La danza africana tra stereotipo e contemporaneità. Intervista a Cristiana Natali

di Dario La Stella

Abomey, Benin, 2016 – ph Lucia Perrotta

L’Africa, una terra sconfinata di circa 30.221.532 km² (tre volte l’Europa), suddivisa politicamente in 54 stati nati da mappe militari redatte nei secoli dai coloni europei. All’interno di questi confini vivono circa 1.100.000.000 di persone, parlanti circa 2000 lingue, di cui la maggioranza è bi-lingue se non tri-lingue (quella europea, quella precoloniale o postcoloniale, e quella della religione di appartenenza). Eppure di questa sconfinata terra ricca di una diversità culturale immensa si ha spesso un’immagine unitaria profondamente e rigidamente radicata. Anche tra le persone più colte “loro”, gli africani, sono un’unica cultura, arretrata, selvaggia. Tutti gli africani sanno danzare perché “loro” hanno il ritmo nel sangue, sono passionali, sensuali, istinto puro. Sembrano discorsi da vecchi cacciatori in tenuta color kaki, col fucile su una spalla, aggrappati al roll-bar di una Land Rover che attraversa l’altopiano del Kenya. Eppure recentemente una mia collega parlando di un gruppo di richiedenti asilo con i quali stiamo lavorando, mi dice: «Sai è difficile sapere veramente quanti anni hanno, perché vedi “loro” comunque dimostrano meno dell’età che hanno». Nel gruppo ci sono persone che arrivano da Nigeria, Senegal, Ghana, Mali, Costa d’Avorio, Guinea, alcuni musulmani, altri cristiani. Questo “loro” comincia a diventare un po’ troppo comprensivo. Ma è pur vero che solo chi affronta in maniera approfondita il tema del confronto culturale può erodere quel pensiero eurocentrico che vede le altre culture ridursi a semplificazioni e stereotipi. L’antropologia in questo caso è un utile strumento per svelare cosa si cela oltre il velo dell’immagine stereotipata di una cultura. Parlando quindi di cultura della danza, ho chiesto a Cristiana Natali, docente di Antropologia Cultuale e Metodologie della ricerca etnografica all’Università di Bologna, nonché coreografa ed insegnante di danza afro, di togliere alcuni di questi veli e provare a dare un’immagine più sfaccettata e coerente della danza africana nel panorama contemporaneo.

Quando diciamo “danza afro” di cosa stiamo parlando?

La danza afro che facciamo noi in Europa è il risultato di una svolta avvenuta negli anni Sessanta. Molti danzatori africani che sono arrivati in Europa, soprattutto in Francia per ovvie ragioni legate alle catene migratorie, e hanno deciso di elaborare una tecnica che fosse in qualche modo nobilitante. Era un’arte che veniva sentita inferiore: si diceva che la danza africana è qualcosa che si ha nel sangue, quindi che non ha bisogno di apprendimento, che è istintiva, spontanea: insomma non è una tecnica. Molti di questi insegnanti, tra cui Elsa Wolliaston, hanno voluto costruire una tecnica che fosse comunicabile al mondo non africano, e che non avesse nessuna esigenza di tradizionalità e quindi in un certo senso che prendesse da diverse culture (soprattutto dall’Africa occidentale) e si sottraesse agli stereotipi. Tutto il lavoro fatto in Europa e negli Stati Uniti era una lotta all’idea che la tecnica di danza africana non fosse una tecnica come le altre ma fosse qualcosa di selvaggio, primitivo e spontaneo. Quella che insegniamo noi è un’eredità di quello stile. Oggi possiamo trovare tanti stili diversi perché nel frattempo è tutto cambiato, c’è stata una migrazione molto più massiccia, si sono sviluppate molte scuole. In uno dei centri più importanti per la danza africana, Le centre Momboye di Parigi diretto dal coreografo Georges Momboye, si possono trovare stili differenti: quello guineano, quello maliano, quello del Burkina e così via. Però la danza afro è l’eredità di quella prima svolta degli anni Sessanta.

