Schermi d’Africa

di Annamaria Gallone

Lumbo, Mozambico – ph Kyra Castello

Sono più di trent’anni che parlo di cinema africano e non mi sono ancora stancata. All’inizio mi si chiedeva sempre: ma esiste il cinema africano? Perché in effetti era praticamente sconosciuto.
Ricordo l’epico inizio, quando mi spostavo in treno con le grandi “pizze” per presentare in tante città i primi film di cui il COE aveva acquisito i diritti, le reazioni del pubblico e soprattutto dei ragazzi delle scuole che restavano spiazzati di fronte a ritmi tanto diversi e a storie che li trasportavano in una realtà completamente sconosciuta. Gli studenti di medicina di Padova che non volevano più andarsene e si erano infervorati in infinite discussioni dopo la proiezione de Il medico di Gafiré di Moustapha Diop del Niger, che metteva a confronto la medicina tradizionale e quella occidentale.
Da sempre, prima di ogni proiezione, mi soffermo sul termine “cinema africano”. Questo comun denominatore mi è sempre sembrato assurdo perché raduna un insieme di culture molto diverse tra loro, modi di espressione diversi e quindi non è assolutamente valido. Il cinema del Maghreb è completamente diverso da quello dell’Africa occidentale e completamente diverso da quello dell’Africa orientale o Australe: si perpetua quindi un abuso di linguaggio. Oggi ricorrerò anch’io a questo termine perché parlerò in generale delineando alcuni aspetti che in seguito meriterebbero di essere approfonditi.
Il cinema africano è nato intorno agli anni ’60, con le indipendenze: era un modo per sancire la propria identità; un cinema realizzato in nome delle emergenze, perché parlava dei diritti basici molto spesso calpestati dalle colonizzazioni: quindi un cinema di battaglia, ma anche un cinema che doveva arrivare a tutti perché, come diceva il decano Sembène Ousmane, che oltre ad essere un grande regista è stato anche un grandissimo scrittore, la maggior parte della popolazione a cui si rivolgeva non sapeva leggere e quindi, attraverso le immagini, poteva arrivare al popolo ed essere compreso, anche perché i dialoghi erano nelle lingue locali. Questo grande artista sotto molti aspetti è stato antesignano: basta pensare alla sua novella e all’omonimo film, La noire de (La nera di), che parla in modo molto esplicito dei disagi e dell’alienazione di un immigrato che viene a lavorare in Europa. È sorprendente la triste attualità di un film girato nel 1966. Un altro grande, grandissimo regista, è stato Djibril Diop Mambety, che con una breve e folgorante filmografia ha rivoluzionato il panorama cinematografico africano, inventando nuovi modelli narrativi e creando un’alternativa alla scuola realista di Sembène Ousmane. Djibril, nel 1970, con il suo Touki Bouki (Il viaggio della iena), attraverso un linguaggio di alta poesia, parlava del desiderio della protagonista di cercare in Francia un avvenire da sogno.
La Settima Arte si è sviluppata in Africa attraverso diverse tappe. Dopo il cinema identitario, il cinema di lotta, c’è un periodo in cui si comincia a raccontare l’Africa in collaborazione con gli europei. Parlo ad esempio del cinema del burkinabé Idrissa Ouédraogo, recentemente scomparso, dotato di un talento innato, formatosi a Parigi presso il prestigioso IDHEC (Institut des hautes études cinématographiques) e specializzatosi a Kiev. Idrissa ha realizzato una serie di splendidi film raccontando le contraddizioni del suo Paese, attento ai bisogni della gente, anche se la sua gente non sempre ha apprezzato il suo cinema, abituata soltanto ai film indù di bassissimo livello. ll cinema di Idrissa  rivela una straordinaria voglia di raccontare la multiforme anima africana. Era animato da un inesauribile desiderio di sperimentare che si è riaffermata nell’intenzione di assimilare le storie dell’Africa ai generi del cinema, tra il western e il thriller.

