Se la pelle è un’ossessione

di Andrea de Georgio

bureh town, Sierra Leone, 2018 – ph Riccardo Contrino

Lo “sbiancamento” (o “depigmentazione volontaria della pelle”) è una tendenza nata fra le donne nere degli anni Sessanta negli Stati Uniti. Qui un gruppo di operai dell’industria della gomma scoprirono per caso le proprietà schiarenti dell’idrochinone, aprendo la strada alla commercializzazione di prodotti cosmetici a base di tale pericoloso componente chimico, usato anche come rivelatore fotografico. Dapprima la moda della pelle chiara ha rapidamente raggiunto l’Africa, per poi investire l’Asia: India, Filippine, Taiwan e Corea del Sud. Un fenomeno non soltanto commerciale diventato molto presto globale che oggi concorre alla ridefinizione dell’identità di milioni di neri nel mondo.

In Africa le prime creme per depigmentare la pelle sono arrivate alla fine degli anni Sessanta, poco dopo la proclamazione delle Indipendenze nel continente. Decenni di ferrea dominazione coloniale hanno causato effetti psicologici devastanti sulle popolazioni africane che in alcuni casi hanno sviluppato una sorta di fascinazione verso i propri colonizzatori. Da questo interiorizzato complesso d’inferiorità deriverebbero anche le mode femminili di schiarirsi la pelle e torturarsi i capelli con creme, extencion e parrucche per tendere a modelli e canoni di bellezza esogeni dal proprio contesto. Tornato di moda negli ultimi quindici-vent’anni grazie all’influenza di diverse dive africane – dalla celebre cantante maliana Oumou Sangaré, alla keniana Vera Sidika – e vip internazionali – da Michael Jackson a Beyoncé – decolorarsi la cute è oggi una moda ampiamente diffusa in tutta l’Africa occidentale. Donne e, in misura minore, uomini di tutte l’età e le classi sociali utilizzano prodotti per lo sbiancamento: saponi, creme, lozioni, latte detergente, olii e iniezioni che costano da pochi centesimi a centinaia di euro. Una pratica che nella stragrande maggioranza dei casi è tenuta segreta. L’utilizzo di questi cosmetici, infatti, è considerato un tabù: le ragazzine nascondono le creme a genitori e amiche per non essere giudicate negativamente.

“Tre donne su cinque che trattiamo mostrano le conseguenze dell’uso di prodotti depigmentanti”. Il dottor Mamadou Kaloga, responsabile del reparto di Dermatologia dell’Ospedale di Treichville, uno dei migliori della città di Abidjan, cita dati dell’OMS – il 50% delle giovani africane sarebbe ossessionata dallo sbiancamento della pelle, con picchi di 80% in paesi come la Nigeria – e mette in guardia sui danni causati da tali cosmetici: “Un uso continuativo e smodato può portare a disturbi localizzati e secondari, cioè legati al prodotto che passa nel sangue. Nel primo caso si parla di funghi e infezioni batteriche, virali e parassitarie, mentre nel secondo di ipertensione, diabete, insufficienza renale e, alle volte, perfino cancro alla pelle.”

Nel maggio 2015 il governo ivoriano ha dichiarato guerra alle creme sbiancanti approvando una legge che limita l’utilizzo di idrochinone – principale inibitore della tirosinasi, enzima catalizzatore di diversi passaggi della trasformazione della tiroxina in melanina – a un massimo di 2%. Secondo diversi studi, infatti, questo composto chimico vietato in Cina e nell’Unione Europea (dal 2001) frena l’effetto della tirosinasi fino al 90% e, in grandi quantità, può causare effetti citotossici sui melanociti portando a gravi disturbi della salute come irritazioni cutanee, dermatiti croniche, citotossicità, ipermelanosi o melanosi permanente e ocronosi, cioè lo scurirsi della zona trattata. Oltre all’idrochinone nelle creme depigmentanti sono spesso presenti in grandi quantità, senza essere specificati negli ingredienti, anche candeggina, corticosteroidi, derivati del mercurio e il glutatione, un agente antiossidante molto pericoloso utilizzato negli ultimi anni.

Sebbene altri paesi dell’Africa occidentale stiano valutando provvedimenti simili, questa legge in Costa D’Avorio resta carta straccia per via dell’incontrollabilità di un fenomeno che, per essere sradicato, richiederebbe una trasversale presa di coscienza collettiva. Prodotti clandestini con percentuali molto elevate di composti chimici dannosi importati da Nigeria, Ghana, Benin e Cina continuano ad affollare i banchi del mercato di Angre, quartiere popolare di Cocody alle porte di Abidjan, dove si trovano svariate boutique che vendono unicamente prodotti sbiancanti. Il set di creme Clairissime, i gel White Plus. Su molte confezioni campeggia l’immagine della cantante Beyoncé.

