Ritratto del teatrante da giovane (fumettista)

di Daniele Timpano

Locandina di “Ecce robot! Cronaca di un’invasione”, illustrazione di Alessandra D’Innella; locandine di “Acqua di colonia” e “Ottantanove”, illustrazioni di Valentina Pastorino

Non lo sa nessuno perché non è importante e perché un po’ me ne vergogno, ma da bambino e adolescente volevo fare il fumettista. Disegnavo molto, inventavo personaggi e storie strambe dapprima sui quaderni di scuola delle elementari, in rivalità con un mio compagno di classe molto bravo rispetto al quale mi sentivo un incapace e un ‘soccombente’ (per dirla con Thomas Bernhard), poi su fogli A4 e album da disegno. Tutto sommato avevo un buon ‘segno’, come si dice, e uno stile in cerca di identità che doveva molto al Magnus di Alan Ford, Maxmagnus, Kriminal e Satanik, ma che naturalmente era influenzato – come tutta la mia generazione nata a cavallo tra anni Settanta e Ottanta – dai manga e dall’animazione televisiva giapponese. Ci sono dei capolavori di cura artigianale e intelligenza, anche di coraggio, in questi oltre cent’anni di storia del fumetto, rispetto ai quali la letteratura, il cinema, le arti visive, il teatro, tantomeno la televisione, sono spesso poca cosa.
La saga dell’Incal di Jodorowskij e Moebius, Le mille e una notte di Sergio Toppi, le storie e i personaggi incredibili di Jacovitti – tutti! – o l’incredibile bianco e nero di Bernie Wrightson, la bellezza del Flash Gordon di Alex Raymond, storie e disegni come quelli di Sandman e Shade dell’etichetta Vertigo, i cicli di One piece di Eiichiro Oda o Jojo’s bizzare adventure di Hiroiko Araki, o quel capolavoro commovente che è Hadashi no Gen di Keiji Nakazawa (la storia vera di un sopravvissuto di Hiroshima raccontata e disegnata da lui stesso) o il ciclo della Compagnia della forca dello stesso Magnus – bellissimo! – e persino le opere un po’ fracassone, geniali ma spesso un po’ “di grana grossa” dell’amato Go Nagai: il finale del manga di Devilman o le storie di Violence Jack sono un trauma per il lettore, un’orgia di linee cinetiche, tratti e anatomie deformate, esplosione di vignette sghembe ed onomatopee ad ogni pagina, dei veri e propri capolavori, imperfetti e geniali – e per questo potenti. E bla bla bla.
Fin qui l’entusiasmo e un po’ d’erudizione minima sulla materia di cui stiamo parlando. Ma veniamo alla realtà. Attualmente non disegno più. Da oltre 15 anni non ci provo nemmeno. L’ultima cosa che ho provato a disegnare è stato una specie di autoritratto caricaturale per un volumino autoprodotto ormai introvabile (Operine splendide, Edizioni Ubusettete, 2008) che conteneva alcuni dei miei primi testi scritti tra il 1997 ed il 2001. Il ritrattino è questo: 

ritratto di Daniele Timpano dal libro Operine splendide – ediz-ubusettete 2008

Non disegno più perché me ne vergogno un po’. Tecnicamente – come disegnatore – sono rimasto sempre un po’ mediocre, vittima del complesso del vaso di coccio tra vasi di bronzo e circondato da amici e conoscenti molto più bravi di me, molti dei quali hanno tenuto duro riuscendo poi a far chi più chi meno questo lavoro – tra fumetto, illustrazione e animazione – per il quale evidentemente io non ero all’altezza, o non ci ho creduto abbastanza, o semplicemente avevo troppa paura del giudizio altrui. Ricordo che all’epoca mi esercitavo per lo più in segreto, quasi nascondendolo ai ‘colleghi’ che sapevo più dotati, chiedendo consiglio timidamente solo a pochi amici. Ricorderò per sempre il pomeriggio in cui l’amico Paolo Maddaleni mi ha insegnato a usare l’aerografo e le giornate in cui imparai ad usare i pennelli da china per le inchiostrazioni o a grattare i retini per realizzare sfondi. Tutte cose che oggi non ricordo più come si fanno.
Ad un certo punto ho abbandonato tutto e ho scelto, chissà perché, il teatro.
Ora non disegno più perché non ho più tempo, perché il tempo che riesco a dedicare all’invenzione e alla creazione è ormai solo quello del teatro e della scrittura, quella scenica e quella drammaturgica, convogliate entrambe nello sforzo a quattro mani – le mie due e le due di Elvira (1) – che porta ogni volta alla realizzazione di una nuova produzione. Ormai ahimè faccio teatro.
Da una cosa vitale e colorata, ancora spesso associata all’infanzia e adolescenza ma sempre più sdoganata come forma d’arte e riflessione sul presente (basti pensare al successo di Zerocalcare o alla quantità di visualizzazioni su Youtube di canali come Scottecs e Cartoni morti), a una cosa polverosa e spenta che nell’immaginario inossidabile della maggior parte delle persone continua a essere associata alle poltrone rosse, alle pellicce e alla vecchiaia.

