È settembre, si torna a scuola: tra i maestri e gli allievi
di Andrea Porcheddu
Chi è un maestro? Cosa può insegnare?
Nella biografia di Ramakrishna, grande sapiente indiano dell’Ottocento, si racconta che la sua azione non consiste nel prescrivere qualcosa, quanto nel mostrare un limite. Ramakrishna, di fronte alla dichiarazione di un allievo che non aderiva alla natura Non-dualistica del Cosmo (ovvero, per dirla grossolanamente, se Dio è ovunque, dunque anche nella tigre, devo abbracciare la tigre) commenta serafico: «non esagerare». Qual è il maestro che sa dire non esagerare? Oppure quel maestro che sa seguire l’ultima, la più importante lezione di Zarathustra, a detta di George Steiner anche la «più vitale», ovvero: «E adesso, fate a meno di me».
Il punto nell’educazione sta tutto nell’aiutare a capire dove si trova il limite oltre il quale si esagera, oltre il quale cioè una verità si perverte in una menzogna, un comportamento giusto diventa ingiusto. E nella capacità di sparire, di ritirarsi al momento giusto.
Gli allievi, si sa, a volte sono fanatici. Vi ricordate quel bel film, L’onda, che Dennis Gansel ha tratto dal romanzo di Todd Strasser? Il fanatismo è dietro l’angolo, è la risposta dell’epigono, è la posizione del devoto di fronte all’oggetto di culto: si inchina e non si pone domande.
Allora a settembre ricomincia la scuola, la “buona scuola”, ma a settembre ricominciano anche le stagioni teatrali e di danza, a settembre si torna a parlare di professori, di maestri, di insegnamento.
Diceva Eugenio Barba che il rapporto tra maestro e allievo è sempre un rapporto d’amore. Ma allora abbiamo bisogno di Maestri così come abbiamo bisogno di amore?
Viviamo questa contraddizione evidente. Da un lato si avverte, soprattutto nelle nuove generazioni (ma anche nei cinquantenni) un bisogno spasmodico di maestri: tutti hanno la necessità di qualcuno che si assuma l’incarico, l’onere e l’onore di indicare la via, di dare la risposta giusta, il consiglio. Ci ironizzava Nanni Moretti in Palombella Rossa: c’era sempre il “guru”, il portatore di verità a dar sicurezza.
Da qui, forse, anche il boom dei laboratori: come accade per i tanti giovani attori e danzatori in formazione permanente, alla ricerca continua di un riferimento. Poi in Italia, questo paese che aspetta sempre il caudillo, l’uomo forte, quello che “tira dritto”, insomma l’uomo che si affaccia al “balcone” o alla “finestra” e dice verità, cui raccomandarsi, o cui attribuire tutti i meriti o scaricare tutte le colpe, il Maestro diventa subito il leader, il boss, il potente, il mammasantissima che risolve, che piazza, che ti sistema.
Al tempo stesso, però, in tempi recenti abbiamo assistito anche alla deriva opposta, ossia alla negazione dell’idea stessa di maestro, che è divenuta sospetta, incompatibile con la retorica del “faccio tutto io”, di chi non ha bisogno di niente e di nessuno: è la stagione del “dilettante allo sbaraglio”, del contest, del successo senza gavetta. Della formazione veloce, insomma, fatta di colpi di fortuna o prove da superare, che fa volentieri a meno del studio, dell’analisi, della pazienza. Chi studia è considerato scemo, qualcuno che perde tempo, non produttivo.
Allora la scuola significa porsi la domanda del perché e del percome scegliere qualcuno a proprio maestro. Ci sono conseguenze curiose. Da un lato significa delegare la responsabilità (ma anche abbandonarsi al gruppo, alla setta, alla comunità più o meno ampia), e dunque rinviare alla decisione altrui la propria crescita o il raggiungimento dell’adultità. È il maestro che ci dirà quando siamo “pronti” (e poi ovvio, non lo saremo mai, relegandoci all’infantilismo perenne che ci circonda e ci assale).
Dall’altro, invece, significa fare un bel bagno di umiltà, ossia accettare che qualcun altro sia “migliore” di me. Capire e carpire – a bottega! – i segreti di quel maestro, impossessarsene, crescere attraverso gli insegnamenti (ancorché reconditi, non detti) e infine acquisire consapevolezza, dunque, forse una possibile adultità.
Scriveva più o meno – cito a memoria – Goffredo Fofi tempo addietro: «ormai non si ammira più nessuno. Al più lo si invidia: siamo un paese in cui i poveri invidiano i ricchi, e i ricchi assomigliano ai poveri» Una delle astuzie della società attuale – spiegava Fofi – è aver convinto i poveri a amare, invidiare, idolatrare i ricchi e la volgarità, a far si che i non-ricchi si sentano ricchi, che amino i ricchi come maestri di vita, come modello.
Nella cultura unica, del posticcio televisivo, ricchi e poveri, padroni e servi condividono gli stessi idoli e gli stessi modelli.
E se gli allievi cominciassero davvero a criticare i cattivi maestri? Sarebbe bello. Pare, invece, che certi ridicoli modelli abbiano avuto il sopravvento: il modello Salvini, ad esempio, pare goda di grande consenso.
