La danza? Un allenamento al dubbio

di Maddalena Giovannelli

Fatti a mano, Lab. Rocamora Teatre, Calders (ES) 2016, Ph Giacomo Verde

«Non ho capito!». O ancora: «Io non me ne intendo, però mi sembra che…».
Non è raro sentire questa o simili affermazioni nel foyer di un teatro dove è andato in scena uno spettacolo di danza o, più in generale, nell’incontro con linguaggi performativi non verbali.
È uno smarrimento che attraversa il pubblico, e non fa discriminazioni anagrafiche, geografiche, o sociali. Si nutre di tre elementi: senso di inadeguatezza, mancanza di abitudine, lontananza prodotta da un vocabolario tecnico per lo più estraneo.
A questo si aggiungano: quella silente ma attiva assiologia culturale che individua soprattutto nei testi letterari qualcosa degno d’attenzione; e infine l’ossessione del sistema educativo italiano per la ‘comprensione’, la parafrasi, il riassunto e la riproposizione di una storia. La danza fa dunque lo sgambetto agli abituali metodi di fruizione di uno spettatore italiano anche mediamente o molto colto.
Ed ecco i risultati. Si va poco a vedere danza e, anche quando si crea l’occasione per questo incontro, può accadere che lo spettatore si senta “all’estero”. Capita, in viaggio, che ci sia necessario assaggiare una specialità più di una volta per capire che è buona e che ci piace (o che invece non ne vogliamo più sentir parlare). Ma un simile processo di autonomo e cauto avvicinamento è spesso pieno di ostacoli. Non è così semplice accostarsi a un cibo sconosciuto – che potrebbe forse incontrare i nostri gusti – quando la strada è piena di fast food e grandi catene che propongono piatti internazionali! Allo stesso modo, è difficile che una parte del pubblico (quello, per esempio, che sceglie di andare a teatro cinque o sei volte l’anno) entri in contatto con i linguaggi più vivi della danza contemporanea, con i giovani artisti che stanno coraggiosamente formandosi all’estero, e persino con gli storici centri di ricerca del settore. I colossi internazionali della danza, che ottengono gli spazi di punta nelle grandi città e pagano luminosi cartelloni pubblicitari, cantano come le sirene di Ulisse e finiscono per dettare il parametro di una danza estetica, ginnica, di intrattenimento.
Il problema è sotto gli occhi di chiunque lo voglia guardare, e da diversi anni la consapevolezza di molti operatori, coreografi e direttori artistici è in crescita. Le strategie per colmare le distanze sono diverse, e naturalmente variano da caso a caso, da territorio a territorio. Mi limiterò a menzionare tre possibili linee di intervento, e a portare qualche concreto esempio di “buona pratica” che ho avuto occasione di osservare da vicino, senza nessuna pretesa di esaustività e sapendo che molti altri, in giro per l’Italia, stanno facendo tanto e bene.

Un cocktail di pubblici

Il segreto per avere un pubblico ampio e partecipe – ormai lo hanno capito in molti – è costruire una comunità di riferimento. Quando si crea un saldo legame affettivo tra lo spettatore e un luogo (oppure tra lo spettatore e una compagnia), la programmazione può osare ed evolversi con maggior agio. Come accade nella vita: siamo disposti a seguire in territori sconosciuti qualcuno di cui ci fidiamo, e siamo anche ben più disponibili a perdonare qualche errore. Ecco perché un progetto di largo respiro su una “casa” per la danza contemporanea diviene quasi più importante della qualità del singolo spettacolo: c’è chi costruisce giorno per giorno la propria comunità (in Toscana lo fanno ormai da anni ALDES e Sosta Palmizi), e c’è chi tenta con le proprie programmazioni di creare cortocircuiti tra il pubblico “da abbonamento” e gli appassionati del settore (guardare la stagione del Teatro Comunale di Ferrara per credere).
A Milano, il festival MilanOltre cerca di andare in questa direzione da trent’anni. La rassegna – che richiama nomi coreografici da tutto il mondo, e li pone accanto agli emergenti italiani – viene ospitata fin degli esordi nella sede del Teatro dell’Elfo. Oggi l’Elfo Puccini è diventato uno dei luoghi di punta del territorio milanese, e quel legame antico sembra acquisire nuovo valore: a settembre, quando gli abbonati si preparano a comprare il biglietto dell’Otello con Elio De Capitani, si trovano davanti la pubblicità della rassegna che sta per iniziare, e non è raro che in biglietteria qualcuno li incoraggi in questo senso. Può capitare, proprio in questi giorni, che nello stesso carnet compaiono, al fianco di Otello, Simona Bertozzi o Sanpapié.

