Abbondanza e scarsità

di Graziano Graziani

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La ricchezza è un termine polisemico, può determinare molte cose. Viene dall’aggettivo “ricco”, di cui designa il concetto astratto, l’ideale potremmo dire, ovvero la condizione dell’esser ricchi. “Ricco” sembra derivi da un termine francese dell’XI, “riche”, a sua volta debitore di un termine longobardo, “rihhi”, e quindi dall’area linguistica germanica, dove si sarebbero generati l’inglese “rich”, ma anche il tedesco “reich” – da cui deriva tanto la parola che designa l’impero quanto la terminazione di certi nomi (Teodorico, Federico, Enrico) che all’epoca assumeva un significato di superlativo. Più che con i soldi, dunque, il termine ricco aveva a che fare con l’idea di potenza, ma anche di abbondanza. Col tempo il concetto di ricchezza come abbondanza si è convertito in quello di accumulo, di matrice capitalistica, ma anche di ricchezza spirituale, che si riferisce a tutt’altro contesto, per non parlare della ricchezza intesa come disponibilità a qualcosa di prezioso ma comune, un’idea comunitaria e solidaristica che ha radici antiche e che, nei nostri giorni, sta trovando una nuova spinta ideale nel concetto di “bene comune”.

Proprio per giocare su questo aspetto polisemico, e mettere in evidenza come scegliere una sfumatura rispetto a un\’altra sia oggi una questione eminentemente politica, ALDES ha lanciato un punto di domanda semplice e diretto, che è diventato anche il titolo di un incontro che si è svolto il 22 maggio scorso a Villa Bottini, a Lucca. “Cos’è la ricchezza?” – ovvero, cosa riteniamo che possa avvicinarci a quel senso di abbondanza che appartiene all’etimologia della parola, andando oltre gli automatismi di matrice economicista che sembrano aver colonizzato il linguaggio e la mente contemporanei? Mai come oggi tutto quanto si misura sul profitto, sul “quantum”. L’azione dei governi è soggetta, quasi subalterna, alle spinte dei mercati e non c’è attività – sia essa pubblica o privata – che non venga in qualche modo valutata non tanto per la sua sostenibilità economica (quello sarebbe il minimo), quanto per la sua capacità di generare utile, ricaduta, surplus. Il lessico economico, che una volta veniva ospitato in apposite sezioni dei giornali, dedicate ad appassionati e specialisti, è risalito e tracimato verso le prime pagine, ha colonizzato le nostre menti, modificato i nostri parametri di valutazione. Tutto questo mentre movimenti sempre più trasversali hanno evidenziato quanto meccanismi come il PIL, il prodotto interno lordo, non siano in grado di misurare davvero la felicità delle persone oppure – secondo un principio meno naif – di spingere la società verso condizioni auspicabili, in grado di ridurre la pressione della competizione sugli individui e indirizzare gli sforzi comuni verso la costruzione di un sistema sociale in grado di guardare al futuro, alle generazioni che verranno, senza compromettere l’ambiente.

Per Roberto Castello la riflessione sulla ricchezza, e sulla sua (mis)interpretazione, è da sempre un motore inesauribile di idee, che ha dato lo spunto per spettacoli vecchi e nuovi – dalla performance zappiana Siamo qui solo per i soldi, degli anni Novanta, fino al recente Trattato di economia, realizzato assieme ad Andrea Cosentino – ma è stato anche al centro di oggetti performativi “strani” e debordanti come “La festa del Presente”. Giunta alla sua ottava edizione, che si svolgerà domenica 6 ottobre alla Biblioteca Civica Agorà di Lucca, “La festa del Presente” è un momento in cui le persone possono incontrarsi e scambiarsi oggetti, storie, conferenze, libri, sedute di fisioterapia e qualunque altra cosa sulla base del dono. Non c’è spazio per il denaro, ma nemmeno per il baratto: tutto è offerto senza un tornaconto, se non quello di essere parte di questo processo collettivo del dono. Può sembrare una strana sagra di provincia, forse qualcuno la vivrà esattamente in questo modo, ma in realtà si tratta di un dispositivo che risponde a un interrogativo artistico e filosofico che Roberto Castello si è posto come esercizio mentale: cosa accadrebbe se, di colpo, il denaro cessasse di esistere? Cosa cambieremmo delle nostre azioni concrete?

Il denaro, secondo Yuval Noah Harari, è uno di quei dispositivi che esistono su un piano di realtà che non è materiale, concreto, fisico, ma che fa parte dell’immaginario collettivo. Ovviamente esiste anche il denaro fisico, la cui natura di oggetto tuttavia non esaurisce affatto le implicazioni che possiede il concetto di denaro, tanto è vero che oggi il 90% della ricchezza in circolazione è smaterializzata, digitale, non ha una contropartita né in oro – da cui il denaro si è sganciato da decenni – né in banconote emesse. È pura virtualità. Ovviamente si tratta di un immaginario collettivo vincolante, al pari delle leggi, dei diritti umani, del meccanismo di senso che ci fa fermare di fronte alla luce rossa di un semaforo. Ma tenere presente questa sua essenza immaginaria ci dice che è anche attraverso l’immaginazione che si può costruire un diverso stato di cose. Non l’immaginazione finzionale, ovviamente, ma quella progettuale: cominciare a immaginare un sistema sociale ed economico che non si basi solamente sul “quantum”.