Attualmente prevale una forma più intimistica, presente anche in molti documentari, genere che, come da noi, si sta aprendo nuovi spazi. Attraverso il documentario gli africani ci stanno anche raccontando la loro storia, una storia sempre negata dai colonizzatori.
Fino a tempi recenti fare un film richiedeva un sacrificio enorme. Ricordo sempre la storia che ci raccontava Dikongue Pipa del Camerun a proposito del suo film Muna moto (Il figlio dell’altro). Per poterlo realizzare, aveva atteso 10 anni, chiedendo prestiti a tutti i familiari e alle banche; poi, per nutrire la troupe, le riprese venivano interrotte e si andava a caccia e a pesca. Appena terminato il film, le banche pretesero il rimborso, naturalmente impossibile, per cui fu messo in prigione. Quindi Cinema vissuto come grande sacrificio, che richiede “una vera e propria vocazione”, come diceva Djibril (e io aggiungo: non molto è cambiato in Italia per i registi indipendenti).
Ma la novità più clamorosa, la vera rivoluzione, è l’arrivo del digitale: tutto è cambiato, perché realizzare un film non rappresenta più il sacrificio di una vita. Ora si può realizzare con mezzi molto più economici, addirittura anche con un telefonino. Se da una parte il digitale permette a molti di realizzare dei film, e in particolare costituisce un’apertura per i giovani, che in passato dovevano aspettare anni e anni, dall’altra parte ha portato anche molta mediocrità, perché chiunque può girare, anche senza una formazione. lo lo verifico ogni anno nel selezionare i film per il mio Festival di Cinema Africano, d’Asia e America latina di Milano: molti sono meno che mediocri e poi, invece, ce ne sono alcuni estremamente validi.
Quindi il momento della scelta per il cinema africano è arrivato: restare un fenomeno d’élite con ambizioni artistiche, staccato dal suo pubblico e destinato sopratutto all’Occidente, che gli assicura i finanziamenti? Oppure arrendersi alle produzioni di basso costo e di bassa qualità che fanno cassetta e piacciono alla gente comune? In altre parole: restare cinema “puro” e povero, o seguire la scia di Nollywood (contrazione di “Nigeria” e “Hollywood”), l’industria iperprolifica che si sta espandendo in tutta l’Africa e i Paesi della diaspora? Lo hanno chiamato il “fenomeno Nollywood”, riprendendo una fortunata etichetta coniata per il cinema indiano e importandola nell’Africa subsahariana, più esattamente in Nigeria — da qui la N — la patria di uno dei fenomeni cinematografici più interessanti degli ultimi anni. Migliaia di film all’anno: un’industria che sta crescendo spaventosamente, ma che purtroppo per ora non produce ancora materiale di qualità. La prima caratteristica sono le soluzioni produttive, assolutamente originali, se così possiamo definirle. Qualche anno fa abbiamo organizzato al Fescaal una tavola rotonda invitando una serie di produttori, registi e attori nollywoodiani ed è stato divertente e interessante incontrarli. Mi ricordo un produttore che si vantava di produrre i suoi film in tre giorni, a casa di suo cugino, usando attori che in realtà erano amici e parenti e producendo circa 2000 copie per ogni titolo, copie che andavano esaurite molto rapidamente, nel giro addirittura di 24 ore, battendo sul tempo la pirateria… È un mercato straordinario e ancora in espansione, perché non si limita ai mercati locali, ma va a ruba anche all’estero, acquistato dagli emigrati africani e da tutta la diaspora. La gran parte sono storie di magia nera, tradimenti e passioni, oppure ancora di corruzione, insomma, tematiche molto vicine alla gente e che quindi hanno una presa sul pubblico altissima. Un dettaglio interessante a livello sociologico è che, visto che di cinema ce ne sono sempre di meno, questo genere di prodotti viene consumato in gran parte in videoclub improvvisati, sale in cui si raduna la gente che non ha la televisione in casa. Intorno a questo genere di film si è sviluppato un vero e proprio star sistem, e gli attori diventano veramente delle star, molto più degli attori del cinema africano “classico”, che spesso sono africani, ma vivono in Europa, soprattutto in Francia. Invece gli attori di Nollywood vengono riconosciuti per strada e acclamati. I loro film non hanno bisogno degli sponsor stranieri, mentre spesso il cinema africano è stato schiavo degli sponsor europei, soprattutto della Francia, che tuttavia ha avuto un ruolo di grandissima importanza, infatti la maggior parte del cinema arrivato nei festival di un certo livello è stato finanziato dalla Francia, che praticamente ha permesso di esistere a questa cinematografia. Ma c’è anche il rovescio della medaglia, una sorta di ricatto, nel senso che venivano sempre imposti dei tecnici francesi, senza dare spazio ai tecnici africani e poi il montaggio era sempre