Di tanto interesse, tanta vocazione e amore per il fumetto, per l’animazione e per l’illustrazione era inevitabile rimanesse qualcosa nei nostri lavori. L’immaginario che sostiene e permea il nostro teatro – fondato sempre su una lettura il più possibile lucida e politica del presente – è da un lato un immaginario letterario e storico, se vogliamo colto, ricercato, puntiglioso e maniacale, spesso nutrito di materiali minoritari e rari, ma d’altro canto il nostro è anche un immaginario spurio, di quelli al solito derubricati come “pop”, fatto di canzoni, in-cultura mainstream e, naturalmente, di cartoni animati e di fumetto. Questo è evidente senz’altro nel tema esplicito di un nostro lavoro del 2007, Ecce robot! Cronaca di un’invasione, un vero e proprio romanzo di formazione generazionale dedicato alla ricostruzione dell’arrivo nei palinsesti televisivi nazionali degli anime giapponesi e alla loro ricezione presso l’opinione pubblica italiana.

Locandina di “Ecce robot! Cronaca di un’invasione”, illustrazione di Alessandra D’Innella (2007)

Parte di questo lavoro era costituito dalla messa in scena, anzi in carne – qualcuno forse oggi lo definirebbe tronfiamente, credendo di dire chissà che, «reenactment» – degli episodi iniziali e finali di uno degli anime preferiti della mia infanzia: Mazinga Z. Si trattava di una riscrittura ibrida, a metà tra reinvenzione e filologia, che teneva presente la trascrizione delle battute degli episodi originali giapponesi ma anche il doppiaggio italiano del 1980 e che recuperava alcuni elementi dal manga originale di Go Nagai e soprattutto dalla versione che ne aveva tratto Gosaku Ota, pubblicata in Italia nei primi anni Ottanta, e poi ripubblicata da Granata Press a metà anni Novanta. Questi due episodi di Mazinga che aprivano e chiudevano ritualmente lo spettacolo sono tra le cose di cui sono più fiero nella mia carriera: una ventina di minuti in tutto di registrazioni in playback con una serie di effetti sonori campionati e le voci di tutti i personaggi ri-registrate dalla mia voce (tranne che per alcune didascalie lette da Marco Fumarola, anche autore del disegno luci) che il mio corpo insegue in scena forsennatamente, in un movimento continuo ed isterico a metà tra la danza e la pantomima, dove a ciascuna voce corrisponde un personaggio, a ciascun personaggio una postura stilizzata, a ciascuna postura una luce diversa per un carosello frastornante di movimenti, luci, suoni sempre diversi e sempre identici. Un lavoro certosino e paziente di composizione ritmica che costò, solo per la parte audio, diverse settimane di lavoro a me e a Lorenzo Letizia che l’abbiamo montato e a Marzio Venuti Mazzi (il compagno di scuola di cui parlavo all’inizio, nel frattempo diventato musicista) che ha campionato i rumori e scelto per noi gli effetti.
Oltre all’argomento dello spettacolo, qui esplicito, mi interessa parlare della forma: i colori delle luci sono scelti studiando gli episodi originali e anche le posture citate e attraversate sono riprese dalle suggestioni degli episodi originali; il testo stesso – oltre a queste due puntate di “reenactment” in playback lo spettacolo è un monologo tra il memorialistico ed il saggistico – è innervato di citazioni da canzoni, battute e gag ritagliate da centinaia di episodi di centinaia di serie animate giapponesi, riconoscibili per (quasi) tutti gli esponenti della mia generazione ma quasi sempre fruibili dal pubblico in maniera indipendente. Così capita che un conto alla rovescia in voice off appaia come un tormentone lungo tutta la durata dello spettacolo, il che è divertente e funzionale in sé ma è anche una citazione dagli episodi della prima serie di Yamato di Leiji Matsumoto, o che io cammini per la scena sollevando le ginocchia, ed è una cosa buffa in sé ma anche un riferimento al Lupin III di Monkey Punch, o che dica una cosa personale, anche intima, utilizzando un passaggio della sigla di Starzinger o una citazione da una puntata dei Cavalieri dello Zodiaco.
Riferimenti come questi affiorano anche, naturalmente, nei lavori successivi e precedenti: per esempio in un passaggio cruciale di Aldo morto (2012) alla figura di Renato Curcio viene sovrapposta proprio quella di Mazinga Z e così capita che in un lungo monologo (che è una cucitura tendenziosa di alcuni passaggi del suo libro A viso aperto e di dichiarazioni rilasciate in interviste più recenti) Curcio appaia come una figurina di spalle a fondo scena con la maschera di Mazinga sulla nuca che gesticola e sbraita scalmanata al microfono su un sottofondo musicale che mescola una musica epicizzante orrenda a una canzonaccia di Eros Ramazzotti. Figura insieme ridicola e inquietante a vedersi, il nostro Curcio, che dice però cose strazianti. La stessa maniera in cui gesticolo e sbraito, in questa scena, di sicuro non sarebbe la stessa se il mio immaginario non fosse impregnato delle figurine dei villains tragici e ridicoli dei cartoni animati giapponesi, dal Barone Ashura di Nagai alla magnifica Gel Sadra (che poi era un uomo ma nell’edizione italiana ne hanno fatto una donna) della seconda serie dei Gatchman della Tatsunoko.

