L’arte sovversiva del travestitismo

di Margherita Dellantonio

Dumy Moyi, François Chaignaud – ph DIANE | ilariascarpa_lucatelleschi

Nudi o coperti, esposti o nascosti, truccati o mascherati: l’affermazione del sé passa attraverso estetiche che formano e performano l’identità.
Il mito di un’identità sessuale naturale, prefabbricata, e la sua demolizione, è stato oggetto di varie disamine e lunghi dibattiti da parte di molti studiosi e studiose negli ultimi decenni (un filone di studi che, tuttavia, in questa sede non è possibile approfondire). In questi contesti il corpo, come luogo performativo e performante del genere, ha inevitabilmente un ruolo centrale. Ed è proprio in un particolare tipo di performance, ovvero il travestitismo teatrale, che il corpo si fa strumento di sovversione dell’idea di binarismo sessuale e dei codici sociali eterosessuali dominanti.
Non è certo una novità che l’uomo si travesta ed in particolare che lo faccia a teatro. Dall’antica Grecia al teatro Kabuki giapponese, da Shakespeare all’opera settecentesca, gli uomini hanno sempre indossato abiti femminili per calcare le scene. Come è noto, divieti politici, morali e religiosi hanno impedito a lungo alle donne di salire sul palcoscenico. Tuttavia, quando finalmente le attrici hanno fatto la loro comparsa, il fenomeno del travestitismo maschile non è scomparso. Esiste, chiaramente, anche il travestitismo femminile, ma ha connotazioni ben differenti. Da un lato l’abbigliamento femminile, più vario e più appariscente, con tutti i suoi svariati orpelli, offre maggiori e più fantasiose possibilità agli uomini per mascherarsi; dall’altro la struttura maschilista del mondo ha fatto e fa sì che il travestimento delle donne passi in secondo piano e sia meno stigmatizzato, in quanto funzionale all’affermazione della società smaccatamente fallocentrica.
Gli attori, uomini, en travesti riappaiono nella versione comica e burlesca delle dames inglesi, dirette antecedenti delle regine contemporanee del travestimento maschile: le drag queens, ovvero letteralmente “regine dello strascico”: il termine, che fu coniato a inizio del XX secolo, deriva dalla moda del tempo. La maschera grottesca della dame non vuole assumere il ruolo femminile, come nel precedente teatro, ma si reinventa come satira alla donna e ai riti domestici. Questo tipo di pantomima comica decade intorno agli anni Sessanta, quando, grazie anche alla diffusione della televisione, si afferma il fenomeno del divismo, che i nuovi travestiti glamour abbracciano in pieno.
La presenza sociale e politica delle drag queens si afferma con la liberazione sessuale ed omosessuale, di cui furono protagoniste nella rivolta dello Stonewall In di New York nel 1969. Il 28 giugno, a seguito di un violento scontro con la polizia, avvenuto nella notte precedente, circa 2000 tra omosessuali, travestiti, transessuali e queers sfilarono per le strade di New York per affermare con forza e determinazione la propria esistenza e volontà di riconoscimento. In prima linea c’erano le STAR (Street Transvestites Action Revolutionaries), capeggiate dalle attiviste drag queen Marsha P. Johnson e Sylvia Rivera. La lotta cominciata allora, quando il travestitismo era ancora illegale, per lo sdoganamento di queste “devianze”, continua tutt’oggi: risale, infatti, solo alle ultime settimane il depennamento da parte dell’OMS (Organizzazione mondiale della sanità) della transessualità dalle malattie mentali.
Il travestitismo drag esplode, come fenomeno di costume, negli anni Ottanta, ma era già presente nei teatri underground. Ancora a New York, nell’East Village, nascono i balls, i balli, vere e proprie battaglie a suon di sfilate tra gruppi di female impersonators. Citando una drag diva del momento, Lipsynka, ciò che avveniva allora «non era solo glamour o politica: era moda, era performance, era visual art, era musica, era gente che guardava e ricreava la cultura del passato e la proiettava nel futuro».
L’arte del travestimento ha affascinato moltissimi artisti, da Rrose Sélavy, alias Marcel Duchamp, a Cindy Sherman, l’ambiguità dell’appropriazione mai totalmente mascherata attraversa i compartimenti stagni delle identità, dei generi e delle epoche. La pratica travestitica delle drag queens non aspira all’adesione totale all’immagine femminile, come nel caso dei transessuali, ma è un’attività performativa: un’imitazione esplicita, esagerata, esibita ed esibizionista. Le teorie femministe hanno spesso considerato il drag misogino e degradante per l’immagine della donna, ma il travestitismo delle regine non è affatto acritico. Al contrario, mette in luce la fallibilità delle categorizzazioni sessuali di una società eterodiretta. Con parrucche esorbitanti, costumi scintillanti e l’irriverente eleganza che le contraddistingue, la performance delle drag queens mette in discussione proprio quell’unità di sesso e di genere che è stata a lungo sostenuta, e lo fa attraverso l’espediente dell’ironia e della parodia. Afferma Judith Butler: «nell’imitare il genere, il drag rivela implicitamente la struttura imitativa del genere stesso, nonché la sua contingenza».
Oggi il drag, che è pur sempre stato legato ai palchi di pub e locali, è diventato in gran parte un fenomeno commerciale, volto a esibizioni da discoteca. Nonostante sia in un certo senso svilito della sua valenza sociale, continua a mettere in croce gli stereotipi sessuali della nostra cultura, ancora fin troppo bigotta. Con la loro eccentrica esuberanza, le drag queens smascherano la crisi delle cosiddette identità di genere, definite da confini, finalmente, sempre più labili. L’ostentazione esagerata di cliché femminili (e maschili) ne smaschera l’insita finzione. In fondo, come dichiara la drag star RuPaul: «We’re all born naked and the rest is drag» ovvero “Nasciamo tutti nudi e il resto è travestimento”.

