Il suono del silenzio tra visuale e teatro

di Sergio Lo Gatto

ph Nicola Tanzini

Se la parola ci sembra onnipresente, se la nostra cultura ci appare logocentrica, proviamo invece a immaginare quanto la nostra cultura sia basata sull’esperienza visuale. Basterebbe tenere pronto alla mano un manuale di storia dell’arte, ma anche solo un manuale di storia, per rendersene conto.
Le espressioni artistiche hanno sempre richiesto al fruitore innanzitutto l’impegno nel guardare, nel considerare le geometrie, nel completarle con l’atto immaginifico. Così gli atti di partecipazione politica, strettamente legati a immagini, colori, forme. Ancora prima che alla parola. La comunicazione – sia essa di carattere promozionale, culturale, sociale – neanche a dirlo, fonda nelle immagini il proprio impatto. Gli strumenti del comunicare tengono il logos come vertice terminale del processo di consegna dei messaggi, un logos ermeneuticamente limpido eppure non autonomo, intagliato nel contesto visivo nel quale si manifesta.

Dalla nascita della pittura del paesaggio, poi con l’introduzione della prospettiva, il nostro sguardo può vagare e spingersi oltre, mescolando le informazioni visive alla dimensione evocativa, all’estensione delle emozioni, alla presenza che è presenza di fronte a una presenza. Tutte architetture che non tolgono di mezzo la parola, ma che la ritardano, che ne rallentano l’avvento; la chiudono dentro un sistema di scatole cinesi che ne modifica il significante, ne espande il significato, inventando per essa soluzioni alternative, già filtrate dal moto di assorbimento innescato dalla vista.
Oggi la vista è di certo il senso più bombardato. Una parte gigantesca della realtà la osserviamo attraverso gli schermi, guardiamo riproduzioni fotografiche o immagini in movimento, una copia conforme che del vero tenta di riprodurre ritmi e durate. E quegli schermi – sempre più spesso, pensiamo ai social media – mandano immagini il cui commento sonoro è mutato di default, può essere attivato con un lieve tocco su un’icona. Ma i video quasi sempre parlano da soli. La parola parlata o scritta, ormai sintetizzata in titoli o brevi testi in sovrimpressione, è preda della dialettica visiva.

Queste pagine raccolgono «materiali per una politica non verbale». Il senso di queste note prova allora a ricavare dalla dimensione visiva l’essenza carnale di una parola trasfigurata, messa a tacere, compressa dentro forme di comprensione ibride con la contemplazione di un insieme di segni. E, in questo, le arti performative sono sempre state maestre.
Dall’iconografia teatrale ai sistemi di notazione del movimento, la pratica, la ricerca e l’intervento sulle arti della scena hanno pensato modalità di presentazione dell’esperienza che – da un punto di vista strettamente darwiniano – considerano sì le capacità “logogenetiche” dell’intelletto umano come universo di linguaggio comunicativo, ma vanno alla ricerca di una dimensione quarta, quinta, ennesima. Ibrida con il vissuto, incaricato di completare quell’esperienza e personalizzarne la presentazione.
Si fa fatica a non chiamare in causa gli anatemi apocalittici di Jean Baudrillard, secondo i quali ci saremmo tutti scagliati, a una velocità sempre più alta, contro i muri di una realtà doppia che ha perso ogni contatto con la propria dimensione referenziale. E, anche stavolta, una caratteristica topica delle arti performative è che sempre – nel contratto di fiducia con lo spettatore – esse includono una clausola che, non ammettendo la totale immedesimazione e costruendo una realtà evidentemente sintetica, lascia spazio a un meta-ragionamento. E quindi indipendentemente dal logos. Conquistata una rilevante esperienza di visione, ogni opera di arte performativa sembra, anche solo in parte, parlare di sé, sembra discutere il medium tramite i fatti del messaggio, per poi spingersi al di là di essi.
Ogni qualvolta un artista o un pensatore provi a scartare di lato ricercando o analizzando forme di espressione che aggirano la dimensione testuale e verbale, una problematicità entra prepotentemente in quel contratto di fiducia. Forse perché si chiede allo spettatore di abbandonare la lineare comprensione semantica. La quale, se anche la dimensione visuale è imperante, pare conservare il dominio del reame dell’apprendimento, della costruzione delle conoscenze.