Fare esperienza del coro

Il verbo greco Choreuo significa “danzare” ma anche “fare parte di un coro”. Nella Grecia antica, uno spettatore non restava quasi mai solo uno spettatore: Platone ci riferisce, nelle Leggi, che a un cittadino poteva facilmente capitare di far parte del coro di una tragedia almeno una volta. Possiamo solo immaginare quanto, all’edizione successiva del festival “Le grandi Dionisie”, il suo modo di osservare le rappresentazioni potesse mutare: si guarda con altri occhi un performer se si comprende quanta fatica e quanta sensibilità servono per esporsi su un palcoscenico. Trovarsi nei panni dell’altro – ci insegnano i filosofi morali – è del resto il primo passo verso l’empatia. Non stupisce allora che a diversi coreografi sia venuto in mente di incontrare i cittadini proprio nello spazio del “fare”, aprendo le porte della bottega e condividendo (anche solo per poche ore) i propri strumenti del mestiere. Virgilio Sieni ha reso celebre a livello internazionale la sua poetica dell’incontro, e la Toscana continua a porsi come un vero e proprio laboratorio di sperimentazione: Giorgio Rossi di Sosta Palmizi continua implacabile, da anni, a incontrare amatori di ogni età, portandoli ad assaggiare i segreti della scrittura scenica e a conoscere (e talvolta a superare) i limiti del corpo. A Ferrara, CollettivO CineticO coinvolge folte schiere di adolescenti (il progetto Age è del 2014) rendendoli parte dei processi di composizione coreografica. Gli esiti di lavoro chiamano spesso parenti e amici che difficilmente avrebbero messo piede a una rassegna di danza contemporanea, ma è soprattutto chi ha vissuto in prima persona l’esperienza che trasforma il proprio modo di essere spettatore: prende tutto un altro gusto guardare un dipinto dopo essersi imbrattati le mani con il colore in bottega!

Tra i banchi di scuola

Provate a chiedere un adolescente cosa gli viene in mente quando sente parlare di danza: le diapositive dell’orrore spaziano da Maria de Filippi con il sempreverde Kledi, fino a quell’interminabile saggio della sorellina in tutù. Uno spettacolo di danza contemporanea esce talmente dai codici introiettati, che i ragazzi percepiscono spontaneamente di non poter utilizzare la stessa etichetta utile per le esperienze di cui sopra («ma questa non è danza!», ho sentito dire a un ragazzo davanti a uno spettacolo di Ambra Senatore).
Con la rivista Stratagemmi, ci stiamo impegnando da alcuni anni in percorsi di accompagnamento alla visione nelle scuole superiori. Abbiamo cominciato dalla prosa – anche noi dovevamo creare il nostro pubblico! – ma ci stiamo orientando sempre più di frequente verso danza e linguaggi performativi. I passi per costruire efficaci percorsi di audience development tra i banchi di scuola sono esattamente gli stessi che deve affrontare uno spazio teatrale: si tratta di costruire con il tempo rapporti di fiducia con gli insegnanti, per poterli condurre verso programmazioni che non avrebbero mai scelto in autonomia. L’istintiva diffidenza del corpo docente verso gli spettacoli che non hanno esplicita attinenza al programma didattico è cosa nota; ma i territori dei linguaggi non verbali rischiano di collocarsi, nel percepito comune, di molto oltre le colonne d’Ercole. Con alcune realtà del territorio milanese (DanceHaus, Zona k, Mare culturale Urbano, Danae Festival, Fattoria Vittadini) stiamo dunque lavorando stabilmente per costruire ponti: è un lavoro lungo, faticoso, che non può produrre nell’immediato risultati numericamente rilevanti.
I percorsi attivati, pur avviati in contesti scolastici diversi, hanno fatto emergere questioni analoghe e sollecitato riflessioni su cui vale la pena soffermarsi brevemente. La vicinanza con un altro corpo umano, talvolta quasi nudo, crea disagio e imbarazzo: le risatine in platea nascondono l’improvvisa e inattesa empatia, o un profondo e intimo spiazzamento. Se non ci trincera in un controproducente atteggiamento censorio, basta poco, nella discussione in aula, per condurli a scoprire le carte.
L’assenza di personaggi tradizionalmente intesi e di una trama compiuta – vera e propria routine per il pubblico della danza – dà poi l’impressione ai giovani spettatori di trovarsi senza il terreno sotto i piedi. Ecco le risposte degli studenti del Liceo Einstein di Milano, dopo la visione di due spettacoli di danza (anno scolastico 2017-2018): «la mancanza di un filo conduttore mi lascia spaesato […] è un vuoto che mi provoca estremo disagio». O ancora: «mi ha infastidito la totale assenza di parole, forse perché mi lascio sempre guidare da queste, altrimenti non capisco il significato dello spettacolo». A creare spaesamento è poi l’impossibilità di ricondurre ciò che si è visto a una interpretazione univoca, a un messaggio da poter sintetizzare in poche parole: «la possibilità di molte interpretazioni crea confusione», scrive un ragazzo. O addirittura, apertis verbis: «mi infastidisce avere dubbi» (sic!).
Ecco che un percorso critico di avvicinamento alla danza – con quella sua naturale predisposizione ad alterare gli schemi e a rovesciare l’atteso – diventa un assaggio della responsabilità e della libertà dello spettatore: un vero e proprio allenamento al dubbio di cui, in questo momento storico, sentiamo più che mai bisogno.

 

Maddalena Giovannelli

Maddalena Giovannelli è assegnista di ricerca al dipartimento di Studi Letterari Filologici e Linguistici dell’Università degli Studi di Milano. Si occupa di letteratura teatrale della Grecia antica e di ricezione del teatro classico sulla scena contemporanea. Nel 2007 ha co-fondato la rivista peer-reviewed «Stratagemmi. Prospettive Teatrali», costituita da un semestrale cartaceo e da una testata online (stratagemmi.it). Collabora con «Hystrio» e con la rubrica Scene di «Doppiozero». Dal 2011 è titolare del laboratorio didattico «Il teatro antico sulla scena contemporanea» presso l’Università degli Studi di Milano e, con l’associazione culturale Prospettive Teatrali, tiene laboratori di formazione alla critica teatrale nelle scuole superiori di Milano e in collaborazione con teatri e festival del territorio nazionale. Ha scritto “Aristofane nostro contemporaneo” (Carocci, 2018).