Tocca dunque agli altri, ai pochi (ma poi non così pochi) veri maestri rimboccarsi le maniche, non delegare agli altri – ai grandi vecchi, ai grandi morti – il compito di insegnare. Assumersi la responsabilità di essere maestri è la scelta più difficile che la generazione di mezzo possa fare oggi.
Rilanciare una cultura autonoma e critica, legata alle pratiche (anche le cosiddette buone pratiche) e libera da legacci ideologici o dal bieco populismo semplicista e violento di questi tempi grami, insediata nella società, in grado di fare proposte, a partire dalla conoscenza dell’autentica dimensione dei problemi, per averli studiati e sperimentati.
Sin dall’antica Grecia, il teatro è stato un modello di pedagogia applicata. Il rapporto teatro/società è fondante, fulcro di interesse e riflessione. Di democrazia discorsiva. Ecco cosa può ancora insegnare il teatro, la danza, la musica: trovarsi insieme, tra dialettica e discorso, per provare a discutere.
Non voglio, qui, ripercorrere le pratiche e le dinamiche dei maestri pedagoghi della regia: sarebbe un discorso lungo per quanto sia significativo quel modello formativo fondato proprio sulla bottega e sullo studio.
Ma anche in teatro appare delicato, il ruolo del maestro. E forse, in definitiva, non ci interessano più gli educatori, semmai i diseducatori. Nel 1994, a Belgrado, Borka Pavicevic ha fondato il “Centro di decontaminazione culturale”. Sosteneva, con molto coraggio una tesi scomoda:«La nostra cultura è stata contaminata – mi spiegava qualche anno dopo – dal razzismo, dalla violenza, dalla sopraffazione. Dobbiamo decontaminarla».
Ecco come andare contro, andare in controtempo, essere critici.
Non seguiamo quelli che vogliono indottrinare, dare un metodo, farci diventare bravi cittadini (o anche semplicemente solerti abbonati). Guardiamo con maggior entusiasmo alle “non-scuole” che non alle scuole. A quei maestri che possono contare su una profonda consapevolezza di un sapere; che sanno reinventare continuamente una tradizione, all’interno della quale pure si inseriscono a pieno titolo, in termini di invenzione e cambiamento; che sanno vivere appartati, lavorare al di fuori dei circuiti ufficiali (senza dipendere direttamente o indirettamente dall’apparato) che sanno fondare luoghi di aggregazione e riconoscimento.
E che, sostanzialmente sono in grado di creare una comunità, umana o artistica, anche circondandosi di colleghi con cui condividere percorsi creativi in termini di scambio e ascolto reciproco, mantenendo quella autorevolezza (e non autorità) spirituale e politica, oltre che artistico-creativa. Autorevolezza che implica anche rigore, etica, integrità. Eccoli, i maestri: individui irriducibili, non integrabili in un sistema, educatori, non indottrinatori, rispettosi dell’autonomia dell’altro, e quindi dell’allievo.
Educano a relazioni, alla crescita possibile, al cambiamento.
Il maestro deve saper tradire, ossia far tradire l’allievo. Il vero maestro, come dice Zarathustra, a un certo punto sa che deve svanire, tirarsi indietro, tradire con l’abbandono. E spingere l’allievo a tradire a sua volta: il maestro per essere tale deve farsi rinnegare.
Allora, in questo numero di 93% proviamo a riflettere su questo e anche su altro. Parliamo delle scuole di danza e di quelle tecnologiche, della formazione del pubblico e dell’insegnamento in Africa, con il bel racconto di Andrea de Georgio dal Senegal o ancora di certe informali manifestazioni che educano alla libertà in Tunisia. E poi riflettiamo sull’eterno passare delle stagioni, con un omaggio all’abecedaire di Deleuze, o su come si compone una stagione teatrale di successo grazie a Elio De Capitani.
E, a proposito di maestri, siamo particolarmente felici di ospitare, in questo numero le immagini di Giacomo Verde. Un maestro, davvero: uno di quei maestri appartati, magari scontrosi e bonari, che l’Italia vanta ma non valorizza mai a sufficienza. Giacomo Verde è uno dei geniali sperimentatori delle contaminazioni, di quelle che oggi alcuni definiscono “videoarte” che lui – in epoca non sospetta – ha saputo inventare, sperimentare, investigare in tutte le possibilità. Definirlo videomaker è certo riduttivo: semmai artista e artigiano che ha scelto di usare la tecnologia plasmandola in direzione di una creatività sempre attenta all’umano e, con grande verve, alla politica. Di teatro e arti visive si occupava già negli anni Settanta, ma ha seguito e intercettato le componenti più vive ed estreme (basti pensare al Living Theatre), spingendo poi verso un teatro multimediale che non ha mai abbandonato la prospettiva calda, viva, della presenza fisica dell’attore, mettendo assieme preparazione scientifica e cultura teatrale. Non è un caso che oggi si spinga a investigare robotica e realtà aumentata: magari pensando agli spettatori bambini, come ha fatto per il burattino virtuale Bit, frutto di genialità e fantasia, di candore e sperimentazione.
Insomma, il mese di settembre lo passiamo tra grandi e piccini, tra insegnamento e formazione, tra sperimentazione e pedagogia, apprendimento e spettacolo…
Buona scuola a tutti.