obbligatorio in Francia con una sorta di “do ut des”. Adesso la Francia è diventata meno generosa e per ragioni politiche c’è un declino degli aiuti, ma per fortuna le televisioni sono le nuove produttrici: Canal Plus o Arte sono sempre presenti nei titoli di coda, mentre purtroppo non si può dire altrettanto delle televisioni italiane. Pensate che molti anni fa, ho fatto di tutto per vendere alla Rai i diritti di Yeelen (La luce) del maliano Soleymane Cissé, premiato a Cannes. Ci sono riuscita ed ero contentissima che potessero vederlo anche i telespettatori: bene, questo film è stato programmato alle ore 9:00 del 1 gennaio, quindi pensate chi guarda la televisione alle nove del mattino del 1 gennaio… Un vero spregio nei confronti di questa cinematografia. E tuttora è più che raro vedere nelle sale programmati questi film. Passano solamente i film che hanno vinto i grandi festival internazionali: se hanno vinto a Berlino, Cannes o Venezia, i produttori sono più disponibili a scommettere un pochino di più in pubblicità, ma poco. Se si pensa alla mostruosità della pubblicità del cinema hollywoodiano e alla misera pubblicità che hanno questi film, si capisce perché li si vede raramente.
Non bisogna pensare che l’Africa sia un mondo a parte, arretrato come molti stereotipi fanno pensare. Il mio festival ormai da tre anni vuole mettere in luce la modernità dell’Africa. Quest’anno il claim era What a wonderful world, e abbiamo presentato le nuove tecnologie che si stanno diffondendo nel continente perché stiamo cercando di far cadere il sipario che da sempre ci tiene distanti, l’idea di primitivo e anche quella del buonismo. La cosa a cui mi ribello è che il cinema africano venga accettato nei festival con un’idea di buonismo.. ma sì africano.. facciamolo passare… non è così! Non è assolutamente così. Ci sono film di grande bellezza e di valore universale, ma non basta. Attraverso il cinema vogliamo dare idea non solo della cultura africana, ma di quella che è la potenzialità, il fervore dell’Africa oggi. Questa cinematografia ha varie funzioni. Anzitutto, un’opera d’arte è un’opera d’arte a prescindere dalla nazionalità; è assoluta, e quindi in questo modo deve essere fruito questo cinema. La seconda funzione è quella di conoscere le culture dell’Africa che attraverso il cinema ci vengono raccontate. La terza quella di capire questo momento tragico che stiamo vivendo, una sorta di nuovo olocausto. Nel festival mostriamo anche una sezione “Extra” aperta agli italiani che ci raccontano storie dei 3 continenti e le tematiche più frequenti sono i diritti umani e l’immigrazione.
Vi volevo anche parlare della voglia che gli africani hanno di vedere i “loro” film, quelli che sono lo specchio della loro realtà. Privilegio raro tutt’oggi, visto che le sale cinematografiche sono state progressivamente trasformate in supermercati o in chiese delle varie sette. Ricordo una sera, in Camerun, in un cinema all’aperto di quelli con le panche sotto le stelle: non si capiva quasi nulla, i film erano o indù, o vecchi western, con un audio pessimo, una visione assolutamente disturbata, ma file di bambini incantati partecipavano alle proiezioni gridando, ridendo, incitando i protagonisti. E c’è un’altra scena che mi ha colpito tantissimo. Ero nel deserto algerino, durante le riprese di un film di Rachid Benahadj che poi è stato premiato a Cannes, Rose des Sables (La rosa di sabbia) e procedevamo con la nostra troupe nel deserto. A un certo punto vediamo una tenda Tuareg con un piccolo generatore e un’ antennina che si muoveva nel vento. Ci affacciamo a questa tenda dove erano seduti bambini, adulti, nonni, la famiglia al completo. Guardavano un piccolo schermo in bianco che fibrillava e sapete cosa guardavano? Beautiful! Questo è stato un episodio che mi ha segnato. Cosa poteva esserci di più “astratto”, anni luce lontano dalla loro cultura? Eppure avevano voglia di queste immagini, rimanevano a guardarle. Io ho vissuto nove anni continuativi in Nigeria e ho visto un solo film nigeriano. Ricordo ancora il titolo Bisi daughter of the river (Bisi, la figlia del fiume), ma andava per la maggiore In ginocchio da te con Gianni Morandi… Per tornare al desiderio degli Africani di vedere i film girati dai loro registi, basta vedere quello che accade al Fespaco di Ouagadougou: code sotto il sole di infinite persone di tutte le età, le mamme con i bambini appesi sulla schiena, ore di coda per poter entrare a vedere un film che parla delle loro vite.
