Attorno a Bayreuth: idee di festival
di Gerardo Guccini
Parlare oggi di Bayreuth
Storicamente, il Festival di Bayreuth è stato il primo a conferire alla progettazione di eventi che si svolgano in un determinato luogo, in un determinato periodo dell’anno e al di fuori della normale programmazione dei teatri, quei connotati culturali che le pratiche novecentesche avrebbero poi reso ricorrenti. Wagner, infatti, spezzò l’unitarietà del teatro ottocentesco opponendo alla sua articolazione di generi capillarmente diffusi (il grand opéra, l’opera italiana, la pièce bien faite, la tragedia, il dramma storico…) forme monumentali del nuovo necessario. Attraverso di lui, il festival cambia natura, trasformandosi da progettualità iscritta nella filiera delle pratiche sociali in un veicolo di esperienze estetiche decisamente contrapposte alle concomitanti normalità del teatro e del vivere borghese.
Le premesse, l’istituzione e le successive gestioni del Festival di Bayreuth mostrano come l’organizzazione di una teatralità di eccezione possa, in determinate circostanze, riguardare tutto e il contrario di tutto: utopismo anarchico, comunismo, Reich prussiano, nazionalsocialismo, radicali riforme del linguaggio, rigidi modelli demiurgici, reti internazionali, enclave nazionaliste, massa, individualità irriducibili, conventicole, festa popolare e festa rivoluzionaria. Per questa ragione, parlare oggi della storia di Bayreuth, non significa soltanto richiamare alla memoria un caso di straordinario interesse, ma anche considerare, sulla base d’una campionatura di eventi particolarmente estesa e significativa, le dinamiche sociali, economiche ed estetiche, che animano dall’interno le potenzialità dei festival, facendo di questa pratica organizzativa uno strumento di relazione con le tematiche del mondo sociale.
Dal rogo dell’opera al teatro di famiglia
Prima di completare l’Anello del Nibelungo e di fare del Festival di Bayreuth l’ideale contesto della sua celebrazione, Richard Wagner, isolato, sprovvisto di mezzi economici ed esiliato da tutti i paesi della Confederazione germanica a seguito della partecipazione ai moti di Dresda (1849), aveva pensato di concludere il processo compositivo della Morte di Sigfrido – primo germe della monumentale saga – con una incendiaria performance di carattere rivoluzionario e festivo. Nel settembre del 1851, scrive a Theodor Uhlig, un giovane adepto della prima ora: «Se potessi mai disporre di 10.000 talleri, farei la cosa seguente: – qui [a Zurigo] dove mi trovo appunto, e molte cose non sono poi così male, erigerei secondo i miei piani su un bel prato presso la città un rozzo teatro di legno, corredandolo soltanto delle decorazioni e del macchinario necessario alla rappresentazione del Sigfrido. Poi mi sceglierei i cantanti più adatti che esistano, invitandoli per sei settimane a Zurigo… con lo stesso sistema convocherei la mia orchestra. Sin dalla primavera gli annunci e gli inviti verrebbero diffusi a tutti gli amici del dramma musicale attraverso tutti i giornali della Germania, con l’invito a presenziare la progettata festa musicale drammatica; chi si prenota, e a questo scopo intraprende il viaggio a Zurigo, gode del diritto d’invito – naturalmente, come ogni invito, gratis! Inoltre inviterei la gioventù del luogo, l’università, le società corali ecc. Una volta fatto tutto questo, organizzerei a queste condizioni tre rappresentazioni del Sigfrido in una settimana; dopo la terza il teatro verrebbe distrutto, e la mia partitura bruciata».
