effimero/duraturo
di Graziano Graziani
L’estate è cominciata e con lei ha preso il via la stagione dei festival. E poiché 93% è un blog che è dedicato alla politica non verbale, ci è sembrato interessante interrogarci sulla natura di queste manifestazioni, piazze privilegiate del contemporaneo e della sperimentazione, che per definizione hanno una natura fluida e dinamica, rispetto a quella più statica e istituzionale delle stagioni ufficiali. Forzando un po’ il discorso, potremmo dire che nella sfera della creatività artistica i festival stanno alle stagioni ufficiali come l’espressione non verbale sta a quella verbale: tanto la seconda cerca di depositare memoria ed essere intellegibile e archiviabile attraverso lo strumento della parola, tanto la prima crea relazione e scambio su un piano completamente fluido, e per questo non facilmente archiviabile. Allo stesso modo i festival sono stati per anni il terreno della sperimentazione, del site specific, delle varie incarnazioni odierne dell’happening, mentre le stagioni restavano legate a una concezione assai più tradizionale del repertorio, dei classici, della visione teatrale. Come sintetizziamo nel titolo, l’effimero contro il duraturo.
Ma è davvero così? La dicotomia è davvero così netta? L’impressione è che, cambiati i tempi e le condizioni, gli ambiti di intervento siano diventati molto più confusi tra loro, i confini più sfumati. Sono nati festival espressione dei teatri stabili mentre i festival più significativi si sono pian piano strutturati come un circuito alternativo alle stabilità. Non è un caso: i festival non sono mai diventati la cinghia di trasmissione delle novità teatrali verso la ribalta dei palchi ufficiali, come in molti si auguravano. Piuttosto, col passare dei decenni, si sono strutturati come un contro-circuito, una stagione alternativa e diffusa che, per molti artisti della scena contemporanea, rappresenta la sola possibilità di circuitazione. E anche se è vero che oggi la distinzione netta tra stagioni ufficiali e festival non regge più, per il contaminarsi dei linguaggi e per la capacità di alcuni artisti di passare senza traumi da un’area all’altra, è altrettanto vero che oggi i festival hanno modificato il loro dna, trasformandosi progressivamente in qualcos’altro.
C’è chi ha parlato di crisi dei festival, perché le manifestazioni sarebbero troppe, o troppo dipendenti dalla commissione pubblica, sempre più invasiva ma non sempre davvero competente, ossessionata dalla ricaduta immediata sul territorio o dall’attenzione al nome di fama – secondo i dettami del nuovo marketing culturale. C’è chi invece punta il dito sul fatto che i nomi in circuito siano un po’ sempre gli stessi, che si alternano lungo le varie piazze festivaliere d’Italia. Fatto sta che i festival stanno cambiando pelle. La loro attività resta comunque centrale nel supportare la creazione contemporanea – basti pensare alle programmazioni di festival molto diversi tra loro, come Santarcangelo, che si avviva verso il mezzo secolo di attività; Inequilibrio a Castiglioncello, punto di riferimento per molti artisti della danza e della drammaturgia; Short Theatre a Roma e Drodesera in Trentino, con le loro aperture internazionali e le sperimentazioni di linguaggi; Primavera dei Teatri a Castrovillari, solido punto di riferimento per i teatri del sud, che proprio quest’anno ha compiuti venti anni (le immagini delle location di queste cinque manifestazioni, che ringraziamo, illustrano i pezzi di questo numero della rivista). La scena contemporanea non sarebbe tanto ricca, varia e curiosa della creazione internazionale senza il lavoro di festival come quelli citati. Tuttavia, come tutti gli organismi vivi, anche i festival sono soggetti a continua metamorfosi.
Verso quali vocazioni si dirigeranno, in futuro? Saranno al centro della creazione di nuove tradizioni, perfino di repertori, come lo sono state le stagioni classiche, spostandosi sempre di più verso la cultura della memoria e della sedimentazione, o saranno sempre più improntati sul qui e ora, sulla commissione, sul site specific? Non è nostra intenzione fornire una risposta, nel piccolo spazio di un numero della rivista. Ma abbiamo pensato che riflettere sulla natura dei festival possa aiutarci a capire quale sarà il loro possibile futuro, quanto saranno cioè ancora agenti del cambiamento e della sperimentazione oppure quanto si dirigeranno, magari per necessità, verso la vocazione opposta. Per questo abbiamo chiesto a Gerardo Guccini di raccontarci una vicenda, quella del festival lirico di Bayreuth, che ben esemplifica la duplice tensione che anima i festival, tra innovazione che brucia in uno spazio e in tempo limitati e la tentazione dell’istituzionalizzazione. Attilio Scarpellini, dal canto suo, trasportando questo interrogativo nel presente, si interroga su questa continua oscillazione per cercare di capire quanto queste manifestazioni possano continuare ad essere degli spazi di libertà dalle leggi della realizzazione immediata (quelle che altrove chiameremmo leggi di mercato, se esistesse davvero un mercato del teatro contemporaneo). Fabrizio Arcuri, che è artista ma anche direttore di festival, traccia in modo fulmineo la sua convinzione che il cambiamento sia naturalmente connesso a queste manifestazioni, nel momento in cui vogliano continuare ad essere detonatori di senso. E in fine Leonardo Delogu, artista legato al qui e ora dei festival, traccia un ritratto sentimentale di queste manifestazioni, distillando però al contempo le condizioni per la creazione che esse, e soltanto esse, sono in grado di garantire. Un punto di vista plurale, che parte da prospettive diverse, per cercare di capire cosa sono oggi i festival e come stanno cambiando, se si trovano più sulle sponde dell’effimero o su quelle della permanenza.
Buona lettura e buona visione: la stagione dei festival è appena cominciata.