(Dis)educazione pornografica

di Doralice Pezzola

San Lorenzo, Roma, 2015 – ph Riccardo Contrino

Una celebre frase di Viriginia Woolf recita: «A feminist is any woman who tells the truth about her life» (ovvero: una femminista è qualsiasi donna racconti la verità sulla propria vita). Virginia Woolf è morta nel 1941. Non ha visto la rivoluzione sessuale, il femminismo radicale degli anni Settanta e il suo declino, la queer theory, il nuovo femminismo. Eppure, più di settant’anni dopo, dentro quell’aforisma reso trito dall’utilizzo, sopravvive una questione ancora tanto problematica da risultare lacerante: quale sia la “verità” sulla vita che una donna conduce, può condurre, dovrebbe condurre, si vuole che conduca.
Scomodiamo Virginia Woolf e il femminismo per parlare di una delle questioni più sotterranee e allo stesso più presenti del nostro tempo: la pornografia.
Che c’entra ? In effetti, il dubbio potrebbe essere legittimo: dare una risposta netta a una domanda tanto incalzante è difficile. Da sempre, tanto il femminismo quanto la pornografia mettono a dura prova chiunque si lanci nell’arduo compito di definire l’uno o l’altra, e a metterli insieme, poi, ci si infila in un bell’inferno (o paradiso) di complessità, di cui è necessario tener conto per non cadere nella trappola di scivolose semplificazioni.
Cosa hanno in comune femminismo e pornografia è presto detto: entrambi hanno profondamente a che fare con il corpo della donna e le sue rappresentazioni. Ecco il nodo, il punto in cui impattano questi due universi giganti. Ci ha preparato Derrida, quando diceva che le immagini non sono mai innocue. Una rappresentazione di qualcosa non è un oggetto passivo, morto, che si limita a fissare quel qualcosa com’è stato in un dato momento: l’immagine non esprime soltanto una realtà, ma crea quella stessa realtà nel momento stesso in cui la rappresenta. Vale allora la pena chiedersi quali realtà crei la pornografia a proposito del corpo della donna, del desiderio femminile, della sessualità in senso più esteso. E soprattutto, vale la pena chiedersi per chi le crea.

La pornografia è un contenitore non solo dai confini labili, ma pieno di sottocategorie che sarebbe qui ingenuo pretendere di prendere in esame nella loro globalità. Quel che preme, ora, considerare è la cosiddetta pornografia mainstream, quella in cui si inciampa nei banner pubblicitari: la pornografia “di massa”, che è un prodotto specifico dell’era di internet.
Aprendo uno qualsiasi dei maggiori siti pornografici – YouPorn, PornHub, YouJizz… – le prime categorie che ci troviamo davanti saranno: i video più recenti, i video più popolari, i video “consigliati per noi”. L’impatto è questo: tanti piccoli riquadri messi in fila, dentro ai quali stanno altrettante piccole donne (accompagnate a volte da parti di corpi maschili), non identificate e non identificabili ad eccezione di pornostar consolidate, per le quali si sceglie di citare il nome d’arte nel titolo del video. Il resto dei titoli funziona da descrizione del contenuto («coppia italiana amatoriale scopa davanti alla telecamera») e da prima scintilla per l’innesco dell’eccitazione nell’utente («giovane pornostar nera rende la giornata speciale al maggiordomo»), catapultato dentro un’interfaccia che suggerisce una completa spersonalizzazione dei modelli e delle modelle che fanno capolino dai video. Quella accovacciata lì per terra intenta a praticare una fellatio all’uomo senza testa (è fuori dal riquadro) non ha un nome né una storia, non è in alcun modo un “essere strutturato”. La studiosa Annalisa Verza, ne Il dominio pornografico, si spinge ad affermare che, «poiché le immagini potrebbero virtualmente rappresentare chiunque […] una donna sta per le donne».
Il “suo” corpo femminile finisce per stare per “tutti” i corpi femminili. E quel corpo, nella pornografia mainstream, è esteticamente e funzionalmente condizionato da codici piuttosto precisi, dei quali proviamo qui a fare un rapido elenco per necessità di sintesi: generalmente giovane (fanno eccezione le MILF: Mother I’d Like to Fuck), pube completamente glabro (in cui alcuni studiosi hanno visto un richiamo al mondo infantile), assenza dei cosiddetti “inestetismi” (e anche su questo termine ci sarebbe da discutere) della pelle come smagliature, cellulite. Infine, nella pornografia non esistono donne struccate. Allontanandoci di un passo dall’aspetto del corpo per accostarci alla presentazione che attraverso il corpo viene fatta dell’individuo, possiamo appoggiarci alle osservazioni compiute dallo studioso Pietro Adamo in La pornografia e i suoi nemici: «Le donne sono in genere presentate come ampiamente disponibili al sesso casuale […] la camera evidenzia costantemente l’atto della penetrazione genitale; il volto della donna viene ripreso regolarmente per metterne in rilievo “l’estasi”, mentre quello maschile è raramente inquadrato […] il maschio eiacula sul corpo o sul volto della donna, spesso in ginocchio o supina; le dichiarazioni d’amore o d’affetto sono estremamente rare […] il ruolo della donna è genericamente passivo».

