Ogni benedetta stagione

di Elio De Capitani

Calchi Identitas, Rocamora Teatre, Calders (ES) 2016, Ph Giacomo Verde

«A teatro è il fiato dello spettatore che dà fiato all’attore. Lo so per via che ogni tanto recito versi: io vario, essi variano, in funzione di chi ascolta, e viceversa».
Elio Pagliarani Teatro come verifica in Il fiato dello spettatore a cura di Andrea Cortellessa edizioni L’orma 2017.

 

Il pubblico. Per un’arte dal vivo è la comunità che crei nel tempo. In fondo tu la scegli e lei ti sceglie. È un patto rinnovato, sempre vivo e perciò sempre mutevole. Se guardo ai 45 anni di vita passata a costruire con i miei compagni di viaggio quel luogo che ora si chiama “Elfo Puccini” – e che, come poche altre cose negli anni attuali, fa di Milano Milano – vedo il segreto, sempre quello: lavorare prefigurando un pubblico che ancora non c’era, ma che ci sarebbe stato. Quel pubblico ora c’è, eccome: ed è la nostra libertà. Ma sappiamo di dover lavorare, sempre e ancora, prefigurando un pubblico futuro.

Pubblico futuro e teatro futuro: il legame è forte, lo snodo fondamentale. Dentro ci sta nuova drammaturgia, nuova regia (sempre più spesso a quattro mani, è un fenomeno tipicamente elfico, non ha corrispondenti), nuove generazioni di attori, nuovi gruppi e infine ma anche – come punto di essenziale della verifica sociale dell’arte – nuovo pubblico. Ma tutto questo nuovo ha una tensione maggiore se radicato in una consapevolezza antica, che sa contenere in un unico sguardo il V secolo della Grecia antica che vide nascere il teatro con Shakespeare e Naomi Wallace. Oppure, pensando al secolo scorso, con Stanislavskij e Brecht, Peter Brook e Chereau, Carmelo Bene e Pina Bausch, Heiner Müller e Sarah Kane. Un teatro di puro futuro o di esclusivo radicamento nel qui e ora, sarà anche bellissimo, sarà essenziale, ma è ben poco cosa senza l’esperienza che matura, la maestria che si stratifica, la maieutica capacità di trasmetterla e la consapevolezza della lunga strada che ha lo ha portato dai secoli passati fino a qui.

Tornando al pubblico: non si può pretendere che ogni spettatore divenga un cultore della materia, che studi storia del teatro, ma il programma pluriennale di un teatro può far sì che uno spettatore si formi man mano una coscienza storica, che allarghi il suo orizzonte. Gli artisti, costruendo consapevolezza assieme al pubblico, mettono le basi per un’apertura mentale e una curiosità degli spettatori che diventa una garanzia di libertà per loro stessi.

A differenza di molti artisti nostri coetanei, che hanno scelto la pratica della scrittura scenica, molto radicata nella cultura teatrale alternativa italiana, noi abbiamo consapevolmente accettato di rimettere lo scrittore, il drammaturgo in un posto di riguardo nella gerarchia scenica. O meglio, la sua opera: il testo. La riflessione sull’importanza della scrittura come atto a monte che genera l’innervatura del lavoro di tutti i successivi artisti-autori non riguarda solo il teatro, ma il cinema, la televisione, la scrittura delle serie televisive, il film making in generale. Chiariamo: anche nel nostro teatro l’attore arriva a essere autore lui stesso – e non solo del personaggio o della tessitura relazionale con gli spettatori – ma della totalità di significato che tutto il suo corpo sa restituire al pubblico oltre il “dire le parole”. Ma rimettere al centro, l’opera, il testo, l’atto dello scrivere è stato il punto di partenza importante della nostra via teatrale.

 

«Restituire al pubblico». Lo ripeto, perché è ossessivamente presente nel nostro lavoro questo riferimento a chi sta in platea. È l’altra grande differenza tra noi e gran parte del miglior teatro delle generazioni che hanno affiancato il nostro percorso artistico. Il pubblico di fatto è stato a lungo il nostro committente e di fatto lo è ancora: ma sempre pensando a questa utopia di “pubblico futuro”, che non ci fa mai sedere sulla rassicurazione.
Quanto abbiamo litigato con Franco Quadri, il noto critico di Repubblica, per questo! Già a partire dalla mia prima regia, Nemico di Classe. «Non credo al teatro popolare e meno ancora al nazional-popolare», sosteneva Quadri. Ce l’aveva con il teatro d’arte per tutti di Grassi e Strehler, che per noi restava – e resta ancora – una grandissima intuizione. Soprattutto in un paese come l’Italia, dove il nazional-popolare ottocentesco è stato rappresentato dall’opera lirica, che si è presa tutto il campo dell’immaginario e del patrimonio simbolico popolare ai danni dello sviluppo del teatro. E che ancora oggi, divenuta elitaria, si prende la fetta più grande dei fondi pubblici.