E che cosa succede se quella parola, pure molto presente, si trasforma in silenzio? Gli esempi, nelle nostre arti di oggi, sono innumerevoli. Ne richiamiamo tre, diversi per presupposti e per risultato, in cui la pregnanza della parola viene gradualmente ingoiata dalla dimensione silenziosa – o comunque a-letterale – del sistema complesso dello spettacolo.

Alessandro Serra_Macbettu © Alessandro Serra

Il Macbettu di Alessandro Serra è molto più di un esperimento sul folklore e sulla tradizione sarda. Su un palco quasi spoglio sei attori di sesso maschile – in barba ai pochi ma determinanti ruoli femminili della tragedia elisabettiana – si muovono, interagiscono tra sé e con lo spazio. Parlano molto. Ma la lingua sarda è oscura ai non autoctoni e – in assenza di sopratitoli – il “dipartimento per la semantica” dello spettatore deve occuparsi di qualcosa di altro dal senso preciso delle frasi.
La parola scritta da Shakespeare si fa musica, si fa decibel, si fa ritmo, diventa tale a quale al commento della natura in un paesaggio esterno, più simile al canto degli uccelli, all’ululato dei lupi, allo scricchiolare delle foglie. Perché l’ambiente scenico ideato in questo lavoro gioca, prima ancora che sulla parola, sul suono e sul volume che essa produce.

Emma Dante Bestie di scena Ph Masiar Pasquali

Le Bestie di scena di Emma Dante, in un potente spettacolo di danza non accreditato come tale, sono corpi denudati dall’interno, divorati dal lavoro su muscoli e ritmi al punto che l’assenza delle vesti non ha modo di farsi provocazione, perché è semplicemente, ancora una volta, paesaggio. La parola si fa vagito, si fa indicazione di cadenza, torna a essere pre-letterale. Se ne intuisce il potere esercitato nella fase di creazione, che viene però riproposto in scena in una forma traslata, tradotta nel labor sull’abitazione dello spazio, nella modulazione delle distanze tra i corpi, soli eppure raccolti insieme come in un dipinto di Hieronimus Bosch. Ed ecco che torna la dimensione visiva, la contemplazione di un insieme, di un paesaggio somatico. E lo spettatore riesce a godere del “sistema” più ampio, lasciando alla parola – se proprio se ne vuole sollecitare uno – il compito di riorganizzare in sentenze di vitalità un percorso emotivo e simpatico, creato dalla vicinanza tra corpo del performer e presenza dello sguardo, uniti su un piano compatto e decisivo, nel senso che decide le sorti del rapporto stesso.
Da una parte, allora, il corpo camuffato, mummificato, mai davvero mostrato, divenuto tutt’uno con l’ambiente; dall’altro il corpo bulimico, che divora l’attenzione e fa dello spazio vuoto un’ennesima estensione muscolare, una tecnologia del sé che procede per negazioni di senso, per parole riconvertite in ruggito. Ecco come il teatro e la danza riescono a ibernare la parola scritta e quella parlata, creando un rumore bianco che ricostruisce, per sottrazione o per accumulo di segni, un paesaggio contemplativo.

Alessandro Sciarroni Aurora ph Matteo Maffesanti

Nella scena – quasi sempre bianco latte – di Alessandro Sciarroni, infine, si trova un’altra lezione radicale, quella del silenzio come istanza drammaturgica. Il suono ritmico, quello del pattern di Schuhplattler di Folk-s o del club-tossing dei giocolieri di Untitled_I Will Be There When You Die, copre l’assenza di parola e sembra restaurare un antico rapporto tra il corpo e la sua soggettività: il dispositivo scenico si fa nuova grammatica per (finalmente) non interpretare nulla, ma piuttosto decodificare il linguaggio del gesto nelle sue modulazioni di intensità e di frequenza. E se nel più recente Chroma_Don’t Be Frightened of Turning the Page il roteare potenzialmente perpetuo di un corpo e il suo dialogo con musica e luci assorbe il fuoco di attenzione e lascia appunto senza parole e senza fughe di senso, è nel terzo capitolo della trilogia Will You Still Love Me Tomorrow?, Aurora, che il silenzio prende il sopravvento.