Sia detto chiaro e tondo: la pornografia non è una stregoneria. Guardando un video pornografico non diventiamo automaticamente sessisti convinti, subitaneamente schiavi della perversa realtà simbolica che ci viene proposta a proposito della sopracitata “verità sulla vita di una donna”. Del resto, la parola stessa “pornografia” è un composto di pòrne, il greco antico per “prostituta” e graphè, “scritto”: vuol dire rappresentazione di prostitute, delle donne come prostitute. Ma non è il male da tenere lontano con la croce e con l’acqua santa, nemmeno quella mainstream. La pornografia di massa è quel che è: ossia una costruzione artificiale – lo è ogni film, per quanto real-core – realizzata per compiacere le fantasie sessuali di un pubblico maschile eterosessuale, o quantomeno quelle che culturalmente si suppone siano le fantasie sessuali di un pubblico maschile eterosessuale. Una donna passiva, ardente di desiderio, non soltanto ossessivamente dedita al fallo di turno, ma immancabilmente appagata dalle mosse meccaniche di un uomo che, data la scarsa presenza in video, potrebbe essere chiunque, costituisce di certo un inventario non indifferente di rassicurazioni. Rassicurazioni circa la possibilità di dominare, o quantomeno di sopravvivere, di non essere sopraffatti da questo essere “mostruoso” che la donna, il primo “altro”, “diverso” dall’uomo, ha rappresentato nei secoli dei secoli per il maschile.

Appurato che l’immagine della donna proposta dalla pornografia mainstream è preesistente all’era digitale, il tassello aggiunto alla questione dall’incontro di internet con “il porno” appare piuttosto chiaro: è l’ultra-accessibilità. Nel momento in cui il web è diventato un luogo in cui è possibile recarsi con una grande facilità, anche la pornografia – dapprima relegata in magazines dedicati e videocassette che necessitavano di essere acquistate fisicamente – è diventata un’esperienza alla portata di tutti, che si può fare gratis, in qualsiasi momento, e a qualsiasi età si sia in grado di maneggiare un computer, uno smartphone, un tablet.
Chiunque, a prescindere dal suo stato psicofisico, dalle sue nozioni sulla sessualità, dalle sue nozioni sul funzionamento di un’opera filmica, dalle sue consapevolezze su se stesso e sugli altri come individui sessuali, può accedere istantaneamente a luoghi dove convivono miliardi di rappresentazioni del corpo e del sesso, e in cui non viene fornito nessuno strumento per farsi strada fra di esse. È molto plausibile allora che possa verificarsi il più banale dei fraintendimenti: la pornografia presa per la sessualità. Ovvero che l’opera pornografica mainstream diventi strumento involontario e inconsapevole di educazione erotica e sentimentale. La pornografia con tutto il suo carico di verità distorte e preconfezionate, delle quali è ben possibile che il fruitore finale abbia coscienza nulla, e alle quali gli sarebbe in quel caso impossibile approcciarsi, se non con spirito critico, quantomeno con un’adeguata consapevolezza di cosa sta guardando.