In fondo l’idea di Quadri, quella «del critico che si sporca le mani», finiva per essere ingombrante, finiva per spingere verso una pratica teatrale in cui l’artista aveva come vero committente proprio il critico, in cui un artista lavorava più “per vincere il Premio Ubu” fondato dallo stesso Quadri, e non per il pubblico.
La nostra idea dell’autonomia totale dell’artista dal critico ha prodotto – tra me e lui in particolare – vere e proprie risse, a volte fraterne, a volte infernali. Facemmo pace grazie a The History Boys, un testo e uno spettacolo molto popolari, direi, che anche lui amava tantissimo e che ci ha permesso di congedarci con affetto: lo chiamai con tutta la compagnia per un saluto telefonico prima di una replica serale e mi risuona ancora oggi nell’orecchio il suo flebile, bellissimo «evviva». Era il giorno prima del suo ricovero in ospedale.

Se mettiamo il pubblico al centro, è perché lo viviamo come presenza, necessità, verifica sociale e al tempo stesso utopia. Come amplificatore potente dell’attimo di estasi che ogni tanto questo mestiere dona. Certo, raramente ci capita di avere lo stesso rapporto con il pubblico in luoghi dove c’è meno formazione, nei teatri di provincia. Laddove ci sono artisti intelligenti a sviluppare mediazioni non banali con il territorio, l’incontro col pubblico fa scattare una scintilla anche nel più piccolo dei teatri di provincia. Ma stiamo notando, anche in teatri importanti, un fenomeno di preoccupante impoverimento dei cartelloni, di ulteriore arretramento della politica culturale: ci siamo sentiti dire che spettacoli assolutamente popolari come The History Boys erano difficili, troppo intelligenti e persino dell’Importanza di chiamarsi Ernesto, la commedia di Oscar Wilde, un direttore di teatro ha detto: «è troppo raffinato». Figuriamoci se sarà possibile portare in quei teatri certa drammaturgia contemporanea davvero un più impegnativa come il Lear di Bond o Il vizio dell’arte di Bennett. Il guaio è che quei direttori non vogliono più neppure Shakespeare, se non c’è un nome televisivo a motivarli.
Stiamo notando che le stagioni finiscono sempre più per inseguire “i gusti del pubblico” – o più spesso quelli di un assessore alla cultura – dati in eterno come conservatori e inamidati. È la fine di quel percorso nato negli anni Settanta del decentramento culturale, una spirale che porta di nuovo – era già successo negli anni Cinquanta – all’estinzione e alla chiusura di molti teatri. Certo, in provincia è più difficile (e non solo perché la comunità di riferimento è più ristretta), ma si può agire anche diversamente e gli esempi ci sono, e non solo nella cosiddetta “Romagna Felix”, che da anni fa un percorso a parte. Direi però che in città, il lavoro sul pubblico non lo fa solo un teatro, ma la città stessa, con la pluralità dei suoi luoghi di cultura: teatri, musei, cinema e mostre e concerti…
La città può essere un laboratorio avanzato (Milano lo è) dove costruire un pubblico sempre meno connotato dal rito borghese e sempre più da un’autentica spinta culturale.

La verifica sociale dell’arte è il primo aspetto, dunque.
L’altro è l’empatia come veicolo. Credo che nel nostro teatro – in me sicuramente – questo nasca dalla mia condizione esistenziale di “indossatore di anime”, che empatizza con tutte le condizioni umane che incarna nei personaggi interpretati. Ma è un’empatia ambigua quella del personaggio, da maneggiare con cura. L’empatia con le opere è lo snodo fondamentale: lo sperimento quando vado a Londra, dove, con Ferdinando Bruni e Francesco Frongia, con Cristina Crippa e Ida Marinelli – i miei fraterni compagni di vita e di lavoro dell’Elfo – vediamo in scena nuove opere e, se le amiamo, ci viene una voglia incontenibile di condividere questo innamoramento con i nostri spettatori a Milano e in Italia. A volte il testo è arduo, estremo, potrebbe essere respinto o non capito, ma dirigere un teatro è proprio questo: dirigersi verso qualcosa, portarci gli attori, farne capire la necessità a chi organizza, spiegarlo pure alle maschere e ai cassieri, parlarne con l’amministrazione e, soprattutto, soprattutto è portare con te il pubblico. È bello recitare in una platea che condivide non solo quel che vede, ma anche la necessità che ci sta sotto.

