Uscire dall’ossessione del consumo

di Elettra Stimilli

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A proposito di ricchezza, qualche settimana fa sono stata colpita dal modo in cui è stata commentata una notizia. Dopo che il ministro dell’Interno in carica ha nuovamente minacciato di sforare i parametri europei, e che la sua dichiarazione ha avuto immediati effetti devastanti per l’economia nazionale sui mercati finanziari, la notizia è stata commentata da alcune testate nazionali nel modo seguente: «La ricchezza degli italiani risulta sempre più in rosso». Questa espressione mi ha colpito, non tanto o non solo per il suo contenuto, ma soprattutto per la forma.
Perché – mi sono chiesta – utilizzare una forma contorta per dire che il debito pubblico italiano stava ulteriormente aumentando? Alcuni anni fa non si faceva altro che parlare di debito. Oggi, il peggioramento della condizione dell’economia nazionale, di per sé negativa, è descritto passando attraverso la forma positiva della ricchezza. Una ricchezza, per così dire, negata attraverso la sua affermazione.
Come si può arrivare a parlare di ricchezza per somme di denaro mancanti? Si vuole forse alludere, in questo modo, alla ricchezza che avremmo potuto possedere? Oppure il senso di questa espressione giornalistica, di per sé apparentemente innocua, è più complesso e rappresenta il sintomo di un cambiamento radicale nel modo stesso di intendere la ricchezza?

Vale la pena allora chiederci che cosa si intende per ricchezza. Una prima risposta potrebbe essere che la ricchezza non si identifica soltanto con qualcosa di oggettivamente stabile, che semplicemente si possiede (beni, oggetti, quantità di denaro, ecc.). Piuttosto, si può considerare ricchezza anche ciò che si possiede in potenza – o meglio, che è tale in quanto permette di sviluppare investimenti che possono produrre ricchezza. La notizia dell’aumento del debito pubblico, dunque, per quanto negativa, può essere considerata un’indicazione in merito alla ricchezza degli italiani.
Questo modo di esprimere i fatti, tuttavia, sembra indice di un mutamento non solo rispetto al valore in sé della ricchezza, ma soprattutto rispetto al modo in cui viene valutata. In definitiva, la ricchezza non è più correlata a un valore oggettivo, non corrisponde in maniera esclusiva a qualcosa di misurabile, ma dipende dalla modalità con cui attribuiamo ad essa un valore.

Cosa cambia rispetto al passato? Per capirlo dobbiamo mettere a fuoco cosa intende il discorso economico quando parla di “valore”. Tuttavia, anziché rispondere a questa domanda da un punto di vista economico, vorrei provare a confrontarmi sulla questione da una prospettiva più ampia.
Si può affermare che ciò che caratterizza il discorso economico, fin dalla sua formulazione classica, sia la ricerca di una “sostanza oggettiva” con cui individuare il valore economico. Per gli economisti classici, esisterebbe, cioè, un valore oggettivo dei beni indipendente dalla possibilità che siano scambiati. La necessità di individuare un criterio oggettivo per la valutazione delle merci è ciò che ha indotto gli economisti a ricondurre il valore di scambio di un bene al costo oggettivo del lavoro impiegato per produrlo. In questo modo non solo, nell’economia classica, la produzione risulta la merce di scambio per eccellenza, ma soprattutto la scambiabilità delle merci si fonda su una sostanza – la quantità di lavoro necessaria allo loro produzione – che risulta, così, “oggettiva” e conferisce ai beni un valore intrinseco e indipendente rispetto alla possibilità che vengano scambiati.
Questo aspetto, però, in qualche modo si scontra, fin dagli inizi della teoria economica, con la tendenza umana alla comunicazione, a quel peculiare tipo di scambio che potremmo definire spirituale. In essa è in gioco una forma sociale complessa, che è alla base della stessa possibilità dello scambio e a cui è possibile ricondurre la stessa capacità della valutazione. Ciò vuol dire che i valori non esistono di per sé, indipendentemente dal modo in cui vengono valutati.

La valutazione è il meccanismo intrinseco che alimenta l’istituzione del mercato come fenomeno collettivo, in cui ciascun agente che vi partecipa è dipendente non dal “valore” che ogni bene possiede in sé, ma da quello che riveste per ognuno. Tanto che si può dire che il meccanismo di valorizzazione alla base della comunità finanziaria, in definitiva, dipende da un singolare tipo di fede: dalla “fiducia” dei suoi stessi partecipanti, più che dal reale valore economico dei titoli scambiati. I ripetuti tentativi di presentare i problemi economici come problemi esclusivamente tecnici, risolvibili da economisti o da governi adeguatamente composti da esperti con competenze tecniche, si scontrano allora con il dato di fatto che, in questo processo, è in gioco qualcosa che può sfuggire a un approccio esclusivamente specialistico dell’economia.
Il problema della valutazione è centrale in filosofia. Il maggiore critico dell’oggettività dei valori, nel XX secolo, è stato Nietzsche, che per primo ha svelato la centralità della valutazione nella storia dell’umanità. Marx, dal canto suo, è sicuramente stato il più efficace critico del valore economico e dei suoi arcani politici. Secondo lui, il valore non è in alcun modo una grandezza “oggettiva”. Il valore economico piuttosto è fenomeno “sociale”, un processo che si realizza. Non è, cioè, fin dall’inizio tale, ma praticamente e concretamente si realizza; è una realizzazione della società capitalistica, non semplicemente come forma in sé quantificabile, ma come fenomeno socialmente qualificabile.
Marx ha attributo, comprensibilmente, un ruolo privilegiato alla produzione: è in questo ambito che l’economia è stata in grado di esercitare il suo dominio politico. Tuttavia, quello che aveva davanti agli occhi era un capitalismo fondamentalmente industriale, che non aveva ancora subito la trasformazione che oggi conosciamo. Il capitalismo avanzato dei nostri giorni, il cosiddetto capitalismo finanziario, è il risultato di un processo complesso. Il mercato, come istituzione normativa fondata sulla valutazione, ha sempre più acquistato rilevanza politica. È attraverso la centralità attribuita all’istituzione del mercato che l’economia diviene una forma esplicita di governo in quanto ambito di costituzione di valori validi e condivisibili. Un’istituzione pubblica, il cui unico scopo non è altro che la sua stessa autoriproduzione.