Nel 2010 l’Organizzazione Mondiale per la Sanità ha elaborato un documento che suggerisce a quali età e con quali contenuti sarebbe opportuno introdurre alla coscienza della sessualità i bambini e gli adolescenti, cioè quegli individui che si stanno formando come persone attraverso gli strumenti che il resto del mondo propone (o non propone) loro. Nella tabella riassuntiva di questo documento, la pornografia figura come argomento con cui sarebbe necessario confrontarsi già nella fascia 9-12 anni, e mantiene la sua posizione nella fascia 12-15 anni. Sono dati parlanti: ci dicono che, nel 2018, la pornografia entra nella vita di un individuo prima del sesso; se non costituisce il primo vero e proprio abecedario dell’erotismo, è in ogni caso una rappresentazione talmente potente da avere buonissime probabilità di insediarsi prepotentemente in un immaginario in formazione. A quell’immaginario andrebbero allora, forse, donati gli strumenti critici per interpretare quella rappresentazione nella sua complessità. Negli ultimi vent’anni alcuni tentativi sono stati fatti in tal senso – il documento del’OMS ne è una prova – in vari Paesi del mondo, che si sono dotati di una legge che preveda l’obbligatorietà dell’insegnamento dell’educazione sessuale nelle scuole. In Italia una legge del genere non esiste: la pornografia, così come il sesso, imbarazza, soprattutto se si tratta di parlarne seriamente. Prenderne in considerazione la responsabilità sociale, non è nemmeno ipotizzabile. Di pornografia, in Italia non si parla proprio: il dibattito teorico e politico sul tema è oggi pressoché assente (eppure, per le aule del nostro Parlamento è passata Ilona Staller).

È sciocco, allora, sperare che il sistema scolastico possa farsi carico in maniera esclusiva della formazione sessuale e sentimentale dell’individuo, che possa insegnare che il mondo è un posto complesso, stratificato. E che il succo della “verità sulla vita di una donna” è che non esiste, ed esistono invece tante verità quante sono le persone che le incarnano. La società in cui siamo calati (e di cui siamo artefici) tira in direzione opposta: verso la semplificazione commerciale, l’etichetta che inquadra e rende innocua ogni energia eversiva. A ben vedere, il problema non sembra nemmeno essere davvero la messa in mostra di un determinato stereotipo femminile, o la presentazione della donna come soggetto passivo subordinato-violato, quanto piuttosto l’assenza di alternative che costituiscano la base per un confronto e che restituiscano la variegata molteplicità delle possibilità del reale. Uno spettro più ampio di rappresentazioni del corpo e del desiderio femminile che riuscissero a confluire nei circuiti del mainstream potrebbe costituire il primo passo concreto nella formazione di fruitori e cultori del porno meno “indifesi”.