E qui vengo al discorso sulla stagione. L’avvio di una stagione è importante, è il momento essenziale del patto col pubblico che si rinnova. Milano da molti anni è la città in Italia che offre di più a chi ama il teatro, ma è soprattutto il luogo di maggiore ‘investimento’ per la creazione di un pubblico nuovo. Mi interessa sottolineare che l’avvio di stagione non è solo – o non è principalmente – il momento di massima competizione tra i teatri, ma è soprattutto il massimo momento di sfida del teatro al riflusso culturale, all’analfabetismo civico, all’autoindulgenza del non sapere.
Nell’avvio di stagione si rinnova il patto che gli spettatori fanno in primo luogo con se stessi, impegnandosi a dedicare a se stessi, al piacere dell’emozione e della riflessione, un certo numero di serate. E per impegnarsi a farlo usano l’abbonamento. Non è la parte maggioritaria dei nostri spettatori, ma è il cuore di una comunità di riferimento. Lo scorso anno, i nostri abbonati anno erano più di 7.000, per quasi 30 mila presenze (poco più di un quinto del totale del nostro pubblico). Il resto è, come si dice in gergo, “sbigliettamento”.

Per un avvio di stagione brillante noi sappiamo di dover sparare le nostre cartucce più importanti entro Natale. Anche se abbiamo un cartellone con 60 titoli in tre sale, sono le nostre produzioni che esercitano la maggiore forza attrattiva sul pubblico – quelle nuove soprattutto – e il 90% degli abbonamenti si vende nei primi mesi. Quindi strutturiamo il calendario mettendo due o più produzioni Elfo in apertura. Ma senza rinunciare a sfidare il nostro pubblico, neppure in questa fascia cruciale della stagione.

Prendiamo quest’anno: inauguriamo con Afghanistan: Il Grande Gioco + Enduring Freedom che firmiamo a quattro mani Bruni ed io. Abbiamo già avuto un grande successo la scorsa stagione con 21 repliche della prima parte; ora, finalmente, va in scena il progetto completo. La sfida è questa: 5 settimane, per un totale di 26 repliche più 4 maratone, in una sala da 500 posti. E 17 mila biglietti messi in vendita.

Perché correre questo rischio? Presentando uno spettacolo con un tema complesso (che sappiamo però contaminante grazie anche un cast di dieci attori straordinari) è necessario dare tempo al pubblico di parlarne, di confrontarsi, di trasformare lo spettacolo in evento per la città attraverso il passa parola. È questa una delle magie della città di Milano, la magia che ci ha permesso, alle nostre origini nei primi anni 70, di diventare in un lampo un fenomeno giovanile esplosivo partendo da zero, migrando, nella stessa stagione, da un teatro all’altro della città. Allora si poteva fare.

Proporre Afghanistan non è certo come proporre un classico ed è necessario, proprio per questo, un lavoro declinato nel tempo e una prospettiva di ampio respiro. Un lavoro che travalica la promozione dei singoli spettacoli o delle stagioni è indispensabile per la formazione e l’ampliamento del pubblico. Da sempre, dai tempi del 1789 di Ariane Mnouchkine e del Théâtre du Soleil – correva l’anno 1975 – l’Elfo ha parlato di storia e non solo occidentale. Il mondo allora era meno connesso, era più difficile venire a sapere di opere e di autori teatrali extra-europei, ma l’Elfo metteva in scena testi come l’Isola di Fugard (Robben Island) dove era prigioniero il leader sudafricano Nelson Mandela, come ora mette in scena Goli Otok di Renato Sarti, l’Isola Calva, per fare i conti con il fratricidio del settarismo comunista dei gulag titoisti.

In questi giorni stiamo preparando l’altra grande produzione, che andrà in scena a dicembre scavallando l’anno e portandoci nel 2019: Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Simon Stephens. Anche lì un mese di repliche, dieci attori per molti ruoli, con un protagonista di 25 anni, Daniele Fedeli, praticamente al suo debutto teatrale. Intuiamo che potrebbe essere un evento d’impatto notevole, anche sulle giovani generazioni. Vedremo che accadrà, ma questo spettacolo mi permette di parlare un altro impegno dell’Elfo: quello di formazione di una nuova generazione di attori e artisti usando tre diversi livelli di coinvolgimento: quello diretto, ovvero impiegandoli nelle nostre produzioni; quello volto a favorire le coproduzioni su base artistica, non solo economica (dove si mescolano personalità di diversa provenienza) e la produzione di progetti autonomi di gruppi teatrali residenti. Ma la cosa migliore è quando i tre livelli si intrecciano. Rivolgersi a nuove generazioni di pubblico risulta più diretto ed efficace se fatto attraverso nuove generazioni di artisti.

