Il look total black. Storia del nero tra simbologie e guardaroba

di Margherita Dellantonio

Cape Coast, Ghana, 2016 – ph Lucia Perrotta

Il colore nero rappresenta ambiguità: è oscurità mortifera e terra feconda, notte spaventosa e buio da cui possono scaturire luce e possibilità, è simbolo di malinconia e di potere, di eleganza e di trasgressione. In questa sua ambiguità, il nero esprime perfettamente la dicotomia che caratterizza la moda: desiderio di distinguersi e desiderio di omologazione. Gli abiti neri delineano la figura, affermano l’individualità; allo stesso tempo proteggono come una corazza, ci rendono invisibili, possono simboleggiare l’appartenenza a un gruppo e a un pensiero.
Negli armadi, a ogni latitudine, si trova, oggi, almeno un capo nero. Ma fino al XIV secolo non era così. Il guaio dell’industria tessile, infatti, è che non sembrava possibile ottenere un nero intenso e duraturo. Poi, un po’ fortunatamente, si scoprirono le proprietà coloranti della noce di galla, ma il processo di tintura restò a lungo elaborato e costoso. Così, fino alla Rivoluzione industriale, con l’introduzione di mordenti chimici, gli abiti neri restarono appannaggio delle classi più abbienti e del clero, tanto da diventarne un simbolo distintivo. È nell’ambiente curiale che si introdusse l’usanza di portare il nero in segno di lutto: la consuetudine, già in atto nel Quattrocento, venne istituzionalizzata definitivamente in epoca Vittoriana. Nero, dunque, come emblema di ricchezza e potere, ma in qualità della sua sobrietà anche di morale e sapere. Come è noto, ben presto il nero divenne, infatti, il colore scelto da togati e religiosi, in particolare dai padri protestanti. Solo nel Settecento, dopo la scoperta di Isac Newton nel 1666 dello spettro dei colori, e la conseguente estromissione di bianco e nero dal sistema cromatico, vi fu, nelle corti, un ritorno ad abiti e mobilio dai colori sgargianti. Il nero perse parte della sua potenza e del suo fascino, ma la sua assenza dal vestiario non durò a lungo. Fu il Romanticismo, infatti, a riportarlo in voga: ispirati dal mantello di Amleto, il pallido prence nerovestito, i Romantici ne fecero il simbolo della loro malinconia e sofferenza, e dell’opposizione al razionalismo splendente del Secolo dei Lumi. A fine Ottocento, però, il nero acquista altre valenze: è anche il colore della metropoli, del carbone e della fuliggine che ricopre palazzi e passanti. Gli abiti scuri non sono più indossati solo per il loro potere evocativo, ma anche per la praticità nel nascondere sporcizia e polvere. Insomma, il nero entra lentamente anche negli armadi delle classi inferiori, come colore del lavoro.
C’è un’altra considerazione da fare. Se con l’Ottocento gli abiti neri sono ormai da tempo emblema del potere – economico, sociale e morale – restano comunque appannaggio del potere maschile. Alle donne il nero era riservato quasi esclusivamente per le occasioni luttuose, per quei lutti che si dovevano indossare a lungo, anche per una vita. A cavallo tra Ottocento e Novecento, tuttavia, con le prime rivendicazioni femministe delle suffragette, le giovani donne se ne appropriano, indossandolo con abiti dal taglio maschile, per rivendicare la parità di genere e la propria emancipazione. Le donne si riscattano dalla sfera domestica, bianca e immacolata, e da quella seduttiva, ma immorale, della femme fatale, per affermare con forza la loro esistenza. Ancora oggi, abbinato al viola o al rosso, il nero è il colore delle matrioske del movimento Non Una di Meno.
Ed è interessante notare la complessa parabola “politica” del colore nero: dapprima indossato dai poteri forti, religiosi o reazionari, diventa anche il colore emblematico di pirati e ribelli (chi non ricorda il Corsaro Nero di Salgari?), poi degli anarchici, con quelle loro bandiere nere e, nel XX Secolo, degli esistenzialisti, e ancora dei punk abbinato agli abiti di cuoio e pelle. Il nero si fa simbolo della contestazione, della sottrazione alle regole sociali e della sconcertante imprevedibilità del destino dell’uomo. Nella storia della simbologia del nero non può mancare, ovviamente, un accenno ai totalitarismi: dalle camicie nere del fascismo alle SS naziste, il nero è in questo caso utilizzato non solo come identificazione in un gruppo, ma come rafforzamento dello stesso nella creazione di una massa che incede spaventosa, violenta e mortale. È il nero che deve incutere timore, il nero dei regimi, della politica, della morte.
Oggi, ormai sdoganato da ideologie e simbolismi, grazie anche al lavoro di stilisti quali Coco Chanel o Hubert de Givenchy, il nero è alla portata di tutti. Il look total black resiste in alcune sottoculture, ad esempio la scena techno, ma la sua valenza simbolica si è fortemente indebolita. Nemmeno nella sfera del lutto l’abito nero è più obbligatorio. Lo indossiamo perché versatile, perché ci fa ancora sentire potenti, eleganti, ma anche protetti e liberi da giudizi. Come riporta l’antropologo Michel Pastoureau nel suo saggio Nero. Storia di un colore, secondo alcune inchieste sui colori preferiti effettuate in Europa e negli Stati Uniti, dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, il nero non si distingue più nella gamma cromatica: «Tra i sei colori di base – blu, verde, rosso, nero, bianco, giallo, qui citati in ordine di preferenza – il nero non è né il più apprezzato (blu) né il meno amato (giallo): per la prima volta nella sua storia si situa a metà della gamma. Che sia finalmente diventato un colore medio? Un colore neutro? Un colore come tutti gli altri?».

 

Margherita Dellantonio

Margherita Dellantonio consegue la laurea in “Beni culturali (archeologici, artistici, musicali e dello spettacolo)” nel 2017 presso l’Università di Roma Tor Vergata, con una tesi in “Metodologia e critica dello spettacolo” dal titolo Vasilij Kandinskij e il teatro, in cui analizza la poetica dell’artista, traducendo inoltre dal tedesco alcune sue drammaturgie inedite in Italia. Nel 2013 collabora come traduttrice di lingua inglese con la compagnia Teatrincorso di Trento. Nel 2016, durante un anno di Erasmus presso l’Università Complutense di Madrid, lavora come assistente di produzione de La Joven Compañía, progetto dell’associazione Jovenes al Teatro. Nel 2017 partecipa al premio Scenario Infanzia in qualità di scenografa della compagnia I Fuochi, che si classifica per la semifinale con lo spettacolo Come un battito d’Ala. Attualmente frequenta il corso di laurea magistrale in “Teatro, cinema, danza e arti digitali” dell’Università di Roma La Sapienza.