L’immaginario, sotto forma di libri e fumetti letti, film visti, musiche ascoltate, permea le generazioni quanto l’esperienza del reale, specie le ultime, cresciute tra televisione, monitor e smartphone verticale. Tutto quello che faccio o farò sarà per sempre, anche laddove non vorrò, permeato sottilmente di quello che ho visto, letto, ascoltato, che per lo più è in comune, se non con tutti, con una parte almeno degli spettatori e lettori.
Dove il nostro lavoro invece ha consapevolmente recuperato il legame con il fumetto e con l’illustrazione è quello dell’invenzione dell’identità “grafica” dei materiali di presentazione e promozione dei nostri lavori, che da sempre concepiamo come parte integrante e determinante del lavoro stesso. Un po’ come le copertine degli album di una volta, che erano parte delle opere stesse: le immagini sugli Lp di Iron Maiden, Genesis, Yes, Zappa o degli stessi Beatles sono (anche) opere che sintetizzano l’opera, non semplice confezione ammiccante per vendere una merce.
Con molti di questi illustratori e grafici, veri e propri compagni di strada e spettatori appassionati dei nostri lavori, collaboriamo ormai da anni.
Questo rapporto con l’illustrazione era evidente già dai primissimi lavori. Dux in scatola (2006) era accompagnato da una immagine ufficiale di Alessandra D’Innella (autrice anche di tutti i manifesti del nostro Festival Ubu settete e ora cervello in fuga scappato a Londra) che a mio parere era perfetta: quella di un baule in primo piano disegnato in bianco e nero, lo stesso che appare in scena come unica scenografia e di cui si parla nel testo, su uno sfondo rosso e nero, cioè i colori di cui sono vestito io nello spettacolo, il rosso-comunismo ed il nero-fascismo, che insieme compongono un insieme rosso-nero un po’ anarcoide.
In Ecce robot! (2007) la faccia di Mazinga Z è inscritta, sempre da Alessandra D’Innella, al centro di un sole nipponico, ne risulta una via di mezzo tra un santino, la Veronica col volto di Cristo e la bandiera della marina imperiale giapponese. I colori dominanti sono il bianco e il rosso, quelli appunto della bandiera nazionale nipponica, gli stessi di cui è vestito l’attore in scena ma anche gli stessi di quasi tutti i protagonisti eroici delle serie animate: da Ken l’Aquila ne La battaglia dei Pianeti al Pegasus dei Cavalieri dello Zodiaco.

Locandina di “Zombitudine”, illustrazione di Valentina Pastorino e Antonello Santarelli (2013)

In Zombitudine (2013) le nostre stesse facce sono trasformate da Valentina Pastorino e Antonello Santarelli in personaggi fumettistici: io ed Elvira appariamo in locandina come lo Zombi disegnato di noi stessi.
L’impressione generale della grafica suggerisce un po’ un film horror d’epoca o un fumetto, qualcosa che sta a metà tra Dylan Dog e The Walking Dead; qualcosa di simpatico e leggero, se non comico. Eppure il colore verde dello sfondo di flyer e manifesti è lo stesso dell’ultima scena che chiude disperatamente lo spettacolo.