I più potenti e dannosi per la salute sono, ovviamente, i meno costosi. Le venditrici fanno affari d’oro anche con intrugli artigianali preparati mischiando diverse creme, detergenti e prodotti chimici sconosciuti che assicurano “una pelle bianca in 30 giorni”. Le macchie scure che cominciano a comparire sul corpo, poi, costringono il consumatore, come un tossicodipendente, a continuare il trattamento nella speranza che l’effetto migliori, cosa che raramente succede. Come accaduto a una giovane ivoriana che alcuni anni fa ha trovato la morte nel tentativo di sentirsi più bella ed accettata. Dopo avere usato creme sbiancanti per tutta l’adolescenza, la ragazza ha subito un cesareo complicato dall’indebolito spessore della pelle del suo addome che ha impedito ai medici dell’ospedale di ricucire la ferita. Dopo la tragica morte della migliore amica, Deborah Gohou ha creato l’associazione Black Diamond per sensibilizzare la popolazione ivoriana, e più in generale africana, sui rischi di tali prodotti. A questo scopo nel 2013, l’allora ventunenne Deborah inventa Miss Black Diamond, una concorso per celebrare la bellezza nera che da allora si tiene ogni anno a luglio ad Abidjan. “Se sei fiera della tua tinta nero-ebano o cacao questo concorso di bellezza fa per te”. Su Facebook, Twitter e Instagram l’Ong Black Diamond Africa chiarisce lo scopo della propria lotta: “Valorizziamo la bellezza africana”. “Il nero è il vero colore dell’Africa”.

Madrina d’eccezione del concorso, quest’anno, è Marie-Christine Beugré, attrice, modella e volto noto delle tv ivoriana. Dopo un inizio di carriera segnato dalle esclusioni a causa del colore della pelle “troppo scuro” Marie-Christine – recentemente scelta dal marchio Dove come propria ambasciatrice per l’Africa – si è imposta nel mondo del cinema e della moda africana diventando un’icona di bellezza e naturalezza. “Nera e fiera!”, come sottolinea la pagina Facebook di Black Diamond.

Seppur la maggior parte delle donne africane che utilizzano prodotti sbiancanti tendono a un modello di bellezza occidentale, altre sostengono di voler assomigliare ad etnie locali più chiare, come in Mali dove le donne tuareg o peul, etnie del nord più chiare di pelle, sono considerate più attraenti delle bambara o senoufò del sud. Questo per dire che i canoni di bellezza, in Africa come ovunque nel Mondo, derivano da mode e gusti soggettivi molto stratificati e difficili da semplificare. A volte la pratica dello sbiancamento cela la rincorsa ad uno status sociale più che estetico che passa anche dal colore della pelle.

I prodotti sbiancanti sono arrivati, coi migranti, anche in Europa. In Francia, dove risiedono più di 6 milioni di donne nere o meticce, secondo uno studio di Ak-a, agenzia francese specializzata in “marketing etnico”, queste spendono circa sei volte di più delle donne bianche in prodotti per la cura della pelle e dei capelli. Nonostante svariati arresti, processi e chiusure di magazzini in Francia, il contrabbando di prodotti illegali dannosi alla salute aumenta ogni anno, in Occidente come in Africa. Per questo “Esprit d’Ebene”, associazione nata nel 1998 che vanta, come testimonial, l’attore Vincent Cassel, a dicembre dell’anno scorso nel quartiere africano di Parigi Château-Rouge ha lanciato la campagna nazionale di sensibilizzazione StopDepigmentation.

L’abbandono di pratiche nocive e snaturalizzanti come la depigmentazione cutanea, però, deve passare prima di tutto dalla decostruzione del mito della purezza e della superiorità della razza bianca. Vanno in questa direzione alcuni recenti tentativi, in paesi dell’Africa occidentale come il Senegal, di valorizzazione culturale della moda e dei prodotti locali. Veder sfilare alla Fashion Week di Dakar modelle scure dalle capigliature rigorosamente afro che indossano abiti confezionati con il Faso dan fani, tessuto di cotone naturale del Burkina Faso, ispira nuove mode fra le teenager della regione.

“Per tornare ad essere liberi prima di tutto dobbiamo decolonizzare le nostre menti” soleva ripetere Thomas Sankara, giovane presidente rivoluzionario del Burkina Faso. Durante il suo breve e illuminato governo (1983-1987) fra le varie campagne collettive, il Capitano ha rilanciato la produzione e l’utilizzo del Faso dan fani (che in lingua dioula significa “il tessuto della patria”), arrivando persino a imporlo come “divisa di stato” ai parlamentari. “Consumiamo burkinabé!”. Anche a questo allude il nome dato da Sankara alla nazione conosciuta, durante il Colonialismo, come Altovolta: Burkina Faso, il paese degli uomini e delle donne integre. Una presa di coscienza comunitaria, una rivendicata integrità morale (e politica) che passa inesorabilmente dall’accettazione di essere diversi dal canone imposto dai dominatori occidentali. Oggi ancor più di allora “l’Imperialismo si trova in ciò che consumiamo, mangiamo e indossiamo”. E scorre ancora sotto pelle alle generazioni africane che cercano di ridefinire la propria identità al grido “nero è bello!”.*

*in questo testo è stata parzialmente ripresa un’inchiesta contenuta nel libro “Altre Afriche: racconti di paesi sempre più vicini” (Andrea de Georgio, Egea, 2017)

 

Andrea de Georgio

Andrea de Georgio, giornalista freelance (Premio Cutuli 2011 – Premio Leviti 2017), dal 2012 vive in Mali, dove lavora per media nazionali e internazionali tra cui CNN, Al Jazeera, RaiNews24, Radio3Mondo, Limes, Internazionale, L’Espresso, Nigrizia. È ISPI associate research fellow. Per OIM, agenzia delle Nazioni Unite per le migrazioni, nel 2016 ha realizzato con Luca Pistone il documentario Odysseus 2.0. Nel 2017 ha partecipato a Diverted Aid, progetto internazionale di giornalismo investigativo sull’utilizzo dei fondi fiduciari europei per lo sviluppo dell’Africa, finanziato dall’European Journalism Center.