Insomma, fare una stagione a Milano è un lavoro di prefigurazione. Ogni stagione è diversa e devi immaginare il ritmo che prenderà quell’anno. Lo scorso anno abbiamo fatto numeri da record fin dall’avvio, grazie al progetto Wilde di Bruni-Frongia che ha avuto un esito sorprendente: 21.787 spettatori in 49 repliche. Oltre a questo, l’autunno si presentava talmente denso di proposte che tre mesi dopo l’apertura avevamo fatto la metà del pubblico della stagione precedente e avevamo già sfondato il tetto dei 6mila abbonati, previsto come target di tutta la stagione. Poi gli spettatori si sono presi un po’ più tempo prima di prenotare altri spettacoli. A dicembre avevamo tutto esaurito e a gennaio un vuoto preoccupante.
Ma alla fine è bastato passare il capodanno, aspettare la befana e i nostri spettatori si sono risvegliati.
E allora concludiamo: la stagione ha i suoi patemi d’animo all’inizio, a metà e alla fine, è un viaggio avventuroso dove gli abbonati, che mobilitiamo soprattutto con le nostre produzioni principali, poi partono alla scoperta di tutte le altre proposte cartellone, decretando a volte improvvisi successi per artisti che magari fino al giorno prima non conoscevano o che avevano perso di vista da un po’ di anni. E molti spettacoli sono vere e proprie feste.
L’Elfo è la casa comune di artisti e spettatori. Credo che si senta molto questa energia già mettendoci piedi. Già mangiando al Bistrò organizzato e gestito dall’Associazione Olinda, con attori e spettatori seduti tutti insieme ai tavoli. Si sente la differenza da un teatro “normale”. Non a caso nel foyer campeggia una scritta, una frase di Ingmar Bergman: «Il teatro dovrebbe essere soltanto un incontro tra esseri umani. Tutto il resto serve solo a confondere». Ecco, questa è un’idea di stagione all’Elfo.

 

Elio De Capitani

Si è unito alla tribù dell’Elfo complice l’amore per l’attrice Cristina Crippa, che è poi diventata sua moglie. Da allora il Teatro dell’Elfo è la sua casa, con qualche incursione cinematografica, tra cui il ruolo del Caimano nel celebre film di Moretti.
Dal 1992 è con Ferdinando Bruni direttore artistico del Teatro, che dalla sede storica di via Ciro Menotti si è trasferito nel 2010 nella multisala Elfo Puccini di corso Buenos Aires.
Dalla sua prima regia, Nemico di classe del 1982, ha firmato una cinquantina di spettacoli – da solo o a quattro mani con Ferdinando Bruni – concentrandosi da ultimo sulla drammaturgia americana e inglese, da Tennessee Williams a Tony Kushner, da Alan Bennett a Simon Stephens, da Arthur Miller a Peter Morgan. Questi stessi autori gli hanno dato l’occasione di interpretare i ruoli più significativi della sua carriera: Roy Cohn, in Angels in America, il presidente USA in Frost/Nixon e Willy Loman nella Morte di un commesso viaggiatore, che gli sono falsi i più importanti premi teatrali italiani (Premio ANCT – Associazione Nazionale Critici di Teatro 2007, Premi Ubu ‘07 come miglior attore, premio Hystrio ‘08 alla regia; e ancora premio miglior spettacolo e regia Olimpici del Teatro ’08; Premio Hystrio 2014 all’interpretazione, Premio Ennio Flaiano 2014 per la regia, Premio ANCT 2014 come miglior attore).
Nel 2016 è uscito per CuePress il volume di Laura Mariani L’America di Elio De Capitani – Interpretare Roy Cohn, Richard Nixon, Willy Loman, Mr Berlusconi, un testo che racconta con molta acutezza il suo lavoro d’attore offrendo infiniti spunti per rileggere la storia collettiva del Teatro dell’Elfo.
Ha diretto, oltre ai suoi compagni del Teatro dell’Elfo, Mariangela Melato, Umberto Orsini, Toni Servillo, Lucilla Morlacchi.