Non si tratta di demonizzare l’economia, che ha una sua funzione importante e una sua validità scientifica. Tanto è vero che l’incontro di maggio è partito proprio dall’intervento di un economista di area cattolica, Sergio Beraldo, a cui hanno fatto seguito gli interventi di una filosofa, Elettra Stimilli, e di un attivista come Francesco Gesualdi. Tre sguardi diversi che hanno illuminato la questioni da diverse prospettive, con l’obiettivo non tanto di polemizzare con il pensiero economico in sé, quando di decolonizzarlo dalla sindrome Tina (there is no alterative), che è in realtà frutto di una precisa narrazione dello stato delle cose, dunque di uno sguardo politico e parziale.

Per il numero di settembre di «93%», con il quale ci avviciniamo all’edizione 2019 della “Festa del Presente”, abbiamo deciso di pubblicare i tre interventi principali dell’incontro di maggio, affiancati da uno scritto di Roberto Castello, per continuare a riflettere su questo tema che oggi, in pieno allarme climatico, si disegna sempre più come la necessità di un cambio di paradigma. Che è anche e principalmente uno sforzo di immaginazione.

Quest’estate cadeva il cinquantesimo anniversario dello sbarco sulla Luna, evento spinto dalla volontà di potenza militare ma che, allo stesso tempo, ha felicemente segnato l’immaginario collettivo e che, alla sua conclusione, ha segnato anche il rovesciamento di un paradigma: nata come competizione nell’ambito della guerra fredda, l’esplorazione spaziale è oggi una delle attività a maggior tasso di cooperazione internazionale. Nei tanti libri usciti per celebrare l’evento, che fanno anche il punto con le sempre più approfondite conoscenze che abbiamo sull’universo, si sottolinea come quella cosa straordinaria che la vita sul terzo pianeta del sistema solare sia il frutto di uno straordinario e complicatissimo incrocio di fattori. Un pianeta che possiede un’atmosfera e un’idrosfera, che ha un campo magnetico e uno strato di ozono, una distanza non esageratamente lontana né esageratamente vicina alla sua stella, la quale è sufficientemente stabile, e la presenza di un satellite particolarissimo come la Luna che influenza le maree e stabilizza lo stesso pianeta, senza il quale forse la vita come la conosciamo non sarebbe possibile. Oggi questo equilibrio è in pericolo, alterato a causa dell’azione umana, secondo quanto affermano la maggioranza degli scienziati. E nonostante le dichiarazioni anche entusiasmanti che ci annunciano una prossima esplorazione di Marte, e persino dei progetti visionari di rendere abitabile il pianeta rosso per trasformalo in una colonia terrestre, la verità è che l’emergenza è ora e che non disponiamo di una seconda Terra.

È un tema che persino nei settori della politica più refrattari al messaggio ambientalista sta facendo breccia. Lo ha ricordato Ilaria Vietina, assessora alle politiche formative e di genere del Comune di Lucca, che ha sostenuto l’incontro di maggio. Nel suo intervento, Vietina, ha sottolineato che oggi parlare di crescita illimitata equivale ad affermare una menzogna. «Anche se si tratta di un’opinione che poggia su archetipi che fanno ancora molto presa sull’opinione pubblica, la possibilità di una crescita illimitata non rispecchia la realtà». Le contraddizioni tra i modelli di competizione e quello di cooperazione sono evidenti, ha proseguito Vietina, ma anche all’interno di una visione di mercato si possono e anzi si debbono cambiare alcuni paradigmi. «Ad esempio ispirandosi agli scritti di Ivan Illich, che problematizza il concetto di scarsità su cui si basa il pensiero economico dominante. Oggi la produzione di ricchezza non è più mossa solo dal desiderio di colmare la scarsità, perché di fatto assistiamo a una grande produzione di spreco nei paesi più ricchi, mentre in quelli più poveri esistono ancora ampie fasce di popolazione affamate o sotto la soglia di povertà». L’opposto della scarsità è, guarda caso, l’abbondanza. Anche nella riflessione di Illich, richiamata dall’assessora Vietina, ciò che va ripensato è dunque il senso profondo della parola “ricchezza”, il suo etimo, e quindi ciò che dovremmo cominciare a chiederci è cosa intendiamo oggi per abbondanza.

L’abbondanza non è necessariamente sovrabbondanza. Anzi, tornando al tema della vita sulla Terra, di cui siamo parte, essa trova la sua prosperità quando le condizioni che la determinano non sono né troppo scarse né eccessive. Serve una temperatura che sia sufficientemente calda, rispetto al gelo siderale dello spazio, ma non troppo calda. Così come gli apporti nutritivi – zuccheri, proteine, carboidrati – sono preziosi se assunti nella giusta misura e non in eccesso, nel qual caso diventano dannosi. Il “quantum”, in questo caso, non è dato dalla crescita infinita ma dalla giusta misura. Oggi, di fronte alle possibili derive catastrofiche di quello che è stato ribattezzato “antropocene”, questo cambio di paradigma verso un’economia che sia rispettosa delle esigenze di tutti, e che segua un principio di giustizia sociale internazionale, sta diventando un nodo cruciale con il quale siamo tutti chiamati a fare i conti. 

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Nota: il numero di settembre è illustrato da un fotoreportage di Ilaria Scarpa che racconta l\’India, uno dei paesi dove più forti e contraddittori sono i cambiamenti dettati dallo sviluppo ma dove tutt\’ora vivono ampie fasce di popolazione in stato di povertà. Poiché il tema della redistribuzione della ricchezza ha implicazioni sempre più globali, come ricordano gli interventi, ospitare uno sguardo su quel quadrante di mondo ci è sembrato il modo migliore per illustrare i ragionamenti contenuti nel numero.
Le foto sono state realizzate presso il Best New Life Shelter di Vellore-Tamil Nadu, un centro diurno sostenuto da Cittadinanza Onlus che offre riabilitazione ed assistenza a bambini e adulti con gravi disabilità di tipo neuropsichiatrico.