Il goalball è uno sport basato sul silenzio. Il meccanismo agonistico e il dispositivo scenico – che su questo si basa e a questo si limita – funzionano e possono essere messi in opera solo a condizione che vi sia silenzio. I sei atleti non vedenti o ipovedenti, bendati al cento percento, localizzano la palla solo grazie ai sonagli che vi tintinnano all’interno. I corpi si muovono alla cieca sul terreno di gioco per acquisire delle posizioni che, allo sguardo, hanno una propria potenza visiva, ma sono in realtà pose funzionali alla performance sportiva.
La parola è assente, ma non lo è l’asse comunicativo, che unisce i giocatori tra di loro, le squadre con i due arbitri, gli abitanti del campo con quelli della platea. Il trillo della palla, lo scricchiolio delle suole di gomma sul linoleum bianco, i criptici segnali tra gli atleti sono, ancora una volta, le indicazioni di un paesaggio. Quando le luci si abbassano, lo spettatore è minacciato dall’assenza di visualità, ma il gioco procede, perché ha raggiunto la propria dinamica istituendo per tutti i presenti una condizione comune. E quando la musica si alza, ancora una volta quella relazione tra corpo e soggetto viene messa in discussione: mentre il gioco diviene impraticabile, il centro dell’opera diventiamo noi, così abili nell’osservare e nell’ascoltare, ma deprivati del significato che prima ci teneva al sicuro. Siamo distanti anni luce da un disastro che si compie perché il voto del silenzio è stato spezzato. E la nostra capacità di vedere è corresponsabile. In Minima Moralia, Adorno parla di «prossimità della distanza», la condizione in cui si trova lo sguardo quando spezza l’impulso di attenzione verso un oggetto specifico – che non viene così più incorporato – e si abbandona al tempo lungo e allo spazio ampio della contemplazione.

In questi esempi la dimensione visuale, la stessa così onnipresente perché capace di includere tutte le istanze della virtualità, cambia forma e riesce davvero ad aggirare la parola: in Aurora le regole del gioco cancellano il riconoscimento di una disabilità formulando postulati per la riorganizzazione di un linguaggio; in Bestie di scena la potenza politica di un corpo e le sue desolanti derivate esistenziali sono ridotte a un bilancio di prossemica; in Macbettu le superfici materiche della scena accolgono gli urti e li rimandano sotto forma di segnali a uno spettatore che ora può davvero lasciarsi andare alla non verbalità, compiendo un’azione che non ha più nessun bisogno del porto franco della parola, perché è la coscienza a rallentare quanto basta.
L’accelerazione è un processo funzionale. Zygmunt Bauman scrive che «il moderno pellegrino pratica un vivere verso il progetto. Il suo mondo è direzionale». In questi esempi, come in molti altri, si può così invertire la direzione, ritornare a uno stadio precedente del processo, “disinstallando gli aggiornamenti” che fino a un minuto prima sembravano fondamentali.
Un fenomeno che nel resto della nostra realtà non è permesso, ché la tecnologia applicata è qualcosa di eternamente orientato al progresso, qualcosa che tramuta la direzionalità in una bieca “fatticità”. Di cui la parola sarebbe suprema, e per questo autoritaria, giustificazione.

 

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Bibliografia:
Il concetto di “fatticità” è formulato da Byung-Chul Han nel volume Il profumo del tempo – L’arte di indugiare sulle cose. Vita e Pensiero, Milano 2017

 

Sergio Lo Gatto

ph Jennifer Ressel

Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale, ricercatore e traduttore. Alla Sapienza. Università di Roma svolge un dottorato di ricerca tra teorie della critica e filosofie del digitale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall’Union des Théâtres de l’Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Tra le pubblicazioni, con Graziano Graziani ha curato il volume La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013), con Matteo Antonaci Iperscene 3, Editoria&Spettacolo 2017.