La fredda notte che stiamo vivendo è il momento per agire

di Valeria Orani

Pierre St. Lucie, “La Grande Danse Macabre” (1568), Harris Brisbane Dick Fund, 1923 – Donazione al Pubblico Dominio dal Metropolitan Museum of Art http://www.metmuseum.org/art/collection/search/348335

«incidènte: s. m. [uso sostantivato dell’agg. prec.]. – 1. Avvenimento inatteso che interrompe il corso regolare di un’azione; per lo più, avvenimento non lieto, disgrazia»

Chiunque abbia provato nella propria vita un incidente sa che arriva inaspettato, senza preavviso. Tu cammini dal punto A al punto B e improvvisamente ti ritrovi in un punto X non contemplato nel tuo percorso, che ti impedirà per sempre l’arrivo al punto B e ti costringerà un soggiorno inaspettato e spesso a tempo indeterminato nel suddetto punto X. Spesso questo punto X è un ospedale.
Ma ci sono moltissime varianti di incidenti, non tutte sono gravissime da portarti all’ospedale. Alcune ti portano semplicemente a casa.
A furia di accumulare incidenti, spesso si impara che nella vita di un organismo l’incidente è necessario; come una malattia autoimmune, ha una funzione. Che tu lo veda o no, che tu lo capisca immediatamente o mai, l’interruzione del corso regolare di un’azione ti dà la chiave per capire che è arrivato il momento per fermarsi e riflettere, per correggere il tuo percorso.

Lo sconforto di interi settori lavorativi, fermati dall’incidenza del coronavirus e della malattia che provoca, la Covid-19, che richiede a tutti un arresto della propria quotidianità per evitare o non creare occasioni di affollamento piccolo o grande, è un “incidente”. Tutti ne capiamo in teoria l’utilità. Un affollamento potrebbe essere letale e portare al collasso un qualsiasi sistema sanitario, con conseguenze molto pericolose per tutti. Siamo chiamati al senso civico, individuale e collettivo.
Si chiede collaborazione a tutti e si emanano decreti con cui chi ci governa, e ne ha quindi facoltà, ci impone nuove abitudini, indispensabili.
Non è qualcosa che affligge un solo settore, ma nonostante questo si ha la percezione che il settore dello spettacolo dal vivo possa essere più penalizzato di altri.

Ma a ben guardare settori come il turismo, la ricettività alberghiera, i trasporti, stanno subendo effetti molto più devastanti delle nostre. Oppure, senza andare troppo lontano e rimanendo nella stessa ordinanza che tocca il teatro, pensiamo a quanto possa essere penalizzato il settore degli eventi, la cui funzione – e con essa il futuro di aziende con moltissimi dipendenti – passa interamente attraverso le vendite. Il Salone del Mobile di Milano, o VinItaly, sono vetrine di settori che muovono l’economia italiana e coinvolgono migliaia di aziende e lavoratori. Tutti loro, come gli altri, si trovano a fronteggiare una terribile incertezza, che se vogliamo è ancora più terribile perché si parla di imprese private, senza alcun sostegno pubblico.

Perché quindi il nostro settore dello spettacolo dal vivo si sente più penalizzato? All’inizio dell’epidemia da più parti si è levata alta l’indignazione per il fatto che erano stati chiusi i teatri e non i supermercati. Su quale tipo di calcolo razionale si fondava quella polemica?

Una fiaba buddista parla di un uccello, dal nome Konkucho, che la notte si danna dal freddo e giura a sé stesso di costruire il suo nido più caldo appena sorgerà il sole. Poi la mattina si sveglia con il sole alto e caldo, dimentica gli intenti della notte prima e non rinforza il suo nido per poi finire di nuovo a soffrire e a imprecare la notte seguente.

Il divieto di manifestazioni, come per l’uccello Konkucho, arriva in una notte fredda.
Inaspettata come tutte le cose che si spera non si verifichino, ma prevedibile perché tutti noi, quando firmiamo un contratto, sappiamo che i nostri diritti sono tutelati eccetto nel caso in cui incorrano cause di forza maggiore. Non è la prima volta che in questi anni, in Italia, si verificano cause di forza maggiore che bloccano momentaneamente il lavoro.
Catastrofi naturali come terremoti o alluvioni hanno bloccato la vita di intere comunità, chiuso teatri e annullato intere stagioni, anche se, certo, il settore dello spettacolo dal vivo nella sua interezza non è mai stato colpito come oggi.

