Femen, un movimento che sfida il potere

di Maria Grazia Turri

Election Protest Crucified Ukraine (Wikipedia)

La nascita ufficiale del movimento Femen è datata 10 aprile 2008 e la prima comparsa pubblica è nell’estate dello stesso anno a Kiev. Tre ragazze cresciute in una sconosciuta cittadina ucraina di 300.000 abitanti, Khmelnitskij, si sono presentate vestite da prostitute, indossando calze a rete strappate su delle belle lunghe gambe, scarpe con tacco e seni nudi. In sei mesi sono diventate 30 e poi fra il 2012 e il 2013 più di 300, aggregando in modo inaspettato anche donne che vivono nel mondo arabo, grazie al fatto che i media iniziarono a occuparsi delle varie azioni di protesta. Il 18 settembre 2012 fu aperto un centro Femen nel 18° arrondissement di Parigi e il giorno seguente il governo francese riconobbe ufficialmente l’associazione.
La figura di spicco al momento della nascita del movimento è quella di Anna Hutsol, che ha visto poi affermarsi come leader Inna Shevchenko, una giovane donna ucraina che con altre attiviste, era stata vittima di violenze molto pesanti quando il 19 dicembre 2011, a seguito di una protesta contro Aleksandr Lukašenko per una notte intera fu picchiata e cosparsa di benzina e gli agenti girovagarono intorno al suo corpo e a quello delle sue compagne con un accendino acceso, minacciando di bruciarla vive. Il movimento si schiererà in numerose occasioni contro le persone di Vladimir Putin, Presidente della Federazione Russa, Aleksandr Lukašenko, presidente della Bielorussia e Viktor Janukovič, presidente dell’Ucraina.
Shevchenko diventa nota al mondo quando l’11 febbraio 2013 organizza una manifestazione all’interno della cattedrale di Notre Dame per celebrare l’approvazione delle nozze gay e la rinuncia di Benedetto XVI al papato. L’esito violento che ne scaturisce genera per la prima volta un moto di fastidio per il movimento, che precedentemente, specialmente in Francia, aveva goduto di un occhio più che benevolo. Comunque in questo paese la considerazione positiva non viene mai meno tanto che nel novembre del 2017 Shevchenko riceve il France’s Secularism Award.
Proprio all’apice della sua popolarità mediatica le Femen subiscono un’incrinatura nell’immagine: nel settembre 2013, in occasione della presentazione del documentario sulle Femen, dal titolo Ucraine is not a Brothel, realizzato da Kitty Green e presentato alla 70° Mostra del Cinema di Venezia, la natura contraddittoria della figura di Viktor Sviatski balza sotto i riflettori mediatici. La regista, che ha vissuto alcuni mesi insieme alle attiviste, lo descrive come l’ideatore del movimento e, secondo numerose testate giornalistiche, l’uomo avrebbe dichiarato di aver creato il gruppo per “avere delle donne”. Dopo poco Inna Shevchenko afferma che Sviatski non ha mai fatto parte del movimento e le polemiche si placano.
Attualmente le Femen si appoggiano ad alcuni strumenti di comunicazione (il sito www.femen.org, Facebook, Istagram, Twitter, Youtube, Pintarest) per informare il mondo delle ragioni della propria causa, per farsi pubblicità, per cercare proventi che finanzino le loro azioni e gli spostamenti necessari per metterle in atto.
Le prime manifestazioni del movimento, indossando biancheria intima, si sono incentrate sulla lotta alla prostituzione. La pratica del topless è subentrata solo in seconda battuta a seguito dell’atto di Oksana Sachko, in cui l’attivista mostrava il proprio seno durante una azione a Kiev. Data l’attenzione mediatica ricevuta in quell’occasione, da allora le attiviste hanno manifestato sempre a seno nudo, facendo così diventare questa pratica il marchio distintivo della protesta.
Il logo Femen corrisponde alla stilizzazione della lettera cirillica Ф, in minuscolo ф, che corrisponde alla nostra F, quindi all’iniziale del nome del movimento, il che fa sì che si tratti anche del disegno molto stilizzato dei seni di una donna: due cerchi separati da una linea. Il colore è declinato sulla base delle tinte assunte di volta in volta dalla bandiera del paese delle aderenti al movimento, inizialmente la sola Ucraina.
Il movimento si definisce come il femminismo del terzo millennio e dichiara come obiettivo quello di “minare le fondamenta della società patriarcale”, rappresentata da dittatura, religione e sfruttamento/industria del sesso tramite. Da qui uno degli slogan: “Seni caldi, mente fredda e mani pulite”: il seno, generalmente visto come materno quindi caldo, perde qui la sua accezione più frequente assumendone una politica; la mente fredda è ciò che le attiviste devono riuscire a mantenere durante le loro manifestazioni, quando gettano stupore misto a panico fra i presenti; le mani pulite indicano la volontà di mostrarsi disarmate, completamente nude, vestite solo delle proprie ragioni, tanto che segno di questo elemento è la corona di fiori in testa, la cui foggia evoca il significato da questa acquisito negli anni ’60, grazie ai “figli dei fiori”, quale indice di pace e di equilibrio con la natura. Gli altri slogan “Dio è donna, la protesta è la nostra missione, i seni nudi le nostre armi!” e “Il mio corpo è il mio manifesto” ribaltano l’ossessione per il corpo e l’umiliazione per la mente, esibendo se stesse come teatro di idee.
Sono guardate alternativamente con stupore, interesse, scetticismo, disprezzo in tutto il pianeta, tanto che anche molte femministe occidentali, oltre che le femministe islamiche, si sono schierate contro la loro esibizione delle “tette”.
Le Femen non considerano invece per nulla facile spogliarsi in pubblico, tanto che le aderenti si sottopongono a una preparazione sia fisica che psicologica con corsi di teoria e pratica, in modo da essere preparate a un uso ben definito del linguaggio del corpo, sia nella fase dimostrativa che in quella nella quale possono essere aggredite dalle forze di polizia o arrestate e sottoposte a vessazioni e violenze. La sfida è quella di far fronte alla repressione senza incertezze.
Per le Femen il corpo, messaggero di libertà, è una tela sulla quale scrivere le proprie idee e la pelle il foglio bianco sul quale esprimersi, ma la modalità di scrittura non è libera, deve essere uguale su ogni corpo: lo stile personale non deve trasparire e deve essere coerente con il tema della protesta, conciso e diretto: “aborto sagrado”, “in gay we trust”, “no racism”, “justice fuck me”.
Prendendo atto che il corpo delle donne è utilizzato per vendere qualsia qualsiasi cosa, l’obiettivo delle Femen è quello di far sì che questo “venda” idee, quelle proprie del genere, mostrando così che non c’è nulla di più politico del corpo, in un’epoca storica nella quale la politica è intrecciata a filo doppio con l’economia, la quale mercifica oggetti, emozioni, sentimenti e ovviamente corpi, soprattutto femminili. Per loro si tratta di originare la transizione da un corpo spettacolarizzato a un corpo veicolo, utilizzando il medesimo linguaggio dei media per generare un cortocircuito, facendo sì che si affermi una presa di coscienza diversa della propria nudità. Non sono più i media a servirsi del corpo delle donne, ma loro stesse a mostrarlo come produttore d’idee e come scelta personale. La nudità è scelta, non imposta.
Il corpo, nell’ottica delle Femen, non è più un prodotto individuale, bensì uno strumento di affermazione politico e sociale e le idee che promanano dal corpo e sul corpo, individuale e sociale, sono in grado di produrre i loro effetti.
Un corpo che non evoca alcun desiderio e alcun piacere, né intende farlo. Il corpo delle Femen non ha nulla a che fare con il nudo degli artisti, piuttosto evoca il romanzo Il rombo di Ghunter Grass, un’allegoria della storia dominata dal potere virile che mette in letteratura una mater matuta con tre tette. Le Femen non sono artiste sofisticate come lo è stata l’avanguardia femminista, ma ne hanno ereditato il discorso comunicativo: un corpo messo in scena per sbeffeggiare il potere, prendendo così posizione, da un lato, sul diritto a fare la escort e, dall’altro, opponendosi al perbenismo moralista e ipocrita che vorrebbe le donne “per bene” e competenti tutte austere, accollate, possibilmente anziane, comunque de-sessualizzate. Una pratica particolarmente interessante perché inserita in un’epoca storica caratterizzata dalla mediazione delle nuove tecnologie, dal disembedding, dalla proliferazione di modi di comunicare sganciati dai “limiti del mondo fisico”.
Il corpo diventa così mezzo, messaggio e contenuto. Grazie a questo sincretismo le Femen sono diventate le modelle della protesta mondiale, le vetrine, le cover girl della quarta generazione del femminismo, intendendo attirare l’attenzione sulla società patriarcale, l’industria del sesso, le dittature, la violenza domestica, i nemici dei diritti omosessuali, bisessuali, transgender e intersessuate. Spazio e corpo si rivelano profondamente legati Fra loro nella loro natura dinamica e nella loro stretta dipendenza comune dalla sfera dell’azione. Si può infatti dire che il movimento abbia trovato un format, atemporale, di protesta spendibile in qualsiasi epoca e in ogni parte del mondo.
L’utilizzo del corpo da parte delle Femen non ha nulla di narcisistico, semmai è un eco narrativo del mondo e non del singolo. Un messaggio potente in quanto la narrazione è quanto più ci caratterizza come esseri umani, è il filo conduttore delle nostre esperienze e la nostra identità prende forma e consistenza all’interno di una struttura narrativa e di cui il nostro corpo è la plastica evidenza. Il supporto della narrazione sono i corpi e questi narrano – anche senza emettere parole – stili di vita, livelli culturali, personalità, comportamento.
Le Femen utilizzando il corpo come narrazione politica rompono così sia lo stereotipo del femminile – cura, dolcezza, bontà, spirito protettivo – sia del femminino – spregiudicate femme fatale, sadiche, mangiatrici di uomini – e incarnano, viceversa, a pieno titolo quello del femminismo – esigenti, rompiscatole –.