Il progetto non venne realizzato, tuttavia l’idea che la Tetralogia – poi scaturita dalla Morte di Sigfrido – non fosse compatibile alle prassi e agli orizzonti culturali del repertorio operistico e tendesse piuttosto a sfociare in una perfomance unica, si radicò nel pensiero del Maestro, che, nel dicembre 1851, scrive nella Comunicazione ai miei amici: «Io penso di rappresentare quei tre drammi con il prologo in una festa della durata di tre giorni con una vigilia: e penso di considerare raggiunto pienamente lo scopo, se riesce a me e ai miei compagni d’arte, cioè i veri esecutori, di comunicare in queste quattro sere agli spettatori, riunitisi per conoscere le mie intenzioni, quest’intento di vera comprensione sentimentale (non critica). Un’ulteriore ripetizione della serie mi è indifferente e mi sembra inutile». (Il corsivo è mio)
Questi primi abbozzi di festival presentano, già nettamente delineate, alcune caratteristiche che verranno riprese dal Festival di Bayreuth. Osserviamo la volontà di disgiungere le imprese d’arte da ogni proposito d’industria; la separazione delle opere d’eccezione e delle loro modalità rappresentative dal sistema dell’intrattenimento teatrale; il programma di scegliere gli artisti sulla base della loro partecipazione ai valori culturali del progetto; l’idea che il pubblico debba venire convocato in vista di una «comprensione sentimentale» che s’incunea nell’identità degli spettatori, formando collettività idealmente coese.
Tuttavia, fra gli irrealizzati festival di Zurigo e quello Bayreuth passa una linea di demarcazione che salda i primi alla fase rivoluzionaria e socialista di Richard Wagner, mentre fa del secondo un’istituzione culturale compatibile alla svolta imperiale di Bismark e di Guglielmo I, che, non a caso, presenziò allo spettacolo inaugurale del Festival, dove venne entusiasticamente acclamato. Questa linea divisoria è costituita dal diverso atteggiamento del Maestro nei riguardi della dimensione temporale.
Il Wagner reduce dalle barricate di Dresda tendeva a privilegiare l’immediatezza della performance rispetto ai rituali del repertorio, la densità dell’esperienza rispetto alla durata delle forme, le proprietà rigenerative della distruzione rispetto ai soffocanti accumuli prodotti dall’opposta vocazione a conservare. Nel suo pensiero politico, nella sua fantasia di artista e nelle sue riflessioni teoriche ritroviamo, in quegli anni, immagini d’incendio. Il fuoco – come narra la poesia Die Noth (La necessità, marzo 1849) –, arde il vecchio ordine mondiale e le sue città, ma anche la pira di Sigfrido, il Walhalla, la partitura wagneriana… Questa concezione, che faceva dipendere la salvezza futura dal rogo del presente, si alimentava a due fonti: la visione di Bakunin, frequentato all’epoca degli scontri, e le fondamenta performative dell’estetica wagneriana. Circa la prima, vale la pena citare la testimonianza dello stesso Wagner, che, riportata ne La mia vita, non lascia però trasparire i trasporti emozionali suscitati dall’ascolto del grande anarchico: «Si riferiva [Bakunin], […], alla gioia tra infantile e demoniaca del popolo russo per il fuoco, sulla quale già Rostopchin [il generale governatore di Mosca durante l’invasione napoleonica] aveva fondato il suo stratagemma antinapoleonico dell’incendio di Mosca. Secondo lui occorreva soltanto persuadere il contadino russo […] che l’incendio dei castelli dei suoi padroni, con tutto ciò che v’era dentro e intorno, era una cosa giusta e accetta a Dio, per scatenare sul mondo un movimento dal quale almeno si sarebbe prodotta la distruzione di tutto ciò che, al lume delle più profonde ragioni […], doveva necessariamente apparire come la vera fonte della miseria di tutto il mondo moderno. Mettere in moto questa forza di distruzione, gli pareva il solo scopo degno dell’attività d’un uomo ragionevole».
