quo. Ma se l’intensità e la forma del rito sono direttamente proporzionali alla complessità della perdita oggetto del rito qual è la forma del festival/rito proporzionale alla perdita collettiva del presente?

Personalmente ci auguro di veder nascere, e continuare a replicarsi (5), riti sovversivi anarchici ed incendiari, che rompano con la retorica del prendersi cura di sé e del racconto dell’io, del monologo interiore, delle avventure o angosce umane. Mi auguro, ci auguro, festival impensati, riti che promuovano l’uscita dal sé, esplosioni energetiche in grado di dissolvere i confini delle certezze che abbiamo, mi auguro festival che rispondano al tempo presente con una dissoluzione delle gerarchie di potere, con un campo teso, aperto e conflittuale, in grado, forse, di generare quella narrazione polifonica altra, non rassicurante e prefigurante di cui abbiamo profondamente bisogno e che da soli, come singoli e singole, non riusciamo a fare, impauriti come siamo di mettere in discussioni l’architettura generale, che bene, ma soprattutto male, tiene tutti flebilmente in vita.

Se non questo, cos’altro?

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* Il titolo è ispirato al piccolo saggio di F. Jullien Vivere di Paesaggio – L’impensato della ragione.

  1. In particolare Valerio Sirna che ha fondato e dirige con me DOM- e poi tutti gli altri collaboratori della compagnia.

  2. King fu possibile perché Andrea Nanni e Silvia Bottiroli nel frattempo eran diventati rispettivamente direttore artistici di Armunia e Santarcangelo.

  3. Da Lo stato di eccezione di Giorgio Agamben.

  4. In particolare con Linda Di Pietro, Chiara Organtini, Massimo Mancini, Lucio Mattioli, Marco Betti e molti altri.

  5. Per fortuna abbiamo ancora, nel nostro paese, esempi importanti e resistenti di festival. Penso alle ultime edizioni di Santarcangelo curate da Eva Neklayeva e Lisa Gilardino, al festival di Dro, o a Short Theatre o ai più piccoli ma non meno potenti Periferico di Modena, Danae, o al nostro piccolo ma prezioso Corale nelle zone del terremoto dell’Umbria.

Leonardo Delogu

Leonardo Delogu è nato a Narni (Umbria) nel 1981. Artista e ricercatore sul movimento e il paesaggio, è performer, regista e formatore. Inizia gli studi di teatro nel 2002 con la Scuola Europea per lʼattore realizzata da Emilia Romagna Teatro per la direzione artistica di Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri del Teatro Valdoca. Qui studia fra gli altri con Danio Manfredini, Catia dalla Muta, Raffaella Giordano, Gabriella Rusticali, Carolina Talon Sampieri, Rhuena Bracci. Dopo la scuola entra nella compagnia e lavora praticamente in tutti i principali lavori prodotti fino al 2014. Dal febbraio 2009 a giugno 2010 fa parte del gruppo di lavoro biennale sulle Nuove scritture per la danza contemporanea diretto da Raffaella Giordano. Da questa esperienza fonderà insieme ad altri 11 artisti famigliafuchè, collettivo di giovani attori e danzatori impegnati nello studio del corpo e dellʼimprovvisazione. Prosegue lo studio sul movimento  con la compagnia di danza catalana Malpelo e con Claude Coldy, con il completa la formazione triennale in Danza Sensibile® nel 2017. Dal 2009 comincia un personale percorso di ricerca con il progetto Tabula rasa -Tu sei dunque venuto in questa casa per distruggere. Nel 2011 apre una nuova fase di lavoro attraverso i percorsi formativi Camminare nella frana e Piccola scuola nomade nel 2012 che confluiranno nel 2013 nel progetto King sostenuto da Armunia e Santarcangelo Festival internazionale del teatro in piazza. Nel 2014 insieme a Valerio Sirna ed Hélène Gautier dà vita al progetto DOM-, sotto il cui nome firmerà gli ultimi progetti tra cui L’uomo che cammina, Mu-metafisica urbana,e Desert /ritual for in transition landscapes. Tra le numerose collaborazione intessute negli anni, spicca quella con il paesaggista francese Gilles Clèment, il collettivo Coloco e Stalker, lo scrittore Antonio Moresco.  E’ artista in residenza presso il centro Wpzimmer di Anversa e Workspace di Bruxelles. Negli anni ha curato molti progetti culturali come ideatore e organizzazione tra cui: Centro di Palmetta, Ternifestival della creazione contemporanea, Nutrimenti, OMNE – osservatorio mobile nord-est, Foresta, Corale.