Quando il corpo uccise la borghesia
di Angiolo Bandinelli
Nel 1962, il Partito Radicale, fondato nel 1955 da una confluenza di liberali, democratici, ex azonisti e socialisti di varia estrazione, collassava. La sua classe dirigente si sparpagliò in altre formazioni, il nome e la sede ricaddero sulle spalle di un gruppetto di giovani per lo più trentenni, la “Sinistra radicale”, guidato da Marco Pannella. Da liberale-borghese, fautore di una “terza forza” laica capace di spezzare il duopolio cattolico-comunista allora imperante, il Partito Radicale divenne in breve un movimento che potremmo chiamare – precorrendo definizioni che si attestarono qualche tempo dopo – trasversale; si rafforzava l’aspetto “comunitario”, che trovava la sua ispirazione nelle dinamiche del socialismo premarxiano e dell’associazionismo popolare ed operaio fine Ottocento e primo Novecento; si creavano logiche e comportamenti conviviali e comunitari.
Sempre più, ormai, nella vita quotidiana si dissolveva il chiuso riserbo con il quale la civiltà borghese circondava e nascondeva il corpo, e che ancora la mia generazione aveva introiettato come obbligato comportamento morale e sociale (io vestivo con giacca, cravatta e panciotto). Alla metà degli anni ’60 arrivò a Roma la compagnia del Living Theater debuttando al Teatro Eliseo. La compagnia si era già resa nota per lo sperimentalismo formale con il quale traduceva scenicamente contenuti via via sempre più di forte impatto sociale e politico. Partecipe attiva dei movimenti contro la guerra del Vietnam (forse cantando in coro, assieme a Joan Baez, We shall overcome) la compagnia venne boicottata, processata e condannata ad ammende. Imbevuta e partecipe delle idee e teorie (“subculture?”) nate tra i movimenti alternativi dei Campus universitari americani e i “figli dei fiori” (o “hippies”), poneva il corpo – non più la parola – al centro dell’azione teatrale. Recitando in collettivo, quasi nudi e quasi muti, gli attori davano vita a coreografie che erano insieme pantomima, danza, rito orgiastico – forse, già allora, “performances”- con figurazioni e passi stilizzati, arcaici, sensuali e insieme di straordinaria purezza, di un espressionismo potente – un giornale poteva definire il Living Theatre come portatore della “più importante rivoluzione culturale libertaria che il palcoscenico abbia vissuto”. E’ vero, ma non basta: quella rivoluzione libertaria non solo fiorì sul palcoscenico, ma, dilagò per il mondo. A noi, giovani (radicali) impegnati a costruire un qualche cosa in politica ma sempre in giacca e cravatta, questa nuova cultura e teoria del corpo poneva interrogativi sconosciuti, spesso anche drammatici. Era una concezione del corpo non “materiale” o materialista, come – semmai – nella tradizione europea, ma pragmatica e strumentale: come se il corpo venisse per la prima volta scoperto nella sua valenza sociale, anche se non sotto l’aspetto specifico e ristretto dello strumento di lavoro, come nel marxismo. Per Marx il corpo, a partire da quello dell’operaio, aveva valore – proprio, valore economico – in quanto fondamentale “attrezzo”, riconosciuto e nobilitato quale vero creatore – lui, lo sfruttato, non il capitale – della ricchezza dei popoli: nelle raffigurazioni propagandistiche del primo socialismo dominava il corpo del lavoratore, quello del fabbro che nulla fucina forgia il vomere dell’aratro. Per questa sua funzione, del corpo venivano messe in risalto le braccia, un fascio di muscoli forti e duttili, vero motore del progresso: le braccia incrociate dello scioperante erano segnale inequivocabile del punto di massima altezza della lotta di classe. Questo nuovo corpo “rivisto” e nuovamente ma diversamente politicizzato liquidava peraltro anche l’esperienza liberale classica, di stampo borghese, proprio mentre ne assumeva gli obiettivi se non addirittura le finalità ultime (basti pesare a Benedetto Croce e alla sua “religione della libertà”). E proprio in quella direzione il Partito Radicale, pur nella continuità giuridica con quello di Mario Pannunzio e di Ernesto Rossi, stava mutando – e aggiornando – i suoi connotati. All’anticlericalismo coerente, all’antimilitarismo non pacifista, si affiancavano i rapporti con i movimenti di liberazione americani, i “diritti civili”, i “diritti umani”, l’obiezione di coscienza, la scoperta delle droghe, l’autogestione del corpo, delineando impasti ideali e politici nuovi, che utilizzavano nuovi metodi di lotta, l’“azione diretta” e i “sit-in”, i cartelli-sandwich autodipinti, la stampa ciclostilata, i digiuni, non di “protesta” ma di “dialogo” con il potere e le istituzioni. Durante i sit-in la polizia non ci picchiava, ma ci spintonava e ci trascinava via, con qualche rudezza eccessiva: era comunque il corpo a farla da protagonista. Un po’ più tardi (credo) Umberto Eco avrebbe teorizzato la forza del linguaggio segnico rispetto a quello verbale.
