Atena nera e il giardino del mondo

di Marco Martinelli

Cotonou, Benin, 2015 – ph Lucia Perrotta

1. Era la fine degli anni Ottanta. Con le Albe avevo appena “inventato” la Romagna africana: vedendo che nelle nostre città cominciavano ad approdare immigrati dall’Africa, avevo scritto Ruh.Romagna più Africa uguale, un testo-favola sulla fine-trasformazione dell’Occidente, che sostanzialmente diceva questo: cari italiani, non crediate che questi giovani che vengono dall’altra parte del mondo siano un caso. Un capriccio momentaneo della Storia. Sono “la” Storia, che ci si rivela così: le nostre società diventeranno sempre più meticce, è un cambiamento epocale quello che sta avvenendo sotto i nostri occhi, come quello che trasformò l’impero romano con l’arrivo dei popoli barbari, ovvero dei popoli nuovi. Non è una questione di polizia, o di pulizia: è una chance culturale enorme, afferriamola per il verso giusto.

2. Così iniziarono le Albe afro-romagnole, lavorando in scena con griots senegalesi, musicisti e attori reclutati letteralmente sulle spiagge della riviera, mentre campavano le famiglie di giù vendendo accendini e giraffe di legno ai turisti. Dopo 30 anni quella “profezia” si sta avverando, e nonostante i muri e i respingimenti e le strumentalizzazioni elettorali delle paure, quella è la direzione della Storia. Ci si rassegni. Si comprenda fino in fondo che non ci sono giardinetti da difendere, ma un unico grande Giardino da coltivare. Insieme. E d’altronde quella italiana è la società più vecchia al mondo, dopo quella giapponese, di cosa stiamo parlando?

3. Torniamo agli anni Ottanta. Mentre proseguivamo nel nostro lavoro di “meticciato teatrale”, mentre ci inventavamo Arlecchini senegalesi e asinelli magici, mi capitò tra le mani il saggio di Martin Bernal, Atena nera, pubblicato in Italia da Pratiche editrice, e fu una conferma luminosa delle nostre intuizioni. Nel suo libro quel singolare studioso, sinologo di formazione e con un nonno egittologo, ci spiegava con dovizia di “prove” e di argomenti, sul piano storico e linguistico, non tanto che il futuro che ci attendeva era meticcio, ma quanto ricco di incroci e influenze fosse il nostro passato, la classicità da cui proveniamo. La cultura greca, quella “bianca” delle bianche statue imparata a scuola, non era “bianca” affatto: quello che noi credevamo autentico era in realtà un modello “ariano”, così lo definisce Bernal, inventato a metà dell’Ottocento da romantici e razzisti, per ripulire la vera origine, ben più sporca, terrigna, impastata, della cultura occidentale, che a guardarci bene si situava in un intreccio di “scambi” tra la cultura egiziana, la più antica, quella fenicia e la cultura greca autoctona. Ed è questo crogiolo di scambi che Bernal definisce il modello “antico”, in contrapposizione a quello “ariano”.

4. E d’altronde, basterebbe prendere sul serio i classici per comprendere, ovvero? Leggerli.

5. Riprendiamo in mano Erodoto, il padre della storiografia classica: specificava che i nomi degli dei, tranne un paio di eccezioni, erano egizi. E tanti dopo di lui, fino all’epoca ellenistica, riconoscevano che la religione greca, olimpica, proveniva dall’Egitto. Rileggiamo Eschilo e le tragedie in profondità, e vedremo che il modello “antico” è fruttuoso: Dioniso è “nero”, come il suo culto. E i contemporanei di Platone si facevano beffe di lui, dicendo che l’allievo di Socrate non era l’inventore della sua repubblica, ma che l’aveva copiata dalle istituzioni egizie. E via di questo passo: gli antichi greci sapevano bene dove erano andati “a scuola”, ma i loro eredi ottocenteschi hanno ritenuto vergognoso discendere da maestri africani, e hanno cancellato il senso vero, meticcio, di quelle origini. L’antica nozione che la Grecia fosse il frutto di una cultura mista e che fosse stata civilizzata da Semiti e Africani divenne non solo abominevole, agli occhi di chi in quei decenni colonizzava con le armi e la violenza il continente africano, ma anche antiscientifica. In nome dello scientismo nordico ottocentesco si tolse colore alla verità storica. Le bianche statue dell’Acropoli non erano bianche, al tempo di Fidia: erano colorate di colori accesi. Erano statue di colore. Come i totem africani.