Una svolta che ha coinciso con la decolonizzazione…

Certo, è chiaro: quelle che noi oggi chiamiamo “danze tradizionali africane” in realtà sono repertori di quel decennio, un periodo nel quale, a seguito dell’indipendenza, si cercava qualche cosa che unificasse i vari gruppi che erano stati inclusi dentro confini assolutamente artificiali come le Nazioni. Quindi si promuovevano progetti per cercare, nei vari villaggi, le differenti danze locali, come la danza Wolof o quella Serere, per metterle poi insieme sul palcoscenico. Un’operazione molto lontana, per gli spettatori locali, dalla “tradizione”. Questi sono diventati i repertori poi utilizzati dai vari Ballets Africains: “ballet” proprio per rivendicare uno status uguale a quello delle altre tecniche di danze tra cui il balletto.

Quindi la danza afro nasce anche con una valenza politica?

Assolutamente sì. Forse, più che definirla politica, meglio dire “politico-sociale”, nel senso di una rivendicazione di un’identità di danza che non era quella presunta abitualmente dal pubblico europeo. Katherine Dunham, antropologa e danzatrice di origine haitiane, che ha lavorato negli Stati Uniti, è stata spinta da simili motivazioni quando ha fondato una tecnica. Non è un caso che i grandi coreografi, i grandi insegnanti di danza africana, non sopportino la frase «ha la danza nel sangue». Alphonse Tiérou ha scritto un intero libro per contrastare questo stereotipo, perché se affermi «hanno la danza nel sangue», significa che non fanno fatica ad imparare, che la danza non è pratica complessa. Per questo motivo, ad esempio, negli Stati Uniti, a inizio Novecento, non venivano date borse di studio ai neri perché «tanto non ne avevano bisogno».

Mi rendo conto che è spesso molto facile cadere in quelle trappole, così radicate, che sono gli stereotipi sulle altre culture. Molti preconcetti delineano ancora l’Africa come luogo in cui la cultura non si è evoluta. Parlando invece di contemporaneità, se diciamo “danza afro contemporanea”, di cosa stiamo parlando?

Questa è una bella domanda, perché ci troviamo di fronte a una realtà che include tecniche estremamente diverse. Innanzitutto, per quella che viene chiamata “danza afro contemporanea” in Italia, possiamo sinteticamente dire che chi la fa ha una forte preparazione in contemporaneo nella quale inserisce degli elementi di afro. In sintesi coreografie pressoché contemporanee con elementi di afro. Per quanto riguarda la danza contemporanea africana, invece, molti la identificano ad esempio con lo stile del coreografo Salia Sanou che ha lavorato con Mathilde Monnier. Si tratta, sostanzialmente, di coreografie eseguite da danzatori africani che lavorano sul contemporaneo. Però, molto spesso, questi coreografi si risentono di sentirsi chiusi in questa definizione. Dicono «voi non parlate di “danza contemporanea europea”, allora perché dobbiamo definire una “danza contemporanea africana”?». Si sa che non esistono diplomi per questa tecnica, tranne per la cosiddetta “danza di espressione africana” che è appunto quella che oggi chiamiamo danza afro. Insomma, in realtà ognuno fa un po’ quello che vuole, c’è veramente di tutto!

Che funzione ha oggi la danza africana in Africa? Ha ancora una funzione sociale e politica? Mi sembra di intuire che la danza africana sia una riduzione di uno stile fine a stesso, che sia quindi più lontana da una dimensione di critica sociale. Qual è la dimensione politica del danzatore africano in Africa?

