Esposizione permanente (del corpo parlante)
di Fabiana Sargentini
Ho ventitré tatuaggi. In quali zone del corpo si collocano? Cosa mi raccontano? Cosa raccontano di me al mondo? Ho ventitré tatuaggi ma quelli degli altri non mi garbano. Il primo ha ventiquattro anni, un giovane nel diritto di voto da tempo, l’ultimo un mese scarso, ancora un poppante. Il primo rappresenta una spirale (dentro la quale mi pareva di vivere allora) e sta sul polso destro (sono mancina: me lo disegnai a penna con inchiostro viola e pretesi che fosse ricalcato dal professionista con la macchinetta). L’ultimo è tra le scapole, nel centro della schiena, lungo la colonna vertebrale: si tratta di un albero della vita stilizzato, disegnato da mia madre, pittrice, contenuto in un suo libro (un albero su cui arrampicarsi, una vita ancora da mordere). I restanti ventuno sono sparsi in giro per il corpo, in maggioranza piccoli come un ciondolo, visibili principalmente in bikini al mare. Faccio parte di un’orda di individui dalla pelle violata da ferite cicatrizzate volontarie.
La pelle è l’organo umano che più di ogni altro racconta di noi: peluria (strappata, disegnata, sezionata, esposta), nei che compongono forme astratte geometriche irrazionali, cicatrici fresche di zanzara arrossate a furia di grattarsi, crosticine, pellicine strappate a sangue coi denti, il segno indelebile dell’appendicite o del cesareo, rughe di espressione, macchie solari, voglie di caffellatte, di uva, di pera al cioccolato. L’epidermide raccoglie storie e le rivela agli sguardi più indagatori, agli occhi che vogliono vedere.
Da tempi lontanissimi si è usato il corpo come mappa dove disegnare storie. Sugli schiavi per imprimere la supremazia, sui carcerati per marchiare la loro colpa, sugli eroi per segnare indelebilmente la loro gloria marziale, sulle donne ad indicarne la fertilità. Oggi camminare per la strada, in estate, quando gli abiti si fanno scollati, ristretti, trasparenti, è tutta una decodificazione di segni. In un percorso di pochi metri si può incontrare l’uomo che parla male inglese al telefono fumando una sigaretta in pausa dall’ufficio con avambracci e polpacci vistosamente tribali di strisce nere continue a circondare le suddette parti; la graziosa commessa con un fiore che le spunta sul piede dal sandalo; fuori dal locale uno chef dall’aria seriosa con una carpa, un’ancora e un cuore rosso circondato di ghirigori, ex voto offerti come ringraziamento di chissà cosa.
Perché una persona espone al mondo dei disegni apposti su se stesso, a testimonianza di qualcosa: di cosa? Di una delusione amorosa, un nome da dimenticare, la nascita di un figlio, la bellezza delle piume di un pavone che si fa bello. Sono infiniti i temi contenuti nei cataloghi degli studi di tatuaggio: fiori, armi, pesci, mestieri, cuori, animali, visi noti, motivi ornamentali, segni zodiacali, simboli chimici, esoterici, araldici, tecniche differenti, stili tribali, giapponesi, mediorientali, indiani, stilemi fricchettoni, pacifisti, fascisti, anarchici, poetici, religiosi. Si vedono righe e righe di testi di canzoni, di poemi, di narrativa, di proverbi. Dagli occhi di Gesù dietro la schiena fatti in carcere, al “mamma, ti voglio bene”, all’ancora marinara, ai puntini sulle mani della malavita, al tao zen.
Farsi tatuare un bracciale maori sul bicipite può costare tra i duecentocinquanta e i quattrocento euro. Molti i fattori che fanno salire il prezzo (reputazione del tatuatore, dimensioni, colori, sterilizzazione degli aghi, durata di realizzazione, localizzazione dello studio…). Molti i professionisti alle prime armi che abbassano i compensi riproducendo immagini imprecise, difettose. Eppure, nonostante il costo, si tatuano tutti: coloro che se lo possono permettere con serenità, coloro che devono fare gli straordinari per portare a termine il pagamento a rate. La spesa ragguardevole non disincentiva. Come se, attraverso il marchio del tatuaggio, le due classi sociali potessero arrivare a comunicare, addirittura a capirsi. E invece no. Nessuno imita l’altro. Tutti vogliono essere unici, speciali, siglati da un segno indelebile di riconoscimento anche da morti, quando qualcuno chiederà a un parente “segni particolari?” e la figlia/la madre/il cugino,
tutti, risponderanno fieri: “un’alce multicolore sull’inguine”.