Il punto da mettere a fuoco, allora, è il fatto che questa istituzione apparentemente neutra, che dovrebbe seguire parametri oggettivi, esclusivamente tecnici, risulta in realtà fondata su una razionalità complessa, legata ad una logica amministrativa e imprenditoriale, che è stata estesa a tutti gli ambiti lavorativi, al dominio sociale, a quello politico, fino a coinvolgere l’intera esistenza di milioni di persone. La forma-impresa si è imposta e l’“imprenditore di sé” è divenuto il prototipo cui si sono adeguate tutte le figure portanti dell’economia classica: il “lavoratore”, il “produttore” e il “consumatore”.
A causa delle politiche neoliberiste, che hanno fatto del mercato l’istituzione politica per eccellenza, la dimensione valutativa – costitutiva fin dall’inizio dell’economia di mercato – si è così imposta soprattutto e paradossalmente nella forma della “valutazione di sé”. L’“imprenditore di sé” è la figura al centro dell’economia neoliberista, che ha modificato tanto il ruolo del lavoro quanto quello del consumo. Il lavoratore, il produttore, il consumatore non solo sono accomunati dal fatto di essere tutti divenuti “imprenditori”, ma sono anche tutti impegnati a valorizzare al meglio il proprio “capitale umano”, coinvolgendo così sempre più nell’ambito produttivo la dimensione “etica” legata alla valutazione.
Il consumo è stato inoltre sempre meno circoscritto alla semplice attività di ricostituzione di forze perdute, ma è diventato esso stesso un fattore di investimento che qualifica, aumentando il valore stesso della vita. Più che a un’accumulazione originaria nel senso di Marx, si può fare, qui, riferimento a un’accumulazione continua, che mira a dirigere dall’interno le vite individuali attraverso la produzione di norme fondamentalmente incentrate su desideri, passioni, sulle stesse modalità di valutazione e di scelta che caratterizzano le vite dei singoli.

Il capitalismo ha sempre più mirato a inscriversi nelle relazioni sociali e nei desideri soggettivi attraverso un’esaltazione della libertà, che di fatto ha trovato la sua reale forma di espressione unicamente nella pratica del consumo. La continua autoriproduzione di desideri, appiattiti su forme inquietanti di godimento per ciò che sembrava si potesse ottenere facilmente, ha così finito per confinare il piacere in modalità autolesionistiche di consumo, che producono forme di disagio crescente.
Si tratta dello stato che si è prodotto nel momento in cui, con le politiche neoliberiste, i modi di dar valore alla vita hanno teso a corrispondere pienamente alla stessa valorizzazione del capitale, rendendo così possibile per ciascuno di diventare un “capitale umano”. Le capacità individuali, di per sé potenzialmente aperte, sono state così radicalmente trasformate producendo differenti forme di frustrazioni tutte legate al fatto di non sentirsi mai all’altezza della situazione. Questo, potremmo dire è, in definitiva, il fenomeno che è all’origine di quella condizione di “debito infinito” che per molti aspetti caratterizza la nostra epoca; un debito che è materiale, in quanto per lo più materialmente proviene da forme ossessive di consumo in assenza di liquidità, ma che è anche spirituale in quanto risulta da forme perverse di investimento volte a compensare la convinzione di non essere adeguati o adeguate a quanto richiesto.
Da un lato, non c’è dubbio, un ritorno di forme autoritarie e violente di potere è in atto sul piano globale come reazione al dominio apparentemente incontrastato del mercato. Ma più subdola e magari ancora più pericolosa è la dimensione psichica che il potere assume ai nostri giorni nei modi della valutazione economica, meno facile da individuare, ma non per questo meno violenta.
Riappropriarsi della valutazione come modalità attiva e non semplicemente reattiva rispetto alle forme proposte dal mercato, significa allora assumere in maniera efficace la forza istituente della valutazione e rovesciarne, così, il suo potenziale politico. Un processo che, passando attraverso le singole vite, può recuperare la sua dimensione comune e collettiva neutralizzando le modalità depotenzianti di competizione e di (s)valutazione che caratterizzano le aspettative del mercato.

 

Elettra Stimilli

Elettra Stimilli è ricercatrice in Filosofia teoretica presso La Sapienza Università di Roma. Membro del Centre d\’Études des Normes Juridiques \’Yan Thomas\’ (EHESS, Paris) e del comitato scientifico della collana “Political Theologies” (Bloomsbury). Dirige le collane “Filosofia e Politica” e “MaterialiIT” (Quodlibet). Ha insegnato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e in diverse università all’estero. Tra le sue pubblicazioni: Jacob Taubes. Sovranità e tempo messianico (Morcelliana, 2004); Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo (Quodlibet 2011; tradotto in inglese presso Suny Press, New York 2017); Debito e colpa (Ediesse, 2015;tradotto in inglese presso Bloomsbury, London 2018). Ha curato: Jacob Taubes, Il prezzo del messianesimo. Una revisione critica delle tesi di Gershom Scholem (Quodlibet, 2017). Con Dario Gentili e Glenda Garelli ha edito il volume Italian Critical Thought. Genealogies and Categories (Rowman & Littlefield, 2018).