Alcune settimane fa, prima del lockdown generale, si leggevano moltissime dichiarazioni di protesta e disappunto, nelle quali si ventilava più o meno sommessamente che il nostro settore fosse maggiormente maltrattato rispetto ad altri, e si sottolineava il proprio stato di necessità considerandolo una questione preminente, una necessità della società intera, come se non andare a teatro fosse importante quanto non mangiare. Ma oggi il nostro problema, quello collettivo, è come mangiare e come tenerci in salute, mentre il problema di chi con lo spettacolo dal vivo non ci vive finisce sullo sfondo, assieme alla crisi economica che si abbatterà su tutti i comparti produttivi del paese.
Oggi giustamente si chiede tutela, si chiede considerazione, aiuto, supporto… Oggi si chiede. Ma ieri?

Ieri era normale vendere spettacoli a teatri che (sotto)pagano il lavoro, che saldano i compensi dopo tre mesi quando va bene; ieri era normale andare a incasso e derogare sul regolamento che vorrebbe che quell’incasso il teatro lo consegni il giorno dopo la replica; ieri era normale non riuscire più a far circuitare gli spettacoli a causa dei nuovi decreti ministeriali – che hanno sancito in modo granitico lo scambio di spettacoli tra Teatri Nazionali, che fissano il valore di un prodotto artistico nel numero degli spettatori paganti, che impongono che i circuiti prestino esclusiva attenzione alle compagnie della propria Regione. Spendere decine di migliaia di euro per produrre spettacoli che vengono buttati al macero subito dopo i debutti è la normalità per molti Teatri, di quelli con la T maiuscola, ma oggi – che chiediamo supporto – sembra che tutti lo abbiano dimenticato. E ancora, ieri era normale uno stato delle cose in cui i bandi li vincono sempre i soliti, dove non esistono manifestazioni di interesse trasparenti, dove il CCNL viene messo in pratica solo da un numero determinato di Produzioni e di Teatri, mentre tutto il resto del comparto se ne frega allegramente, senza creare le basi di tutela minima dei lavoratori dipendenti e mettendoli in condizioni di fronteggiare qualsiasi incidente con le indennità previste dall’INPS. Ieri non era un vero problema che i liberi professionisti non avessero creato, come avviene per tutti gli altri settori, delle casse previdenziali per la loro tutela.

Oggi abbiamo un incidente, il coronavirus, che forse più che un virus è un anticorpo, un espediente per capire quanto dovremmo correre subito ai ripari per abitare un “sistema” che abbiamo modificato fino a renderlo invivibile, bistrattato e mortificato dalle nostre stesse azioni. Abbiamo annullato sindacati e associazioni di categoria, costruito piccole nicchie di appartenenza. Divisioni, piccoli compartimenti stagni dove siamo stati capaci solo di coltivare, e spesso male, il nostro orticello, autorizzando anche le nuove generazioni a pensare che fosse normale vivere all’arrembaggio, permettendo la concorrenza sleale, la gestione piratesca, il lavoro sommerso.
Le cose vanno leggermente meglio per i teatri che hanno un organico con contratti a tempo determinato o indeterminato, dove ammortizzatori sociali possono essere adottati in maniera più sistematica. Ma i liberi professionisti che pure in quei teatri prestano la loro opera? E gli altri? Le compagnie teatrali in genere?

Da sei anni vivo negli Stati Uniti, dove il welfare è inesistente, e così pure la partecipazione pubblica per moltissimi settori lavorativi. È vero che le tasse sono più basse e si possono scaricare più spese, ma tutto costa molto di più. L’assicurazione, ad esempio, costa moltissimo, cifre per noi impensabili, che comunque non coprono il 100 per cento delle spese mediche, le quali a loro volta sono ben più alte di quelle a cui siamo abituati in Italia.
Stando qui e facendo il mio mestiere ho avuto conferma di quanto sia importante l’organizzazione sociale del settore artistico e dello spettacolo dal vivo. Qui non esiste professionismo che non si confronti con unions e associazioni di categoria, le quali ti ammettono solo dopo aver valutato le tue capacità professionali in termini di lavoro concreto e curriculum.