Una persona può desiderare tatuarsi a quindici anni, a quaranta, a sessanta. Può desiderare farlo per ricordare un evento importante, per segnare una vittoria, per portarsi fortuna da solo. Molti sono i motivi che portano la gente a soffrire (a volte può trattarsi di un fastidio minimo, altre un dolore bello e buono), più o meno a lungo, per decorarsi il corpo fino al resto dei suoi giorni. Ma quale significato ha questa massa di esseri umani colorati, macchiati, alcuni ricoperti su tutto il corpo di immagini, lettere, parole, simboli? Così come nelle tribù antiche dell’Oceania o dell’Africa, credo che un tatuaggio valga tutt’oggi come segno di appartenenza a un gruppo, a uno status, a qualcosa che accomuna con altri. Ogni mano che disegna è diversa (ha un suo tratto, una sua forza, una sua direzione), ogni tatuaggio è diverso da un altro anche se l’ornamento ne ha le medesime sembianze. L’immagine si modifica rispetto alla parte del corpo dove è segnata, certamente compirà dei mutamenti nel tempo: le linee si avvicineranno, i colori sbiadiranno, la pelle ingrassata o dimagrita si slabbrerà, la carne diverrà cedevole in alcuni tratti. Eppure, nonostante tutti questi rischi, di cui la maggior parte dei tatuati è a conoscenza, ci si ostina a decorare il proprio corpo come fosse un grandissimo foglio di carta bianca o una tela umana (esistono trasmissioni americane sull’arte del tatuaggio in cui, come in un qualunque talent show, inesperti tatuatori amatoriali imprimono disegni – spesso orrendi – su corpi sconosciuti, detti appunto, crudelmente, ‘tele umane’). Il corpo diventa dunque storia, narrazione, racconto non orale, comunicazione non ortodossa, linguaggio silente portatore di verità molteplici. I tatuaggi innervosiscono, offendono, a volte addirittura feriscono gli altri, coloro dalla pelle candida, tutti quelli che si ergono a difensori della naturalezza, dell’igiene, del corpo neutro. Quelli che odiano i tatuaggi (e i tatuati) sono aggressivi e ingiuriosi, prendono i tatuaggi degli altri come delle provocazioni nei loro confronti, con un bigottismo moralista privo di senso. È come con la religione: o sei dentro o sei fuori. Di contro, invece, il tatuaggio non accomuna tutti sotto la medesima bandiera, assolutamente. C’è chi ama la linea pura, il tipico colore blu inchiostro (all’inizio blu notte, con gli anni celeste tramonto) che si amalgama con il derma differentemente su ogni carnagione. Chi ama i colori, le sfumature, gli eccessi. Chi è così decorato da non riconoscerne più nemmeno le sopracciglia. Quelli tatuati sul deretano, non più flaccido sacchetto di ciccia, ma caricatura sfigurata del calciatore prediletto. Quelli con un fiore di loto sul petto. Quelli pieni di rose, come un cespuglio in primavera. Quelli con le costellazioni sulla pelata. Quelli con paesaggi di quadri famosi esposti nei musei. Quelli misurati, un anellino all’anulare, al posto della fede, e basta. Quelli ingordi: affastellati di immagini dissacranti che fanno a cazzotti l’una con l’altra. Si può scegliere di ornare una parte già amata e considerata bella; si può preferire di dare attenzione a una zona più critica, meno apprezzata, per darle valore, esaltandola. Ci sono tanti modi, tante scuole, tante motivazioni. C’è chi ama solo i suoi (come me). C’è a chi piacciono tutti, come coi neonati (che, in verità, diciamocelo, non sono tutti belli). Non esiste giusto o sbagliato. Non esistono mezze misure. È raro non avere pregiudizi al riguardo, sia in positivo che in negativo. Perché una immagine aggiunta su un corpo muove così tanto le reazioni della gente? Perché il tatuaggio porta con sé un’ancestralità, una arcaicità potente, evocativa, millenaria. Come se sotto qualunque immagine fosse nascosta, molto sotto, molto bene, l’origine dell’uomo, i suoi bisogni, le sue scoperte, le sue scelte. Perché di scelta si tratta. Perché un tatuaggio è per sempre. Altro che diamanti. Se si cambia idea si è destinati a rimpiangere un fazzoletto di pelle neutra dove invece risiedono inchiostro linee immagini (Esiste la tecnica con il laser che, dopo molte dolorose e costose sedute, rimuove l’inchiostro dall’epidermide, lasciando al posto dell’immagine una discreta e vistosa cicatrice: come si fa a pensare che sia meglio?).
La permanenza ineluttabile del tatuaggio è una delle più forti attrattive in chi desidera tatuarsi. In un’epoca in cui tutto è transitorio, in cui nulla è per sempre, decorare il proprio corpo di segni significativi diventa un atto definitivo, non modificabile, indelebile: oltre il quale non si può andare, dal quale non si può tornare indietro.
Fabiana Sargentini
Fabiana Sargentini è una regista, collaboratrice de Il Manifesto, blogger (femminafolle.wordpress.com). I suoi documentari hanno toccato vari argomenti, dall’arte contemporanea alla paternità/maternità alla discendenza matrilineare (Tutto su mio padre, “Sono incinta”, Di madre in figlia, Ciro e Priscilla…). Negli anni hanno percorso le vie dei festival vincendo premi: sono stati acquistati e trasmessi da canali televisivi nazionali. Nel 2013 ha esordito nel lungometraggio di finzione con il film “Non lo so ancora”, scritto a quattro mani con il critico cinematografico Morando Morandini, presentato alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro.