Fare teatro fisico da fermi

di Enrico Castellani

ph Nicola Tanzini

La provocazione arrivataci da Roberto Castello di provare a riflettere e a scrivere quale sia la nostra relazione con il linguaggio non verbale ci stimola a mettere insieme quelli che ci appaiono come i pezzi di un mosaico.
Ogni giorno che passa ci è sempre più chiaro che il corpo sta al centro di qualsiasi tipo di comunicazione. In qualunque ambito ci troviamo ad operare. Dentro e fuori dal teatro.
Nel nostro teatro i corpi sono sempre stati e sono tutt’ora un elemento fondante. A prescindere dal fatto che chi è sulla scena parli o meno. Qualcuno ha coniato per restituire la nostra modalità di abitare la scena l’espressione “teatro fisico da fermi”. Questo perché nel momento in cui parliamo sul palco i nostri corpi sono in uno stato di tensione che è significante tanto quanto le parole che pronunciamo. I nostri corpi si propongono frontali al pubblico e gli parlano direttamente. Quando dalle nostre bocche escono parole i corpi sono congelati, ma non sono assenti. Danno vita ad immagini, ad icone che sostengono o contraddicono le parole che pronunciamo, ma nell’uno e nell’altro caso, sono essenziali per veicolare emozioni e pensieri che vogliamo comunicare. In Pornobboy siamo immobili sulla scena per 40 minuti. Parliamo ininterrottamente all’unisono senza mai fermarci, ma fisicamente è il nostro spettacolo più faticoso. Senza quella fissità le parole avrebbero perso di forza. Attraverso quella fissità è come se urlassimo silenziosamente la nostra determinazione ad esserci, a non retrocedere, a prendere posizione rispetto alla violenza delle parole che pronunciamo. I nostri corpi si fanno baluardi e bandiere, si fanno avamposto e puntello.
Altrettanto significanti sono i corpi in sé che danno vita alle nostre creazioni. Sia quando siamo noi direttamente ad abitare la scena, sia quando sono altri. Questo perché chiediamo sempre a chi abita la scena di portare sul palco sé stesso. Senza dover celare, nascondere o mascherare il proprio corpo. Questa la ragione per cui spesso i corpi sulla scena sono nudi o seminudi. Nel mostrarsi rivendicano un posto non solo sul palco, ma un posto nel mondo. Questo vale sia per le persone con cui abbiamo lavorato e che attori non sono, sia per gli attori. Vale per Paolo, Luigi e Riccardo con cui abbiamo creato Pinocchio e che hanno vissuto l’esperienza del coma e che sul corpo ne portano i segni. Vale per Chiara che è affetta da osteogenesi imperfetta. Per Carlo e per Daniele affetti da Trisomia 21. Per Amer, Josephine e Joyce che vivono in una comunità per minori in affido. Per Beauty che abbiamo conosciuto all’interno del carcere di Verona. Per loro e per tutti gli altri che abbiamo incontrato e con cui abbiamo lavorato in questi anni. Tutti nel mostrarsi dichiarano la loro autenticità. Fanno un patto implicito col pubblico: un patto di lealtà e di condivisione. E’ come se dichiarassero che quello che andranno a raccontare e a rappresentare appartiene e attraversa quei corpi e che quei corpi ne sono gli unici testimoni: in quanto tali non possono mentire. Non possono essere altro se non quello che sono. Con tutte le loro bellezze e le loro sporcizie. Questi corpi sono spesso imperfetti e segnati da vissuti che ne hanno mutato l’aspetto o l’essenza.
Corpi che, in quanto tali, sono già in grado di raccontare delle storie e di creare dei cortocircuiti di senso. Ci sono corpi che vengono identificati con lo stigma che portano. Noi generalmente li mostriamo e li mettiamo a nudo per provare ad andare oltre lo stigma. Per ricordarci che non possiamo prescindere dai segni che ci portiamo addosso, ma che ridurre tutto a quei segni spesse volte è riduttivo. Credo ci sia un solo modo per poter fare questo. Non tanto predicare a parole che non dobbiamo fermarci allo stigma, ma interagire con quei corpi con un tipo di libertà che sia in grado di essere modello ed esempio. Con un tipo di libertà che possa essere contagiosa. Con un tipo di libertà che sia in grado davvero di condurci oltre lo stigma.
Il corpo è l’esempio: il suo agire, il suo fare, il suo essere. Il suo modo di stare e di comportarsi, di interagire e di accogliere.
Vedo ogni giorno quanto sia inutile e spesso controproducente predicare a parole ai miei figli cosa sia bene fare e cosa non sia bene fare. Come comportarsi.
Le parole non servono a nulla. L’unico esempio che vale è il mio comportamento. E’ quello che faccio. Come lo faccio.
Non serve a niente chiedere di non urlare se sono io il primo ad utilizzare un volume esagerato.
E inutile chiedere di sistemare dopo aver giocato se la casa è invasa da libri, fogli e vestiti. E’ inutile raccomandarsi di non essere aggressivi se poi scatto ogni istante. Chiedere di essere calmi utilizzando un atteggiamento che calmo decisamente non è. E’ inutile chiedere di fare giochi più intelligenti che fingere di rispondere al cellulare se io lo faccio a qualsiasi ora del giorno.
E’ la stessa differenza che passa tra un attore che fa finta di aprire una porta e un attore che apre una porta. Tra un attore che fa finta di chiamare un compagno sulla scena e un attore che lo chiama.
In entrambi i casi, il mio coi miei figli e l’attore sulla scena, è la verità del corpo a parlare. E’ l’autenticità che mi permette di essere credibile o meno. Mentre la finzione sulla scena e la regola proposta a parole, ma contraddetta nei fatti, sono entrambe mendaci e fallimentari.
Ora se il corpo mi insegna la necessità di essere autentico sulla scena e nella relazione coi miei figli, l’ultimo anello riguarda la relazione diretta tra me e il mio corpo. E’ in questa relazione che avverto in modo determinante l’inutilità della parola, del proposito, di una comunicazione mediata.
Il corpo mi parla in modo chiaro e quando fingo di non sentire, di non vedere, di non capire lui mi aspetta al varco con grandissima pazienza e infinita determinazione. Non mi lascia via di scampo. Posso girarmi dall’altra parte o correre all’impazzata per provare a fuggire o per rimandare la resa dei conti, ma lui è sempre lì, appostato dietro l’anglo che mi aspetta e che mi ricorda chi sono, cosa sto facendo, come sto. Non fa mai sconti. Non chiede scusa e non chiude mai un occhio. Non dice una parola ma si fa sempre capire benissimo.
Se dopo un debutto mi ammalo, se prima di un appuntamento ho mal di stomaco e subito dopo insorge il mal di testa, se dopo aver litigato vomito non credo siano semplici casualità. Se dopo una prova sto bene, se dopo aver ballato sono leggero, se dopo un mese di quiete respiro non credo siano semplici casualità. Spesso preferisco crederlo. Non collegare gli avvenimenti. Andare avanti dritto facendo finta di niente, ma se mi fermo e provo a ragionare su cause ed effetti non posso non riconoscere che il mio corpo mi sta dicendo delle cose ben precise. Non si tratta di essere stregoni, ma di avere consapevolezza che il proprio corpo parla chiaro, che noi si voglia ascoltarlo o meno. A volte arriva a gridare, di gioia o di disperazione, e lo fa attraverso una gamma infinita di possibilità, che noi tentiamo di catalogare, attraverso termini più o meno scientifici che ci rassicurano e tranquillizzano. Resta il fatto che al nostro corpo non interessa conoscere come noi cataloghiamo le sue urla, il suo linguaggio non verbale non ha bisogno di cataloghi, ma di orecchie che abbiano voglia di entrare in relazione con lui senza passare dalle parole.

