CORPI AL SOLE – Anatomia patologia simbologia
di Andrea Porcheddu
Qualcuno forse lo ricorderà: Corpi al sole è il titolo di un celebre romanzo di Agatha Christie, diventato film con un indimenticabile Peter Ustinov nei panni dell’investigatore belga Hercule Poirot. Lui, snob e sociopatico quanto basta, osservando dall’alto i corpi dei bagnanti sdraiati in spiaggia, dice, più o meno, «sono tanto simili a dei cadaveri».
Ebbene, si può essere d’accordo o meno con il detective belga, ma il corpo è il protagonista assoluto dell’estate: corpi esibiti, corpi sudati, corpi che si muovono in mare o, per l’appunto, stanno sdraiati in spiaggia.
E in questo luglio abbiamo voluto seguire quel ragionamento: perché il corpo, i corpi, raccontano, sono narrazioni in sé, oggi più che mai.
Velati o svelati, i corpi sono ormai il segno per eccellenza di comunicazioni di vario genere: commerciali, politiche, culturali, identitarie. Dalle modelle seminude esibite per vendere al pari di categorie merceologiche, alle divise di ordinanza che unificano e contraddistinguono. L’abito, spesso e volentieri, fa il monaco: ci sono i bomber neri e lucidi come i crani di CasaPound, oppure le treccione rasta con cane al seguito dei punkabbestia. Anche l’alternativo, ormai, è omologato.
E se nei mitici anni Ottanta sotto il vestito non c’era niente, adesso ci sono, spesso se non sempre, i tatuaggi. Questo Mondiale di calcio passerà alla storia non tanto e non solo per le eliminazioni delle squadre blasonate, quanto per essere stata la kermesse sportiva più “tatuata” della storia. Il calciatore ha quasi l’obbligo del tatuaggio: il corpo statuario del terzino o della centroavanti sono il terreno della libera creatività nell’arte del tatuaggio. Forse solo il basket NBA ha un simile livello di incisioni, disegni, iscrizioni sulla pelle sportiva. Vorrà dire qualcosa? Se il calciatore è l’idolo in cui identificarsi, l’eroe popolare e invidiato, il ricco capriccioso che si schianta sulla Lamborghini, il fantasista eccellente che si fa anche testimonial pubblicitario, allora i tatuaggioni sul collo o sul bicipite diventano emblematici, mitologia, segni identificativi al pari del numero sulla casacca.
Così, arrivata l’estate, nelle nostre spiagge, vuoi per imitazione o per semplice fantasia, il tatuaggio è diventato il codice interclasse, il messaggio cifrato ma ri-conosciuto e compreso: è il segno tribale d’appartenenza. Braccia e gambe colorate e scure, colli e nuche istoriate invadono i bagnasciuga nazionali, mentre altrove c’è chi tende, invece, a scolorire, a sbiancare: a Dakar, ad esempio, la pratica dello sbiancamento della pelle è un fenomeno preoccupante.
Ci sono collegamenti tra queste due tendenze opposte? Sono simboli, atteggiamenti, mode identitarie? Viene da chiedersi se queste tribù d’oggi siano ancora quelle “tragiche” evocate da Michel Maffessoli anni addietro, oppure siano ormai delle “bolle”, le cosiddette filter bubble, su cui si basano i social. Viviamo in bolle in cui la realtà che ci circonda è appositamente preparata per farci sentire parte di un gruppo, di una piccola o grande comunità. Siamo circondati da persone che ci somigliano, che la pensano come noi, selezionate per noi grazie ai nostri click. Buffo, no? Siamo sempre d’accordo, o almeno così ci pare, intrappolati dai nostri stessi gusti, dai nostri stessi segni.
Il mondo perfetto, e senza via d’uscita.
“La televisione ha ucciso la realtà?” si chiedeva oltre vent’anni fa Jean Baudrillard: se quel delitto era già, per il filosofo francese, un delitto “perfetto”, oggi la vittima non è più il “reale” – che per Byun-Chul Han è ormai definitivamente scomparso – quanto noi stessi, il nostro essere al mondo. Siamo scomparsi dietro gli schermi dei nostri laptop o dei nostri smartphone?
Dunque ci aggrappiamo al corpo, ai corpi, come ultimo baluardo di resistenza, di verità, di rivolta. Ecco che l’eco di quell’ammasso di organi e sangue, di pelle e peli, è il soggetto e l’oggetto, il panorama di riferimento per ogni considerazione futura. Tra immagine e realtà, tra corpo e paese, inseguendo Jean Luc Nancy, arriviamo a declinare la sfrontata vitalità e presenza corporea in territori inattesi.
