Antropofagie e trasfigurazioni

di Massimo Canevacci

Cotonou, Benin, 2015 – ph Lucia Perrotta

A Sâo Paulo le avanguardie sensibili al rinnovamento estetico e politico si erano definite antropofagiche: l’antropofagia – da stigma selvaggio che gli europei coloni affibbiarono ai nativi – fu rivendicata come un’arte di deglutire l’altro; le stesse culture occidentali potevano essere antropofagizzate: una pratica per incorporare nelle proprie sensibilità fisiologiche o estetiche sapori, simboli e proteine stranieri. Il linguaggio del corpo è anche un divorare corpi o, almeno, codici corporalmente espressi. In antropologia chiamiamo questa analisi meta-comunicazione. Cioè un codice verbale può essere sottolineato, contraddetto, annullato, moltiplicato quando accompagnato da gesti delle mani, espressioni facciali, movimenti del busto ecc. E si sa che “noi” italiani siamo maestri indiscussi globali. Andare oltre (meta) la comunicazione semplice è parte costitutiva del linguaggio metaforico. La crescita individuale si basa sulle capacità di cogliere e comunicare metafore. Il contrario rischia di schiacciare la persona a un livello primario indistinto. Se dico a una ragazza che è bella come un fiore, immagino che lei capisca che non “è” un fiore ma ne incorpora la bellezza profumata. Se non avesse questa capacità meta-comunicativa (che implica seri problemi psicologici), lei potrebbe angosciarsi e sentirsi come un fiore. Questo modello semplificato è molto più diffuso nella comunicazione visuale.

Ad esempio, una madre potrebbe dire al figlio questa frase: “Va’ a dormire, sei stanco e voglio che ti riposi”. La frase però tende a nascondere un diverso sentimento, tipo “Va’ fuori dai piedi, sono stufa di te”. Se il bambino interpretasse correttamente i segnali metacomunicativi, dovrebbe fare i conti col fatto che la madre non desidera averlo vicino e per di più lo sta ingannando dimostrandosi affettuosa. quindi, piuttosto che riconoscere l’inganno materno, tende ad accettare l’idea di essere stanco. Questo significa che, allo scopo di sostenere l’inganno della madre, il bambino deve ingannare se stesso circa il suo stato interno: per continuare a vivere con lei, egli deve discriminare in modo errato i messaggi. Di conseguenza, il bambino non sviluppa capacità di «comunicare sulla comunicazione», per cui diventa incapace di determinare il vero significato di ciò che gli altri dicono e di esprimere ciò che egli stesso intende. In tal modo, un individuo coinvolto in un rapporto intenso di importanza vitale si trova prigioniero, “vincolato” all’altra persona – la madre – che emette nello stesso tempo messaggi di due ordini, uno dei quali nega l’altro.

Qualcosa di affine avvenne sull’antropofagia, il cui rituale a lungo è stato frainteso. Il mangiare l’altro ritualmente era un incorporare i simboli dell’altro. Un prigioniero valoroso, mentre uno vigliacco veniva “salvato”. L’antropofagia non era più una fame “selvaggia” o “rituale” di carne umana: ma un appetito mirato, sensibile e delicato, teso a scegliere le parti corporali (i codici) più saporite per digerire in modo creativo l’altro e non un ingurgitare indifferenziato o indigesto. I sapori, i colori, le parti del corpo imbandite per essere incorporate erano scelte sulla base di strategie culinarie estetico-politiche. Gli antropofagi modernisti diventavano così artisti selettivi che si “scambiavano” sapori e saperi, carni ed estetiche. I valori altrui sono mixati verso mutamenti non invasivi, ma contrattati e incorporati oppure vomitati. L’antropofago non è un “primitivo” che divora qualsiasi pezzo di carne, bensì un interprete costruttivista che sceglie di assumere le parti più vicine alla propria estetica cosmologica. Se si osservano le sfilate di moda, i pubblici nei concerti, le performance di cantanti o attori, persino le opere d’arte, i social network, il design e – ancor più – ciò che si chiama Internet of Things, si può affermare che la visione è anche un deglutire codici, che l’occhio non è innocente ma una bocca divorante tutto. Che il linguaggio del corpo è estremamente visuale specie nelle sue metamorfosi digitali espanse ovunque. Gli oggetti sono corpi: sono soggetti-cose con biografie e biologie. Parlano e ascoltano in connessione all’altro.

Il sincretismo antropofagico non è un eclettismo senza concetto o un pragmatismo senza scrupoli, con buona pace di filosofi puristi o antropologi incontaminati. Al contrario, esso si appassiona per le cose triviali, secondarie, aliene: include sia il replacement che il displacement, e persino il reacting. Nel primo caso, si sostituisce una parzialità familiare con un’altra estranea; nel secondo, si ottiene di disorientare il soggetto dal suo ordine spaziale “normale”. Il soggetto sincretico-fagico risulterà perturbante nella mischia tra familiare e straniero, dove l’etnografia inserisce il suo specifico ambito di ricerca. Nel terzo, un tratto culturale, artistico o performatico è re-agito, transita dal vecchio al nuovo, ri-attualizza il vecchio o il classico e persino il recente, trasfigurandosi in presente sincretico.