Le fondamenta performative del pensiero wagneriano vengono affermate, nel 1850, in una lettera a Liszt: «Tutto il nostro poetare e comporre proviene dal volere non dal potere; solo la rappresentazione, cioè l’arte, è potere. – Credimi, io sarei dieci volte più felice se fossi un attore invece d’un poeta drammaturgo e compositore. – Ora con queste convinzioni non può più importarmi di creare Opere alle quali sia tolto in precedenza di vivere nel presente, nella lusinga d’una futura immortalità immaginaria». Sull’argomento Wagner sarebbe ritornato negli scritti dedicati agli attori/cantanti. Qui, però, la vicinanza dell’esperienza rivoluzionaria suggerisce una formula sintetica e onnicomprensiva, che attribuisce il potere esercitato dall’arte del teatro alla sola performance, mentre considera la composizione un esercizio della volontà destinato, in assenza di interpreti, a non esercitare alcuna influenza sullo spettatore e sul mondo sociale.
Il voler essere soprattutto un attore, da un lato, conferma le critiche di Nietzsche che, ne Il caso Wagner, sostiene che il compositore «divenne musicista, divenne poeta, poiché il tiranno dentro di lui, il suo genio istrionico ve lo costringeva», dall’altro, svela, nel Maestro, l’insopprimibile bisogno di esistere in quanto forza attiva nel presente e sul presente. Durante la fase rivoluzionaria, Wagner riteneva che fossero le azioni concrete a mutare le realtà del mondo, mentre, più tardi, apprenderà a trasferire la propria pervasiva volontà dagli scritti e dalle opere che ne venivano originati, alla mente delle persone che questi stessi scritti ed opere, leggevano, vedevano, ascoltavano. Nella prima prospettiva, il tempo storico si configura in quanto successione di presenti abitati da azioni che agiscono nell’immediato: di qui il pensiero, all’epoca rivoluzionario e di per sé postmoderno, di bruciare la partitura della Morte di Sigfrido facendo coincidere l’esistenza dell’opera con la sua rivelazione performativa. Nella seconda prospettiva, invece, il tempo è una successione di durate che coinvolgono i destini delle persone, indirizzandone percezioni, intenti, progetti, capacità.
A differenza del Wagner rivoluzionario, il Wagner di Bayreuth è ossessionato dall’idea di far durare il proprio festival. E ciò fino a renderne possibile il passaggio, per via ereditaria, al figlio Sigfried. Scrive a re Luigi II il 18 novembre 1882: «suppongo di avere circa dieci anni di salute; intanto mio figlio sarà divenuto completamente adulto, e soltanto a lui affiderò la conservazione spirituale e morale della mia opera; perché non conosco nessun altro a cui potrei trasmettere il mio ufficio». È dunque anche per ragioni economiche che Wagner riserva a Bayreuth il diritto di rappresentare il Parsifal in esclusiva fino al trentesimo anniversario della propria morte (1º gennaio 1913).
Un obbligo dell’arte: mutare l’esistente
Il passaggio dalla sulfurea dispersione della Morte di Sigfrido nella collettività dei partecipanti, al pluridecennale inquadramento del Parsifal fra le prerogative del Festival, implica, in Wagner, un mutamento di passo certamente importante, ma che riguarda più il livello degli strumenti che quello degli obiettivi, più la posizione sociale ed economica del drammaturgo che non le sue interazioni con l’esistente.
Esule da tutti i paesi della Confederazione germanica, Wagner era un drammaturgo senza teatro, senza interpreti, senza scene. Il Tannhäuser e il Lohengrin, anche grazie all’impegno di Liszt, Kapellmeister presso la corte di Weimar, diventavano sempre più popolari, ma Wagner non poté assistere alle loro rappresentazioni valutandone di persona punti di forza e mancanze. L’esilio, riguardando i paesi di lingua tedesca che, più degli altri, erano potenzialmente interessati alle sue opere, aveva separato, in lui, l’arte di comporre dal vitale intreccio con gli aspetti tecnici e interpretativi della materialità scenica. Questa difficilissima situazione di involontario isolamento, lo portò, da un lato, a cercare nel ragionamento teorico criteri e valori ai quali riferire i processi creativi, dall’altro, a sondare forme di realizzazione e verifica assai diverse da quelle garantite dal sistema teatrale che l’aveva escluso. Mi riferisco alla festa rivoluzionaria pensata per La morte di Sigfrido, agli allestimenti unici delle Tetralogia, ai rapporti con i cantanti dilettanti, all’attivazione di enclave di sostenitori e adepti, ai concerti di brani drammatico-musicali e alla pratica delle letture, che gli consentiva di affinare doti attoriali e di raccogliere, da strette cerchie di ascoltatori, suggestioni e suggerimenti talvolta fondamentali. In questo humus composito ed unico, la lontananza dal teatro si convertì da disperante menomazione, in condizione organica al compimento di creazioni avulse dalle istituzioni teatrali esistenti e, quindi, naturalmente indirizzate a generarne di nuove. Scrive Wagner a Uhlig in una lettera del 12 novembre 1851: «Con questa mia nuova concezione [dell’Anello del Nibelungo] mi allontano completamente da ogni riguardo per il nostro attuale teatro e il nostro pubblico: rompo decisamente e per sempre con le formalità del presente».
L’Anello del Nibelungo, Tristano e Isotta, I Maestri cantori di Norimberga, manifestano la capacità di adattamento e le strategie di rilancio di Richard Wagner che, nel corso della sua accidentata esistenza, seppe trasformare i momenti di crisi in vitali condizioni di ripartenza. Il Festival di Bayreuth, luogo consacrato al dramma wagneriano, sembrerebbe essere il logico coronamento di questa successione di arretramenti e contraccolpi ascensionali, la sua realizzazione, però, fu resa possibile solo dal generoso sostegno offerto da Luigi II di Baviera.
L’imprevedibile seduzione esercitata dalla musica di Wagner sul giovane monarca è, insomma, la conditio sine qua non del Festival. Sulla base dei romanzeschi rapporti fra il compositore e il re, si venne comunque a riprodurre la tipica strategia wagneriana, sempre pronta a capovolgere in senso positivo rotture e crisi. Il progetto di costruire un teatro consacrato al dramma wagneriano, si delinea infatti a partire dal 1865, allorché l’ostilità del mondo politico bavarese costrinse Wagner a lasciare Monaco, dove Luigi II l’aveva posto alla guida del teatro d’opera. Anche in questo caso, come nel periodo dell’esilio, l’arretramento non fa che tendere le energie che produrranno il successivo balzo in avanti.
La scelta cadde su Bayreuth, cittadina che non aveva una vita culturale che potesse competere con l’incipiente “dominio” wagneriano e che, inoltre, si trovava al di fuori delle regioni in cui Wagner non godeva più dei diritti d’autore. Diritti che aveva venduto nel 1864 per far fronte ai pressanti problemi finanziari. Fallito il tentativo di coinvolgere l’onnipotente cancelliere prussiano, Bismarck, l’impresa poté partire solo grazie all’intervento di Luigi II, che concesse il prestito di 100.000 gulden da restituire entro 18 mesi dall’inaugurazione del Festival.
Fin dall’origine, Bayreuth si contrappone, forte della propria superiorità culturale, al sistema teatrale vigente e, al contempo, manifesta posizioni organiche al potere regio e all’ideologia del Reich prussiano. Commentando l’inaugurazione del Festival nel 1876 (vivente Wagner, sarebbe seguita solo l’edizione del 1882), Karl Marx parla con indignazione, in una lettera a Engels, di «Wagner musicante dello stato».
Le fiamme di Bakunin sembrerebbero essersi spente del tutto. Eppure, a Bayreuth come a Dresda, l’azione culturale e artistica di Wagner continuò a perseguire uno stesso obiettivo: agire sull’esistente modificandolo. Negli anni dei moti, si era trattato di assimilare il modello dell’azione rivoluzionaria; in quelli di Bayreuth, si vengono invece a sperimentare nuovi protocolli spettacolari (il buio in sala), nuove strutture architettoniche (la soppressione dei palchetti, l’orchestra invisibile, la platea digradante secondo il modello dell’anfiteatro) e nuove forme aggregative, comunicative e di interazione sociale. Soluzioni, queste, che anticipano diverse caratteristiche dei contemporanei festival dediti all’innovazione teatrale. Bayreuth, infatti, dissemina associazioni di supporter; integra le rappresentazioni con iniziative culturali; si dota d’un proprio periodico (i «Bayreuther Blätter»); richiama un pubblico internazionale e i principali critici; forma spettatori intellettuali; influenza la vita della città moltiplicando collegamenti e corse dei treni; contrappone ai teatri d’intrattenimento la propria (discutibile) supremazia tecnologica; alimenta atteggiamenti settari, ma anche confronti di svolta intorno alla nascente estetica dello spettacolo.