Enrico Castellani

Enrico Castellani dirige con Valeria Raimondi, fondatori della compagnia nel 2006, sono i Direttori artistici di Babilonia Teatri.Drammaturgo, autore, registi e attore, Castellani ha base a Verona.Castellani dirige la compagnia dalla sua nascita, occupandosi dell’ideazione, della scrittura, della messa in scena, della regia e in molti casi dell’interpretazione dei lavori del gruppo.Nel corso degli anni numerosi sono stati i riconoscimenti ricevuti per il lavoro portato avanti con Babilonia Teatri, tra cui il Premio Scenario 2007, il premio Speciale Ubu 2009, il primo Premio Off del Teatro Stabile del Veneto nel 2010, il premio Ubu 2011 come migliore novità italiana per The end, il premio Hystrio 2012 alla drammaturgia, il premio Franco Enriquez 2012 per l’impegno civile, il Premio Associazione Nazionale dei Critici di Teatro 2013, il Leone d’argento per l’innovazione teatrale alla Biennale di Venezia 2016.Enrico Castellani è nato a Verona il 09/01/1977. È laureato in Scienze Giuridiche presso l’Università di Verona con tesi sulla legge in Shakespeare. Ha una formazione teatrale non accademica che si sostanzia di stage e laboratori con importanti nomi del teatro odierno.Babilonia Teatri è tra le compagnie più innovative del panorama teatrale contemporaneo. Si è imposta sulla scena italiana per il suo sguardo irriverente e divergente sull’oggi. Il suo stile fuori dagli schemi intende il teatro come specchio della società e della realtà. Attraverso l’uso intelligente di nuovi codici visuali e linguistici muove la necessità e l’urgenza dell’interrogazione, per far emergere conflitti e tensioni, con ironia e cinismo, affetto e indignazione.Castellani e Raimondi nel 2016 stanno lavorando a Pedigree e Paradiso, un progetto di Babilonia Teatri e Zerofavole.