Locandine di “Acqua di colonia” (2016) e “Ottantanove” (2020), illustrazioni di Valentina Pastorino

Per Acqua di colonia (2016) e per l’ultimo Ottantanove (2020, o 2021, o mai, ancora non si sa perché ahimè il debutto è stato sospeso causa DPCM del 24 ottobre 2020) è sempre un viso di donna stilizzato ad essere al centro delle immagini realizzate da Valentina Pastorino: in un caso la citazione della copertina del disco originale di “Faccetta nera” (1936) diventa il tappo di una boccetta di profumo, immagine tra il santino e la réclame, nell’altro caso la faccetta bianca cadaverica di una Marie Antoinette decapitata trionfa inscritta in una decorazione tra il rococò e l’art déco in cui, solo al secondo sguardo, si notano tra i disegni delle brioche e un «89» scritto in cifre.

L’illustrazione di Carne (2016), realizzata per noi da Davide Abbati, è invece una raffinata, ancora una volta stilizzata e fumettistica, immagine di antropofagia: un coltello e una forchetta giganti alle prese con un cadavere ischeletrito e cristologico abbandonato al centro dell’immagine.

Per Risorgimento pop (2009) Pierluigi Rauco ha trasformato l’immagine austera di Giuseppe Mazzini nel testimonial di un detersivo: il nostro padre della patria preferito, circondato di bollicine come un qualunque Mastro Lindo, che spunta da un titolo che pare una réclame pubblicitaria, col suo vestito nero un po’ pretesco e con in mano un sigaro, che è poi come siamo vestiti in scena io e Valerio Malorni nel lavoro (sigaro compreso).
Le bollicine tornano infine nel manifesto firmato da Antonello Santarelli per Digerseltz (2012), solo di Elvira e uno dei nostri migliori testi, dove è il Gesù bambino del presepe a sciogliersi come una pastiglia digestiva sul fondo di un bicchiere d’acqua che occupa il 93% dell’immagine.

Locandine di “Carne”, illustrazione di Davide Abbati (2016), “Risorgimento pop”, illustrazione di Pierluigi Rauco (2009), “Digerseltz”, illustrazione di Antonello Santarelli (2012)

Insomma, è evidente come un immaginario legato a questa passione personale per l’illustrazione e il fumetto continui ad essere presente ed operante nei nostri lavori, a volte sottilmente, tra le righe, tra le maglie del corpo e della voce, altre volte come segno e citazione, se non esplicito argomento di spettacolo. Altrettanto evidente come per Frosini / Timpano – in un’ottica che è ancora assolutamente modernista e novecentesca nonostante si sia ormai tutti, noi compresi, irrimediabilmente sbriciolati, liquidi e post-moderni – tutto quello che facciamo in scena e fuori scena sia pensato ostinatamente come un tutto coerente, un’opera organica in cui flyer e manifesti, ma anche teaser video e post su Facebook e Instagram, Sms e messaggi Whatsapp, dirette streaming e performance urbane confluiscono nell’opera teatrale che tutte le raccoglie, sintetizza ed esalta, col paradosso di esser proprio lo spettacolo, tra tutti questi elementi confluenti, il più nascosto e più invisibile dei fulcri, il motore immobile di tutto, alfa e omega di tutta questa confluenza di lavoro e di pensiero, eppure, per la sua natura di evento dal vivo, il meno riassorbibile nel mondo della comunicazione.

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1. Elvira Frosini, compagna di vita e di lavoro dell’autore (Ndr)

 

 

Daniele Timpano

Daniele Timpano, nato a Roma nel 1974, è autore, regista e attore. Con Elvira Frosini fonda la compagnia Frosini / Timpano nel 2008. I loro lavori sono stati rappresentati nei più importanti teatri e festival in Italia e all’estero. Tra gli spettacoli della compagnia ricordiamo: la trilogia Storia cadaverica d’Italia, che comprende Dux in scatola, Risorgimento pop e Aldo morto, Reperto#01, Ecce robot!, Sì l’ammore no, Zombitudine, Alla città morta, Acqua di colonia, Carne, Gli sposi, Digerseltz e Ottantanove.
Con i suoi è stato finalista e vincitore di numerosi premi: Premio Scenario (2005), Premio Vertigine (2010), Premio VDA (2005), Premio Dante Cappelletti | Tuttoteatro.com (2008), Premio Rete Critica (2012 e 2020), Premio Ubu (2012, 2013, 2019). Nel 2013 il progetto speciale Aldo morto 54 realizzato in collaborazione con il Teatro dell’Orologio e Fondazione Romaeuropa (54 giorni di repliche dello spettacolo Aldo morto e 54 giorni di autoreclusione di Daniele Timpano in streaming in una cella ricostruita appositamente in teatro) ha vinto il premio ‘Nico Garrone’. Nel 2019 il testo di Ottantanove ha vinto la menzione Franco Quadri al Premio Riccione. I suoi testi sono pubblicati in Italia da Coniglio editore, Titivillus e Cue press.

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