Corpi pornografici, corpi travestiti, corpi disegnati come quelli creati dal genio di Pazienza, che ci piace ricordare qui, a trenta anni dalla scomparsa.
Ma dei corpi si tratta di parlare anche quando sono messi in mostra come freaks, come attrazioni o meraviglie da circo: pratica in passato inquietante eppure spettacolare, deriva discutibile sospesa tra mistero e orrore, tra fascinazione e lirica, struggente, dolcissima violenza. È l’evidenza delle differenze, che va oltre il terreno di incontro, diventando metafora e monito delle possibilità infinite di un’umanità futura.
Dialettica, discorso, democrazia: sono le chiavi per leggere il teatro e la realtà dalla tragedia greca ad oggi. E con queste chiavi possono ritrovare motivi di senso anche pratiche di comunicazione, che vorremmo tornasse ad essere “vera”, dunque diretta, immediata: occhi negli occhi, labbra nelle labbra, senza “bolle” a decretare in quale categoria, in quale palinsesto siamo, o potremmo entrare.
A seguire le mille orme di corpi in cammino potremmo anche scrivere una storia del teatro, e ovvio della danza del Novecento.
Antonin Artaud evocava il corpo liberato dagli organi, che possa finalmente «danzare alla rovescia». Quante suggestioni, quanti fraintendimenti – tutti artistici, per carità – della lezione artaudiana? E quanti epigoni, a investigare una “crudeltà” tutta da verificare?
Di fatto, per troppo tempo, quella vèrve violenta e rivoluzionaria ha coinciso con la nudità. Il sesso, l’eterno tabù di società bigotte come la nostra, trovava in scena una sublimazione accettabile. E la nudità era, ed è, quella frontiera, morbosetta e affascinante, da svelare in scena come punto di non ritorno. Sul nudo a teatro molto è stato scritto e detto. Dal seno svelato di Paola Borboni nel 1925 a quello d’avanguardia di Manuela Kusterman nel 1972, dalle “mitiche” performance del gruppo di Richard Schechner al Paradise Now del Living Theatre, fino all’eclatante Bestie di Scena di Emma Dante, il nudo a teatro è diventato nel tempo un costume come un altro. Nessuno sembra farci più caso, anzi, a volte annoia.
Spesso è soluzione “facile”, retorica, ammiccante, addirittura ricattatoria: il mettersi a nudo, da azione reale e concreta, si ammanta di valenze pseudo-simboliche, quasi a dire che in quello spogliarsi il performer raggiungerebbe una verità assoluta, estrema, indiscutibile. Sappiamo che così non è (altrimenti che dovremmo dire di Moana Pozzi?), e che spesso la via del nudo è pasticciata e goffa soluzione da “teatro di ricerca” che poco e nulla sposta nella ricezione dello spettacolo. Eppure, ancora in questi decenni bui c’è chi grida allo scandalo e ci sono festival, pure famosi, di cui si parla solo per la “pruderie” di una qualche nudità maschile, di qualche performance che scuote i nervi della destra di governo.
Già, perché del corpo, è noto, si fa gran uso politico: a destra come a sinistra. Su questo giornale si è già parlato delle battaglie legate alla liberazione, è il caso di dirlo, del corpo della donna: le Femen sono solo un recente esempio di una rivolta tutta femminile che attraversa i secoli.
I corpi, insomma, parlano, denunciano, testimoniano. Corpi al sole, si diceva: ma in questa estate che già fa intravedere la chiusura degli anni Venti del nuovo secolo, i corpi in mare non sono solo quelli dei bagnanti. Sono corpi morti, galleggianti nel Mediterraneo divenuto tomba comune, sono corpi che si arenano sulle spiagge delle vacanze, vite che si spengono sognando, nel sogno di un riscatto esistenziale. Il teatro si è fatto e si fa volentieri testimone di quelle storie, di quelle esistenze, di quei viaggi della speranza. Si fa carico delle memorie, dei racconti, del non detto. Dietro ogni volto, dietro ogni schiena, spalle, gambe c’è un mondo, una storia, spesso una solitudine impastata di fatica e dolore. E il teatro diventa strumento, quanto mai urgente, per elaborare quei lutti, quelle fatiche: per aprire i possibili incontri con l’Altro, per creare ponti laddove ci sono solo muri. A quei corpi pensiamo, sapendo bene che la scena della danza e del teatro sono solo briciole rimaste nel banchetto selvaggio di chi divora umanità.
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Collaborano con alcuni loro scatti, per il numero di luglio: Riccardo Contrino e DIANE | Ilaria Scarpa_Luca Telleschi