Oggi in Africa, come abbiamo detto, c’è veramente di tutto. L’impegno politico è presente, ad esempio, come denuncia del razzismo, dello sfruttamento sociale: come in tutte le realtà del mondo la danza viene utilizzata a livello politico. Si può far una grossa distinzione tra le danze cosiddette di svago, di divertimento, quelle che sono legate a momenti di spettacolo o infine quelle che sono legate a momenti rituali: tutte queste dimensioni convivono. Dal punto di vista dello “svago” c’è una fortissima componente giovanile legata all’hip-hop. Dal punto di vista rituale, invece, la danza riveste ancora una enorme importanza, e questo lo vediamo anche nelle diaspore. E infine ci sono i coreografi che fanno un lavoro dichiaratamente politico, che può essere anche risignificazione della danza classica. Dada Masilo, danzatrice sudafricana, ha realizzato il suo capolavoro, un Lago dei cigni afro, con interpreti uomini che si amano, affrontando non solo il “discorso gender”, ma anche il problema dell’AIDS. La rivisitazione dei balletti tradizionali alla luce delle problematiche contemporanee è chiaramente un’operazione politica. Nonostante simili casi di innovazione, ci sono ancora molti preconcetti sulla danza africana. In Italia per esempio la danza afro è stata portata e diffusa dai fratelli Katina e Bruno Genero. Hanno lavorato tantissimo per sottrarre questo stile agli stereotipi, con un rigore necessario a fronte dell’opinione che si aveva di quella tecnica.

Lo stereotipo è sempre quello del folklore…

Sì, il folklore là, in Africa, e qui i bonghi, la musica per strada. Katina era inviperita rispetto a questi stereotipi: che la danza afro si fa facilmente, in modo approssimativo, ci si mette a battere sul ritmo dei tamburi… Invece no, servono musicisti esperti, danzatori esperti.

E in Italia c’è finalmente una maggior conoscenza di questa tecnica o siamo ancora legati agli stereotipi?

Nel momento in cui il pubblico è abituato a una certa percezione di questo stile di danza, spesso si legge qualsiasi spettacolo, indipendentemente dalla proposta scenica che viene fatta, in modo stereotipato. Non è facile: per quel che mi riguarda, sono molto favorevole e faccio lezioni-spettacolo nelle scuole, in cui spieghiamo le distorsioni degli stereotipi e facciamo sperimentare ai ragazzi la tecnica, in modo che comprendano anche la possibilità, la fruibilità di una tecnica diversa. Ovvero sperimentino l’incontro con un nuovo linguaggio che, anche se non è il proprio, può comunque essere sentito come proprio. In questo senso, è molto interessante quello che diceva l’antropologa della danza, anche se lei non vuole essere chiamata così, Drid Williams: «è curioso che se uno studia una lingua altra, la gente dica “ah come sei bravo!” e invece, se uno studia una danza altra, sembra che si impossessi abusivamente di un repertorio non suo». La danza è un linguaggio e come tale si può adattare alle singole caratteristiche. Ad esempio una famosa danzatrice del Burkina Faso, Irène Tassembedo mi raccontava: «Le più brave a fare danza afro in Europa sono le finlandesi e le italiane, ma non so perché».
Nel mondo della danza, gli storici hanno ancora molti stereotipi per quel che riguarda la danza primitiva. Da quando si è scritto che il balletto è una “danza etnica”, si è lavorato sul concetto di danza etnica. Adesso c’è un dialogo, che fino a poco tempo fa non esisteva, tra storici della danza e antropologi: i miei studenti ora sanno che la categoria di danza etnica è una categoria vuota. O tutte le danze sono etniche o non lo è nessuna.

Mi è capitato un caso contrario: durante i laboratori con un gruppo di ragazzi richiedenti asilo, dopo circa 4 mesi di lavoro, arriva una ragazza nigeriana e mi mostra su Youtube una danza tipica del suo villaggio, chiedendomi se la aiutavo a condividere il video. Io, forte dei miei studi in antropologia, le chiedo che funzione avesse quella danza, in quali occasioni si facesse, eccetera. Lei mi guarda stupita e mi dice che semplicemente la fanno per divertirsi!