La tutela del settore deve essere una nostra priorità: salvaguardare il professionismo, escludere chi non segue le regole, avere casse professionali, poter partecipare alla ripartizione di fondi e bandi, network, lavoro, soldi, vita.
La necessità di agire come imprenditori privati non è ideologia, è leggere la realtà per quella che è, per quello che abbiamo realmente a disposizione, per vivere nel mondo reale abbandonando per sempre l’illusione che qualcuno possa salvarci più di quanto non possiamo fare noi stessi.

Un lavoratore dello spettacolo in Italia è molto più fortunato di un suo pari americano, almeno in teoria. Abbiamo fondi pubblici, ammortizzatori sociali, servizi, indennità. Non sappiamo da dove iniziare, eppure il mondo, la vita che abbiamo scelto, non è più quella dei bohemien o eterni “miserabili”. Meritiamo tutti dignità, lavoriamo, non è corretto che i lavoratori dello spettacolo siano percepiti come un peso per la società civile. Non lo siamo, così come non lo sono i lavoratori di altri settori. Prendiamo questa occasione come espediente per migliorare, e iniziamo una volta per tutte ad essere categoria. Dovremmo essere radicali e anche un po’ spietati nell’impedire l’elusione delle regole, dovremmo avere dalla nostra parte uffici legali, costruire casse integrative, dovremmo rispettare il professionismo che tanto faticosamente abbiamo raggiunto creando percorsi che aprano al nuovo ma non indiscriminato. In una parola dovremmo essere uniti. Union.

Il momento per agire è la fredda notte, ricordiamoci che sotto il caldo sole tutti i patimenti verranno dimenticati e rimanderemo ancora la soluzione dei nostri problemi demandando ad altri la percezione del nostro valore.

 

Valeria Orani

Valeria Orani ha maturato un’esperienza nell’organizzazione teatrale di oltre 30 anni e una conoscenza approfondita di come devono essere gestiti progetti dell’arte performativa e della cultura contemporanea. Ha fondato in Italia 369gradi (www.369gradi.it) nel 2003 e dal 2015 si è stabilita a New York dove ha fondato Umanism NYC (www.umanism.com). Come libera professionista produce e sviluppa progetti caratterizzati dalla ricerca di dialogo tra le discipline artistiche e le arti performative e delle strategie da adottare per innescare sinergie tra l’arte e il business. L’attenzione costante della sua ricerca è rivolta a tutti i possibili sviluppi artistici e manageriali delle arti contemporanee e alle metodologie per assicurarne oltre che l’esecuzione anche la giusta ed efficace comunicazione e la necessaria programmazione e produzione. L’ultimo progetto in questa direzione è dedicato alla promozione della Sardegna ed esperimenta un nuovo dialogo tra turismo e arte contemporanea: AMINA>ANIMA (Soul) (www.aminaproject.org).
Valeria Orani inoltre dal 2015 è ideatrice e curatrice di un progetto non-for-profit dedicato alla drammaturgia italiana contemporanea che si interfaccia in italia con 369gradi e a New York con il Martin E. Segal Theatre Center del Graduate Center della CUNY. 
Italian Playwrights Project nasce per veicolare la drammaturgia contemporanea attraverso la traduzione, la pubblicazione e la messa in scena di testi italiani di ritenuti interessanti per il panorama internazionale da un advisory board di esperti.
Nel 2017 nasce in Italia un progetto parallelo dedicato alla drammaturgia americana: American Playwrights Project.
Attenzione costante a tutti i possibili sviluppi artistici e manageriali delle arti contemporanee e alle metodologie per assicurarne oltre che l’esecuzione anche la giusta ed efficace comunicazione e la necessaria programmazione e produzione. L’interazione tra le arti è lo scopo primario del suo lavoro e la visione tra arte e business è ispirazione di progetti dove si integrano discipline molto diverse tra loro.