La lunga marcia delle suffragettes

di Andrea Porcheddu

Molto prima che Marina Abramovic facesse la muraglia cinese a piedi o si mettesse nuda a mo’ di stipite in una porta con Ulay, prima che Orlan iniziasse a mutarsi in cyborg e molto prima ancora che le Femen intervenissero a seno nudo in piazza per rivendicare giuste libertà, certe eleganti signore edwardiane creavano una innovativa performance in cui il personale diventava dichiaratamente politico, il politico performativo e il performativo pubblico.

Agli albori del secolo scorso, vedere la signora Emmeline Pankhurst ammanettata e portata via dalla polizia, fece capire che la comunicazione “non- verbale” (e politica) aveva sicuramente senso. E forse, vien da dire, che quella comunicazione l’hanno inventata loro: le suffragettes inglesi. Ma non solo. Probabilmente – sostiene la studiosa Leslie Hill – le suffragettes hanno inventato anche la performance art.

Tra le suffragettes, le più attive, visibili e influenti erano, come è noto, le attrici. L’ideale Vittoriano della nobile vita domestica si sviluppava, ricorda ancora Hill in un bel saggio di qualche anno fa,  «attorno al concetto delle sfere separate per i due sessi: il mondo dell’uomo era il mondo pubblico del commercio e della finanza, mente la donna apparteneva alla sfera domestica, il mondo della tranquilla bellezza e della giusta morale dove allevare la famiglia e i futuri cittadini del Regno».

Le attrici sono sempre state – e per fortuna spesso sono ancora – fuori dagli schemi e quando le suffregettes decisero di scendere in strada, le attrici erano già le “diverse”, le solite “alternative”, e soprattutto erano finanziariamente autosufficienti, abituate ad esibirsi in pubblico e a parlare con la stampa: erano la scelta più ovvia e naturale per diventare leader del movimento. Eppure non si limitarono a fare teatro femminista. «Con la sola eccezione del successo in tre atti di Elizabeth Robin Votes for Women!, il teatro delle suffragettes – continua Hill – era in genere low-budget, corto e assemblato in fretta nel tempo libero, rivolto ad un pubblico vicino alle istanze femministe».

Simili eventi, insomma, erano comunque troppo piccoli per creare un impatto reale sulla società. La questione del suffragio femminile era stata sottoposta al Parlamento già da John Stuart Mill sin dal 1867 ma era rimasta ferma per oltre cinquant’anni. Servivano allora gesti eclatanti, azioni che parlassero in altro modo: non bastava il teatro comico-politico, non bastavano gli spettacolini impegnati delle attrici schierate. Fu così che gli spettacoli diventarono marce, striscioni, azioni. Diventarono corpi che parlavano oltre le parole.

La prima marcia fu la notissima “Mud March” (Marcia del Fango) del 9 febbraio 1907 in cui 3000 donne camminarono da Hyde Park Corner fino all’assemblea di Exeter Hall sotto una pioggia torrenziale. La marcia suscitò reazioni scomposte e una grande eco mediatica: le suffragettes entrarono nella coscienza pubblica, furono un movimento politico riconosciuto (e temuto). Il primo Ministro dichiarò che non poteva credere che tante donne volessero veramente il voto, ma la WSPU (the Women’s Social and Political Union) decise di replicare, per smentirlo sonoramente. Fu  la Domenica delle Donne, il 21 giugno 1908: migliaia di donne di ogni età e classe sociale. «La signora Pankjurst – ricorda Hill nel suo saggio – dichiarò che la Domenica delle Donne era la riunione politica più grande della storia inglese». Il Times stimò che la partecipazione sfiorava quasi un milione di persone aggiungendo che «è impossibile ricordare un evento di simile portata». Il 17 giugno 1911, poi, quarantamila donne marciarono di nuovo in una processione straordinaria e teatrale: un fiume di donne, con striscioni ricamati, fiori e costumi tradizionali e storici (era presente anche una Giovanna d’Arco) a ricordare l’intera storia della donna oppressa. La parata fu subito ricordata come la “Processione dell’Incoronazione della Donna” perché in grandezza e meraviglia riusciva a competere con la ben nota Processione dell’Incoronazione del Re.

Il governo fece finta di nulla: rifiutò la proposta di riforma del 1912 dando vita ad una nuova ondata di proteste, decisamente più violente. Attaccarono chiaramente “l’uomo bianco medioborghese” dove poteva fare male: invasero le piste da golf, distrussero i padiglioni del cricket, le sale da tè, ruppero le vetrine dei pub e occuparono le tenute da caccia dei signori.

La storia ha dato loro ragione. Quando i corpi rivendicarono la loro libertà, scesero in piazza, imposero l’evidenza della loro presenza per imporre altri modi di guardare, ascoltare, parlare.

Il saggio cui si fa riferimento è Leslie Hill, Suffragettes invented performance art, in: Lizbeth Goodman e Jane de Gay (a cura di), “The Routledge Reader in Politics and Performance”, pp 150 e sgg, Routledge, London, 2000.


———————————
Il saggio cui si fa riferimento è Leslie Hill, Suffragettes invented performance art, in: Lizbeth Goodman e Jane de Gay (a cura di), “The Routledge Reader in Politics and Performance”, pp 150 e sgg, Routledge, London, 2000

Andrea Porcheddu

Porcheddu

Critico teatrale e studioso, va a teatro dal 1988, più o meno ogni sera. Ha raccontato quel che pensava su diverse testate nazionali, online, cartacee, radio e tv. Attualmente collabora con glistatigenerali.com e con Radio3Rai. Nel frattempo tiene corsi all’Università (all’Università di Roma “La Sapienza”) e laboratori di critica, come quelli fatti per lungo tempo alla Biennale Teatro di Venezia. Si è dedicato alle teorie critiche applicate alla scena italiana con Questo fantasma, il critico a teatro (Titivillus editore) e cura la collana “Guide Teatrali” di Cue Press. Ha da poco pubblicato il libro Che c’è da guardare? La critica di fronte al teatro sociale d’arte (Cue Press, 2017).