6. Lo scopo politico -dichiarato – di Bernal era “inutile dirlo, sminuire l’arroganza politica europea”. Curioso, ma non più di tanto, rileggerlo oggi, quando questa “arroganza” dà il peggio di sé, innalzando muri e inventandosi cristianesimi fasulli, all’insegna della chiusura etnica e di un pericoloso senso di “crociata”. Il vero cristianesimo è quello che, come insegnava Ernst Bloch, mantiene vivo “der rote Faden”, il “filo rosso” della rivolta e della solidarietà tra tutti gli esseri umani. Il vero cristianesimo è quello di Papa Francesco, il papa venuto dai “confini del mondo”, che anziché rimandare i migranti attacca la tirannia della finanza internazionale, di una “economia che uccide”.

7. E per finire: sto lavorando a Nairobi, nello slum di Kibera, con 200 bambini e adolescenti attorno alla Divina Commedia. E’ commovente vedere come l’archetipo di quel viaggio spirituale, che ha le radici nella cultura italiana e europea di sette secoli fa, parli in maniera semplice e profonda a questi ragazzini che non hanno mai visto un teatro in vita loro. Vederli creare e improvvisare, usando tutte le ricchezze della loro tradizione, danza e canto, mi provoca una grande allegria. E’, credo, quello che avevano immaginato Pasolini e Elsa Morante e Don Milani, quando avvertivano, già negli anni Sessanta del secolo scorso, la grettezza dell’orizzonte capitalistico e l’omologazione, e il bisogno di un superamento. E’ il segno, l’ennesima conferma di quel che sognavamo già trent’anni fa: occorre una visione ampia, politica in senso ampio. Occorre liberarsi da una mentalità da condominio, che purtroppo i social media tendono a far prosperare, a nutrire come una mala pianta. La polis è il mondo, non il condominio, e neanche la nazione-condominio. Occorre una cultura capace di far dialogare le culture, svelandone le differenze sacrosante e i sacrosanti punti comuni. Occorre andare oltre le rigidità del politically correct senza sprofondare nelle chiacchiere da bar e da facebook, che sembrano diventati i nuovi templi del vero, la frontiera dei luoghi comuni più idioti. Occorre il coraggio di dimostrare le banalità razziste di ritorno, e la loro infondatezza, e non servendosi di slogan buonisti e inservibili, ma utilizzando una visione che sia frutto di approfondimento storico, di studio, di faticosa gioia: in questo orizzonte l’opera di Martin Bernal si dimostra quanto mai efficace. Da rileggere.

 

Marco Martinelli

Fondatore, drammaturgo e regista del Teatro delle Albe, compagnia attiva dal 1983 sul piano nazionale e internazionale. Martinelli ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti: il Premio Ubu (l’Oscar del teatro italiano), ottenuto 4 volte (nel 1996, 1997, 2007 e 2013); il “Golden Laurel” (2003) del Festival internazionale Mess di Sarajevo; il “Premio alla carriera” (2009) del festival internazionale tunisino Journées théâtrales de Carthage. E’ del 2015 il Premio Enriquez-sezione Registi di impegno sociale e civile “per la splendida regia dello spettacolo Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi”.

I testi di Martinelli sono pubblicati in Italia da Ubulibri, Editoria&spettacolo, Luca Sossella Editore, e sono stati tradotti, pubblicati e messi in scena in Francia, Belgio, Germania, Romania e negli Stati Uniti.
Nel 2016 Ponte alle Grazie ha pubblicato il suo Aristofane a Scampia-come far amare i classici agli adolescenti con la non-scuola.
Sempre nel 2017 insieme a Ermanna Montanari firma l’ideazione, la direzione artistica e la regia di INFERNO Chiamata pubblica per la “Divina Commedia” di Dante Alighieri, prodotto da Ravenna Festival in coproduzione con Teatro delle Albe/Ravenna Teatro, spettacolo per il quale ricevono il Lauro Dantesco ad honorem 2017, conferito dal Centro Relazioni Culturali del Comune di Ravenna, e il Premio Ubu 2017 per il “miglior progetto curatoriale”.
INFERNO costituisce la prima anta del progetto LA DIVINA COMMEDIA 2017-2021.
Marco Martinelli è fondatore della non-scuola del Teatro delle Albe, pratica teatrale-pedagogica con gli adolescenti che è diventata punto di osservazione per molti studiosi, che le Albe hanno portato in tutta Italia e nel mondo da Napoli-Scampia a Dakar (Senegal), Rio De Janeiro (Brasile), Mons (Belgio) e New York (U.S.A.)