Nelle mie ricerche antropologiche nella cultura Bororo in Mato Grosso (Brasile) ho potuto constatare l’importanza fondamentale del linguaggio del corpo, in un contesto ben diverso da una città come Roma. Quando ho partecipato al primo Funeral Bororo, ho scoperto che non solo i corpi ma anche e soprattutto le ossa e il teschio del morto parlavano. Ho visto (e abbracciato) la trasfigurazione del teschio in animale ancestrale e mitico, il cui “corpo” mi parlava delle cosmogonie sacre dei Bororo. Ascoltare le polifonie emesse nei rituali, coi corpi sudati e dipinti di urucum, le maracas sonanti, le persone danzanti, mi ha permesso di capire che il linguaggio delle ossa mi stava parlando con altri codici. Codici che in parte pensavo di capire e forse fraintendevo ma che mi emozionavano trascinandomi dentro un cosmo da cui non sarei più uscito.

Un passo da «La linea di polvere. La cultura bororo tra mutamento e auto-rappresentazione» (2017, Meltemi ed.):

Verso mezzogiorno, sotto un sole cocente, inizia l’esumazione del cadavere. Siamo in pochi a stare vicino al tumulo, un leggero strato di sabbia ricopre il cadavere insieme a foglie di buritì. Mi colloco a pochi metri di distanza da José Carlos Kuguri, il mestre dos cantos, in uno dei momenti forse più drammatici del rito. Tre uomini gli sono vicino e iniziano a tirare via le foglie di buritì ormai anche loro quasi putrefatte come la carne della morta … questa parte del rito sta per cominciare e non c’è quell’odore terribile di cui parla Darcy Ribeiro, il motivo pare che stia nella medicine prese da lei malata che annullano il fetore. Mi avvicino a pochi metri da solo, intorno al tumulo i tre uomini hanno cominciato a prendere le ossa per pulirle con le foglie di buritì, aiutati dal tubo d’acqua che distacca i resti organici. Vedo che il cranio lo prende lui, lui che è sia marito che mestre dos cantos! Lo lava con cura, sembra essere insieme impassibile e tenero in questo atto così estremo di purificazione e trasfigurazione delle ossa e della morte: con lentezza, scuotendo il cranio infiltrato d’acqua, vedo che tira fuori la massa celebrale che esce con difficoltà, rimanendo ancora attaccata. È molle e di colore grigio sporco, mentre lui continua a lavare agitandolo, una operazione più complessa rispetto ad altre ossa, che una volta pulite si “offrono” a un quarto uomo che ha il compito di collocarle con delicatezza nella cesta rituale fatta anch’essa di foglie di buritì.

Tutto si svolge in un silenzio assoluto e torrido, quasi assurdo per un posto in cui si continua a cantare e a suonare. Caldo asfissiante e silenzio … e lui che lava il cranio. Ora lui sembra teso e come “dentro” la cosa che sta compiendo. Vedo che per il cranio vi è un piccolo cesto autonomo, diverso dall’altro più grande per tutte le altre ossa … Quando l’operazione è compiuta e il cranio ormai lucido viene collocato in quella cesta, che lui stesso prende e porta nel baito (la “casa degli uomini”), per adagiarlo proprio sotto il palo-cosmo. Subito dopo comincia un lungo pianto-canto (choro). Lui – marito e mestre – che canta il pianto e che danza con il cranio della moglie, è la cosa più potente che abbia mai visto … Non so se si può parlare di amore, perchè qui c’è la morte: è certo che, cantare per il proprio cranio amato-lavato con cui si è convissuto per 50 anni, è una esperienza estrema, la più radicale che abbia mai visto. Mi sorprendo a farmi domande strane. Sul corpo della mia donna amata. Persino sul mio corpo, corpo come cadavere carezzato e lavato dal mio amore vivo. Penso al cranio come fosse una maracas, che si agita per farne uscire il suono. Il suono come massa cerebrale decomposta che si trasfigura in una invisibile alterità. E ritorna… immagino questo cranio della donna morta lavato dal marito che emette un suono affine alle maracas… forse per questo quando suona una maracas i morti tornano, tutti i morti di tutti i tempi tornano chiamati a danzare per sospendere la morte … i morti contro la morte … la maracas-cranio che piange e ride…

Antropofagie simboliche, rituali funerari, artisti digitali: il linguaggio del corpo assorbe l’organico e l’inorganico, cose e carne, skin e screen: soggetti e oggetti si mescolano e parlano storie infinite coi loro linguaggi polifonici e ubiqui.

 

Massimo Canevacci

Docente di Antropologia Culturale presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione – Università di Roma “La Sapienza”. Come Visiting Professor è stato invitato in diverse università europee, a Tokyo (Giappone), Nanjing (China). Dal 2010, è Professor Visitante in Brasile: Florianôpolis (UFSC), Rio de Janeiro (UERJ), São Paulo (ECA – IEA/USP – IED). Ricerca, didattica e pubblicazioni sono focalizzati su: comunicazione visuale, culture digitali, antropologia urbana, movimenti giovanili, etnografia indigena, antropologia teorica. Per il risultAto di tali attività e per la ricerca su São Paulo, nel 1995 il Presidente da Republica Federal do Brasil lo ha insignito dell’Ordem Nacional do Cruzeiro do Sul. Tra i suoi libri: Fetichismos Visuales (UOC, Barcellona, 2018), Lusophone Hip Hop, (R.Martins & M.Canevacci; Canon Pyon, SKP, 2018), Caccia Funebre (Roma, Aracne, 2018), Antropologia della comunicazione visuale (Milano, Postmedia Books, 2017), La Linea di Polvere (Meltemi, Milano, 2017), Sincretika (Roma, Bonanno, 2015).