Bibliografia minima di riferimento:

JUDITH BUTLER, Questione di genere: il femminismo e la sovversione dell’identità, Roma, GLF Editori Laterza, 2017

GILLO DORFLES (a cura di), Gli uni & gli altri : travestiti e travestimenti nell’arte, nel teatro, nel cinema, nella musica, nel cabaret e nella vita quotidiana, Roma, Arcana, 1976

KRIS KIRK, ED HEATH, Uomodonna, Como, Lyra Libri, 1987

FLAVIA MONCERI, Oltre l’identità sessuale: teorie queer e corpi transgender, Pisa, ETS, 2010

SERGIO PERRI, Drag queens. Travestitismo, ironia e divismo «Camp» nelle regine del nuovo millennio, Castelvecchi, 2000

STEVEN P. SCHACHT, LISA UNDERWOOD, The Drag Queen Anthology: The Absolutely Fabulous but Flawlessly Customary World of Female Impersonators, Taylor & Francis Inc, 2004

 

Margherita Dellantonio

Margherita Dellantonio consegue la laurea in “Beni culturali (archeologici, artistici, musicali e dello spettacolo)” nel 2017 presso l’Università di Roma Tor Vergata, con una tesi in “Metodologia e critica dello spettacolo” dal titolo Vasilij Kandinskij e il teatro, in cui analizza la poetica dell’artista, traducendo inoltre dal tedesco alcune sue drammaturgie inedite in Italia. Nel 2013 collabora come traduttrice di lingua inglese con la compagnia Teatrincorso di Trento. Nel 2016, durante un anno di Erasmus presso l’Università Complutense di Madrid, lavora come assistente di produzione de La Joven Compañía, progetto dell’associazione Jovenes al Teatro. Nel 2017 partecipa al premio Scenario Infanzia in qualità di scenografa della compagnia I Fuochi, che si classifica per la semifinale con lo spettacolo Come un battito d’Ala. Attualmente frequenta il corso di laurea magistrale in “Teatro, cinema, danza e arti digitali” dell’Università di Roma La Sapienza.