Alla elaborazione teorica si affiancava la manualità. Sperimentavamo nuovi metodi, molto artigianali ma efficaci, di comunicazione, a partire dai ciclostilati e dai cartelli-sandwich, molto usati in Inghilterra o in America, ma sconosciuti in Italia e disprezzati dai partiti di massa, abituati a manifestazioni che riempivano le piazze. nel 1967 il partito organizzò la prima marcia antimilitarista sul percorso Milano-Vicenza (una tappa era Peschiera, sede di un malfamato carcere militare). La marcia fu uno dei momenti in cui la politica del corpo si manifestò al meglio.
Partendo da Milano, facevamo a piedi una ventina di chilometri al giorno. Durante il cammino, rigorosamente in fila indiana, uno per uno, distribuivamo volantini che spiegavano le ragioni dell’iniziativa, all’epoca inusuale, ritagliata semmai sulla famosa “Marcia di Selma” (1965) con la quale gli afroamericani avevano dato il via al movimento di liberazione dei neri. Anche la marcia era un modo con cui il corpo comunicava: i volantini – si raccomandava Pannella – dovevano essere distribuiti uno alla volta, non sparsi al vento; magari, mentre li consegnavamo, avremmo potuto scambiare con il ricevente qualche battuta di spiegazione.. Straordinariamente, noi radicali per lo più ancora borghesi anche se ormai senza più giacca e cravatta, ci mescolavamo con persone di ogni ceto, che si univano, per qualche tratto, ai marciatori. E qui ci imbattemmo, anche se non proprio per la prima volta, nei “capelloni”, ragazzi che si staccavano dalla famiglia, per lo più di modeste condizioni sociali, per iniziare un loro autonomo percorso di vita, antagonista con famiglia e società; e che, per esprimere questo loro (confuso) dissenso, si lasciavano crescere i capelli sulle spalle. Tra questi “freak” si veniva diffondendo l’uso di marijuhana, di canapa indiana e di LSD, l’acido lisergico in voga tra i movimenti di liberazione (del corpo, ovviamente) americani e non solo. In Italia, di quella roba, pochissimi sapevano qualcosa. Pannella cominciò ad interessarsene, durante le tappe andava a dormire assieme a loro nei sacchi a pelo. Credo che non abbia mai fumato, in vita sua, una “canna”, ma divenne presto un esperto, delineando cosi la nostra linea antiproibizionista sulle droghe non solo: leggi che proibissero di proibire, che consentissero invece a ciascuno non solo di lavorare, ma di farsi la sua vita, di pensare, amare, credere secondo le sue personali inclinazioni. Cercavamo di definire una politica “totale”, che abbracciasse l’uomo e la donna nella loro totalità esistenziale, in primo luogo corporea.
Angiolo Bandinelli
Angiolo Bandinelli è nato a Chianciano nel 1927, vive a Roma.
Negli anni ‘50-60, ha scritto articoli (una cinquantina) per il Mondo di Mario Pannunzio, per la Voce Repubblicana, Nord e Sud, ecc... È tra i primi iscritti al Partito Radicale, di cui è stato segretario politico nel 1969, nel 1971 e nel 1972 e deputato nella X legislatura. Ha redatto e/o diretto agenzie, fogli, giornali, riviste di area, è stato consigliere comunale a Roma alla fine degli anni ’70. Ha prodotto, tra gli altri saggi, Il radicale impunito (Diritti civili, Nonviolenza, Europa), uscito per Stampa Alternativa nel 1990. Ha curato una raccolta di testi, interventi giornalistici, ecc., di Pier Paolo Pasolini (Siamo pazzi di libertà, 1963-1965), sui rapporti dello scrittore con i radicali di Marco Pannella.
Si occupa anche, intensamente, di letteratura e di arte: ha tradotto The Waste Land di T. S. Eliot, The Tower di W.B. Yeats (inedito), versi di Coleridge, Stevenson, Auden, Yeats, Simic, John Ashbery, come anche di B. Péret, V. Hugo, Baudelaire, Jammes, Mallarmé, raccolte poetiche e narrative.