Sono molto affascinata dal fatto che la danza e la musica siano arti vive: o incorporano la storia o non sono. A questo proposito, ho un aneddoto bellissimo: uno dei miei musicisti, senegalese, che ha lavorato 10 anni all’École de Sable con Germaine Acogny, discendente da una famiglia di Griot, mi spiega un ritmo tradizionale ternario. Gli chiedo da dove venisse, e lui dichiara «dalla tradizione». Sì, d’accordo ma come? «Quando venivo in treno ho visto come il controllore chiede i biglietti: di solito li chiede tre alla volta!» e quindi ha fatto un ritmo ternario. La danza e la musica muoiono se non sono in grado di incorporare il cambiamento. Molto spesso la gente non sa nulla di quella danza, anche questo è normale: magari viene usata per semplice divertimento, anche se in precedenza veniva usata per altro. Ci sono anche casi di danze del tutto inventate. Lo scuotimento verticale del corpo, la vibrazione che produce, in Africa occidentale si chiamava “portable” (ovvero “cellulare”) perché il cellulare vibrava e quindi i corpi avevano assorbito quell’elemento, quella vibrazione.

Leggendo il tuo articolo dal titolo Dal primitivismo all’autenticità. Le danze africane tra vecchi e nuovi stereotipi, apparso su “Danzare l’Africa oggi, eredità culturali, trasformazioni, nuovi immaginari”, edito da Università di Bologna, ho trovato interessante una citazione tratta dal libro dell’antropologa Anne Doquet sulla cultura Dogon. Racconta la Doquet che un ragazzo intervistato aveva affermato: «Quando si fanno danze per i turisti si danza a piedi nudi, perché i bianchi non amano vedere scarpe moderne. Ma quando, l’anno scorso, ho danzato per il dama [rito funebre] di mio padre, avevo le mie Adidas» (Doquet 1999: 258). Ecco mi sembra che questa citazione possa aiutare a comprendere l’Africa oggi, sicuramente non un mondo arretrato…

Tutt’altro che arretrato! È molto importante, ad esempio lavorando nelle scuole, togliere le idee stereotipate, altrimenti quello che una volta veniva chiamato “lavoro interculturale” rischia di avere l’effetto contrario. Penso alla maestra che dice: «lei è senegalese quindi sa ballare» puntando il faro su una ragazza che invece magari si vuole mimetizzare e non sa nulla di danze africane. Sono dell’idea che si debba far riflettere il pubblico: per esempio nel mio ultimo spettacolo ho usato la canzone Strange Fruit, portata al successo da Billie Holiday, una canzone sul linciaggio dei neri negli Stati Uniti del Sud, perché dobbiamo sempre ricordare da dove veniamo. La danza afro sembra sempre “allegria”, “ritmo di tamburi”: invece no, ogni tanto far riflettere è necessario.

 

Bibliografia minima:

Doquet, Anne
Le masques dogon. Ethnologie savante et ethnologie autoctone, Paris, Karthala, 1999

Natali, Cristiana
Percorsi di antropologia della danza, Milano, Cortina, 2009

Dal primitivismo all’autenticità. Le danze africane tra vecchi e nuovi stereotipi in “Danzare l’africa oggi, eredità culturali, trasformazioni, nuovi immaginari”, a cura di Giovanni Azzaroni, Cristiana Natali, Laura Budriesi, Arti della performance: orizzonti e culture n.9, Bologna, Università di Bologna, 2018

 

Dario La Stella

Laureato in Antropologia Culturale ed Etnologia con una tesi sull’arte performativa, dal 1997 conduce seminari e corsi sulla performance, ha insegnato per il CRUD (Università di Torino), presso la University of Washington a Seattle (USA) e il SESC Santo Amaro a San Paolo (BR). Dal 2011 produce progetti performativi realizzati in USA, Cuba, Brasile, Polonia, Germania, Francia, Belgio e Italia.