Maria Grazia Turri

Maria Grazia Turri è Docente a contratto di Linguaggi della Comunicazione per il Corso di Laurea in Management dell’informazione e della comunicazione aziendale presso l’Università degli Studi di Torino. Le sue aree di interesse sono la filosofia dell’economia e la natura concettuale delle categorie e dei modelli economici; l’ontologia e la metafisica degli oggetti sociali; la filosofia della mente con particolare attenzione alle ricerche neuroscientifiche sulla emozioni, sulle percezioni e sulle intenzionalità, le questioni di genere. È direttrice della collana di Mimesis Filosofie dell’economia e Relazioni Pericolose, è membro del Comitato Scientifico della rivista Scenari.
Ha scritto numerosi articoli e libri fra cui Gli dei del capitalismo. Teologia economica nell’età dell’incertezza (2014 Mimesis, Milano), Biologicamente sociali culturalmente individualisti (Mimesis, Milano, 2012), Gli oggetti che popolano il mondo (2011 Carocci, Roma), La distinzione fra moneta e denaro (Carocci, Roma, 2009). Ha curato diversi volumi come Il potere delle donne arabe (con Ilaria Guidantoni, Mimesis, Milano, 2015), Femen. La nuova rivoluzione femminista (Mimesis, Milano, 2013), Manifesto per un nuovo femminismo (Mimesis, Milano, 2013).