Il Fespaco è un rendez vous a cui mi reco ormai puntualmente da 20 anni: una grande kermesse del cinema dell’Africa e di tutte le diaspore, un avvenimento organizzato in modo imperfetto, ma meraviglioso. Se vi capita, andateci perché è un’esperienza della vita. Ricordo la mia prima volta: c’era ancora il presidente Sankara che ha promosso al massimo la cultura e la cinematografia, e che infatti… è stato assassinato. La notte eravamo tutti intorno alla piscina deIl’ Indipéndance, l’hotel adesso completamente distrutto da uno degli attacchi terroristici e, tra gli altri, c’era Idrissa Ouédraogo ancora giovane che difendeva il suo film: si era proprio all’inizio del cinema africano ed era fantastico l’entusiasmo che animava i registi. Direi che oggi è un po’ calato. Purtroppo tante illusioni sono andate perdute. Eppure ancora c’è la voglia sempre di far cinema, di vedere questo cinema. E nella diaspora, ovunque sono stata da Haiti a Los Angeles, c’è la richiesta di questi film e c’è una ricerca forte di una identità africana che non si possiede più. Al Panafrican Film Festival di Los Angeles ho visto cose incredibili, le donne che si vestivano da antiche egiziane, l’idea di un immaginario nella loro testa, per cui indossavano costumi assolutamente improbabili che in Africa non si portano affatto. Accanto a me si sedeva un nero di Los Angeles che si faceva chiamare Shango e insegnava all’Università una disciplina chiamata “terra madre”. Questo incredibile personaggio si rifiutava di prendere qualsiasi mezzo di trasporto che non fossero le sue gambe, quindi attraversava Los Angeles a piedi nudi vestito con una specie di saio di non so quale cultura o etnia, aveva le orecchie con i lobi allungati, un grande anello al naso, la placca labiale e per questo si sentiva molto africano; veniva a vedere i film fiero di una sua cultura assolutamente reinventata.
Molto spesso si dice che il cinema africano è in crisi. Anche io ho spesso parlato del cinema africano che non decolla, che non trova i distributori o i produttori, ma in realtà, nonostante i diversi problemi, è estremamente vivo, e se purtroppo stanno scomparendo i grandi registi che hanno fatto conoscere il Cinema Africano al mondo, nuovi talenti sono venuti alla ribalta. Tra i più noti, il mauritano Abderrahamane Sissako, autore di film di una bellezza estrema, raffinati e a volte anche estetizzanti. Il suo ultimo, Timbuktu, narra con estrema delicatezza e acutezza espressiva la condizione in cui improvvisamente si trovano a vivere gli abitanti della città: l’armonia delle immagini contro l’assurdità del fondamentalismo. Un altro grande autore dell’Africa sud Sahariana è senz’altro Mahamat-Saleh Haroun, pluripremiato nei festival, di cui amo soprattutto un film, che considero un vero capolavoro: Daratt (Il perdono), la storia di un ragazzo che vuole vendicare l’assassinio del padre e va a convivere con il fornaio che l’ha ucciso per poi ucciderlo a sua volta, e poi invece lo perdona. Un film sulla pace raccontato in modo sobrio ma estremamente toccante.
E le donne, che fino a tempi recenti erano condannate a ruoli secondari, sempre più di frequente passano dietro la macchina da presa, regalandoci opere di grande originalità. Ne voglio citare due: I’m not a Witch (Non sono una strega) di Rungano Nyoni dello Zambia che ha vinto ormai oltre 32 premi ed è un film straordinario perché affronta un tema antico: quello delle streghe, che in Africa sono le donne non sono sposate o che hanno partorito un figlio morto o che per qualche altro motivo sono messe da parte e vivono in un ghetto. Rungano però ha raccontato questa realtà attraverso la storia di una bimba che viene costretta a diventare strega. Con humor, ma anche in modo assolutamente drammatico, racconta la storia di questa bimba e di queste streghe che sono diventate un’attrazione per i turisti nel suo Paese. E un altro film molto interessante e coraggioso è quello girato in Kenya da una regista, Wanuri Kahiu, che aveva già dimostrato nel suo primo cortometraggio una geniale inventiva con la storia immaginaria delle prima astronauta nel suo Paese. Con Rafiki (Amico), affronta il tema lesbo. Un film coraggioso perché in Kenia, come in altri Paesi africani, l’omosessualità è punita con pene gravissime e anche con la morte. Ma in Rafiki non c’è nulla di morboso o di volgare, è una storia dolce di due ragazze con due famiglie antagoniste e tanta gente maligna che fanno sì che la storia finisca.

Mi rendo conto di essere andata a ruota libera e molti sono gli argomenti importanti che non ho avuto modo di toccare, ma spero di avervi dato qualche idea in generale su una tematica che mi appassiona tanto.

Annamaria Gallone

Annamaria Gallone è produttrice, regista, giornalista, scrittrice.
Ha vissuto in Africa, Cina, Iran. Collabora a numerose riviste, progetti culturali e trasmissioni televisive sui temi del dialogo interculturale.
E’ uno dei fondatori del Festival del Cinema Africano, d’Asia e d’America Latina di Milano, di cui cura la direzione artistica.
www.festivalcinemaafricano.org