Per un soffio, il Festival Bayreuth non è stato uno dei luoghi di nascita della regia teatrale modernamente intesa. Adolphe Appia, infatti, sottopose il suo piano di allestimento per l’Anello del Nibelungo a Cosima Wagner, che lo rifiutò sdegnata. Le motivazioni della vedova del Maestro, divenuta direttrice e domina del Festival, risultano da una lettera, scritta a Houston Stewart Chamberlain il 13 maggio 1896, a seguito dello sfortunato incontro: «Ho dato un’occhiata in questi giorni alle Notes sur l’Anneau du Nibelungen di Appia, nella speranza di trovarvi qualcosa di utilizzabile. Purtroppo vanamente. Pare che Appia non sappia che nel ’76 l’Anello è già stato rappresentato qui da noi, e che di conseguenza non vi è più nulla da inventare in fatto di scenografia e regia».
Le azioni di svolta possono generare alternative immutabili. È un insegnamento che, forse, conviene trattenere.
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I documenti sui progetti di festival di Richard Wagner sono raccolti in Houston Stewart Chamberlain, Riccardo Wagner, trad. di Giulio Cogni, Milano, Fratelli Bocca – Editori, 1947, pp. 525-553. Sul Festival di Bayreuth v. Hans Mayer, Richard Wagner a Bayreuth 1876-1976, trad. di Mauro Tosti-Croce, Torino, Einaudi, 1981, e Frederic Spots, Bayreuth: A History of the Wagner Festival, New Haven and London, Yale University Press,1994. Sui rapporti fra Wagner e Bakunin e la partecipazione ai moti di Dresda v. Richard Wagner, La mia vita, trad. di Massimo Mila, Torino, Edt, 1982. Le lettere di Wagner a Liszt e quelle di Cosima Wagner sono tradotte in italiano: Epistolario Wagner-Liszt, prefazione di Massimo Bogianckino, trad. di 2 voll., Firenze, Passigli, 1983; Cosima Wagner, La mia vita a Bayreuth. Lettere e appunti 1883-1930, a cura di Dietrich Mack, trad. di Umberto Gandini, Milano, Rusconi, 1982. Sulle fondamenta attoriali del pensiero wagneriano e sulla «teatrocrazia» di Bayreuth v. Friedrich Nietzsche, Scritti su Wagner. Richard Wagner a Bayreuth – Il caso Wagner – Nietzsche contra Wagner, con un saggio di Mario Bortolotto, trad. di Sossio Giametta e Ferruccio Masini, Adelphi Book, 2017.
Gerardo Guccini
Insegna Drammaturgia e Tecniche della composizione drammatica all‘Università di Bologna. Nel 1995 fonda con Claudio Meldolesi il semestrale “Prove di Drammaturgia. Rivista di inchieste teatrali“. Dal 2002 al 2015 è Responsabile Scientifico del CIMES (Centro di Musica e Spettacolo – Università di Bologna). Nel 2012, fonda con Matteo Casari la collana in rete “Arti della performance: orizzonti e culture” (AMS Acta). Dal 2018 è Responsabile Scientifico del Centro teatrale La Soffitta. I suoi studi riguardano il teatro del Settecento, gli aspetti spettacolari dell‘opera lirica, il teatro di narrazione e la drammaturgia contemporanea con particolare riferimento all‘elemento testuale. Guccini ha collaborato come dramaturg con Marco Paolini, Marco Martinelli, Elena Bucci e Marco Sgrosso.