Una piccola rivoluzione, a tal proposito, si sta verificando nel luogo più inaspettato (o forse il più ovvio) proprio in questo momento. La pornografia cova uova di strane, nuove specie, in seno a se stessa. Del resto, per sua stessa natura anti-censorio, il porno è forse il terreno più fertile per la sperimentazione e, magari, il cambiamento. Avviene così che negli ultimi dieci anni siano comparsi, qua e là, dei festival che si fanno portavoce di un modo di vivere la pornografia più libero e festoso. È il caso, ad esempio, del giovanissimo Hacker Porn Film Festival che «nasce a Roma per dare valore e visibilità alle produzioni indipendenti che fanno dei corpi, della sessualità e delle transizioni tra i generi, nuovi soggetti d’indagine e ricerca».
Avviene anche di più: una generazione di registe donne ha deciso di lanciare il proverbiale sasso nello stagno, rovesciando i codici della pornografia dall’interno. Così Erika Lust, in Spagna, si propone di restituire al sesso in scena una dimensione emotiva non scollata dall’atto fisico; in Francia dieci registe vengono coinvolte da Canal Plus per girare la serie Xfemmes, composta da dieci episodi con il dichiarato obiettivo di produrre film pornografici con un punto di vista femminile; in Italia nasce un collettivo di undici registe capitanate da Monica Stambrini, “Le ragazze del porno”, che grazie ad un crowdfunding e ad una raccolta fondi nel mondo dell’arte mettono in piedi Mysex, progetto di cinematografia “porno-erotica” il cui primo risultato ha visto la luce nel 2016 col nome di Queen Kong: si tratta di un radicale rimescolamento dei codici di genere che vede Valentina Nappi (la pornostar napoletana) nelle vesti di un satiro che seduce sfrontatamente un uomo. Mysex prende le mosse a sua volta da Dirty Diaries, un progetto della regista svedese Mia Engberg, stavolta finanziato da un’organizzazione statale, la Svenska Filminstituten. Mia Engberg ha scritto un manifesto che dice tra l’altro:
«2. Difendi il diritto di essere arrapata. La sessualità maschile è considerata una forza della natura che va soddisfatta a tutti i costi. Quella delle donne viene accettata solo se si adatta ai bisogni dell’uomo. Sii arrapata a modo tuo. […] 4. Distruggi capitalismo e patriarcato. L’industria del porno è sessista perché viviamo in una società patriarcale e capitalista. Si arricchisce dei bisogni che la gente ha di sesso ed erotismo e nel farlo sfrutta le donne. Per combattere il pornosessismo devi distruggere capitalismo e patriarcato. […] 10. Fai da te. L’erotismo è buono e ne abbiamo bisogno. Siamo fermamente convinte che sia possibile creare un’alternativa all’industria pornografia mainstream facendo i film sexy che ci piacciono».
Pornografia, femminismo: ripartiamo da qui. Virginia Woolf, sei d’accordo?

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Link utili
http://www.hackerpornfest.com/
https://www.mymovies.it/film/2016/leragazzedelporno/
http://miaengberg.com/

Bibliografia minima
B. Di Marino. Hard media. La pornografia nelle arti visive, nel cinema e nel web. Johan & Levi, 2013
A. Verza, Il dominio pornografico. Femminismo e liberalismo alla prova. Napoli, Liguori, 2006

Filmografia minima
Porno & libertà (Carmine Amoroso, 2016)
Hot girls wanted (Jill Bauer, Ronna Gradus, 2015)
9 to 5: Days in Porn (Jens Hoffmann, 2008)

 

Doralice Pezzola

Doralice Pezzola nasce il 12 dicembre 1991. Si forma come sceneggiatrice per il cinema presso l’Accademia di Cinema e Televisione Griffith e successivamente presso la Scuola D’arte Cinematografica Gian Maria Volonté. Ha scritto per Spaziofilm, è un membro fondatore dell’associazione cinematografica Greve61, e ha collaborato come sceneggiatrice a Tanabata di Riccardo Bolo (2012), Let’s go di Antonietta De Lillo (2013), Uno, nessuno di Daniele Vicari (2015), Il flauto magico di piazza Vittorio di Mario Tronco e Gianfranco Cabiddu (in lavorazione). Laureata con lode in Letteratura, Musica, Spettacolo presso Sapienza Università di Roma con una tesi sul regista teatrale contemporaneo Dimitris Papaioannou, frequenta attualmente il corso di laurea magistrale in Teatro, Cinema, Danza e Arti Digitali.