De Amicitia. Gli scarabocchi di Maicol & Mirco

di Andrea Fazzini – Teatro Rebis

Maicol & Mirco, ‘Il Papà di Dio’, BAO Publishing 2017

Gli Scarabocchi di Maicol & Mirco sono strip a fumetti che abitano un immutabile sfondo rosso (Pantone 666). Ciascuna vignetta si consuma rapida in una singola pagina siglata dalla parola fine. Nascono come spericolate autoproduzioni il cui successo si amplifica enormemente nel momento in cui assurgono al formato online. La Bao Publishig infine intraprende la mastodontica ristampa de l’intera Opera Omnia di quella che riconosce come «un’epopea teologica e filosofica senza uguali nel fumetto mondiale». Per Maicol & Mirco gli Scarabocchi «sono un vestito stracciato. Un sassolino nelle scarpe. Il sale nel caffè, il dente da latte sputato in terra. L’incendio di una biblioteca. Il sorriso di un decapitato. La bava di un pennarello scarico. Sono rossi. Ma il loro rosso non è quello del fuoco, né quello dell’inferno, né quello del tramonto. Il loro rosso è quello della vergogna del Primo Uomo specchiato per la prima volta. Gli Scarabocchi non sono esseri umani, non sono personaggi. Sono abbozzi. Profondi e vuoti. Come un burrone».

Gli appassionati del settore ormai sanno che Maicol & Mirco sono l’identità una e bina che cela la persona di Michael Rocchetti. Non tutti però sanno che Mirco non è solo una proiezione psicotica dell’autore, ma che è veramente l’altro, quello dell’amicizia che fondava il sodalizio degli inizi. Negli anni Mirco è passato ad occuparsi di immagini in un diverso ambito lavorativo; eppure l’autore ormai unico de Gli Scarabocchi non ha mai amputato la sua alterità.
Un ancoraggio all’amicizia imperitura.
Un’amicizia sodale lega anche me e Michael da almeno vent’anni, quando, come lui spesso si diverte a raccontare durante le presentazioni dei suoi libri o degli spettacoli, “abbiamo non studiato insieme all’università”.
In realtà studiavamo furiosamente entrambi, senza mai smettere di deragliare e forse anche un po’ di ragliare.
Negli anni ci siamo avvicinati a più riprese nell’oscillazione delle nostre vite che fluivano parallele, la sua sull’asse Grottammare-Bologna-Roma e ritorno, la mia sull’asse Macerata-Parigi-Roma e ritorno; ritrovandoci infine entrambi nell’alveo della paludosa provincia – croce e delizia e croce – dove ruminare e poi deflagrare i nostri linguaggi.
Ad ogni incontro la sfida di una messinscena degli Scarabocchi veniva lanciata da Michael ed elusa da me, fino a quando, nel periodo più delicato per la mia compagnia, defraudata dello spazio teatrale che gestiva da dieci anni, gli dissi che ero pronto – e lui andò nel panico.
Fece il possibile per boicottare il progetto. Senza dirmelo apertamente per affetto, pensava (confessioni da post-produzione): «le versioni teatrali dei fumetti fanno sempre schifo, anche a livello cinematografico se ne salvano poche»; «cercano tutti di citare, di portare il fumetto, il tratto in scena, ed è una cazzata»; «i miei scarabocchi sono semplici e fragili… semplici e fragili…» (l’ultima frase probabilmente è una mia eco).
Fin dall’inizio mi era chiaro che la trasposizione teatrale non doveva riportare semplicemente in scena gli sketches dei fumetti di Maicol & Mirco, ma tentare di penetrare nei silenzi che dividono le figure, nell’intimità scabrosa che evocano, nell’azzeramento del discorso che con ferocia denunciano.

Quindi gli chiesi la versione digitale di tutte le tavole che aveva disegnato fino a quel momento (circa duemila), e poi ci siamo visti in una serie di appuntamenti al bar della stazione, in cui abbiamo parlato di tutto fuorché di fumetto e teatro. Così alla fine la scrittura scenica che attraversava tutta la sua opera, o almeno quella che più risuonava in me, è stata quasi un parto naturale.
Il processo di scrittura era il medesimo che ho sempre adottato nei miei lavori: creare un pre-testo da materiali di autori di riferimento – come Sylvia Plath per Di una specie cattiva o Danilo Dolci per Io non so cominciare – per poi smontarlo durante le prove, impastarlo con frammenti di altri autori, o mie interpolazioni, a creare un’opera inedita da quel nucleo pulsante di ispirazione, sia esistenziale che letteraria. Di diverso questa volta c’era solo che mi ero prefisso di attenermi unicamente ai testi dei fumetti, e che con l’autore mi ci potevo pure fare un Campari ogni tanto.

Per me lo scarabocchio è un gesto brutale e rapido, che nasce sovrappensiero, una svista, un segno bruciato che rivela un’immagine irrazionale di sé, che ci si affretta a nascondere, che si accartoccia e butta via. Lo scarabocchio è il rimosso. Non a caso il suo luogo di appartenenza è il margine: gli angoli dei fogli vergini, il retro dei documenti, la verticalità delle pagine.
Scarabocchi sono i “trasparenti” della società, quelli che abitano la zona rossa, la zona proibita, il digiunatore di Kafka, Bill Hicks, sono i reietti delle cantine sociali che frequento per evitare la gente che plastifica arte e vita – scarabocchi sono le mie debolezze, le mie grida, i miei scoperti, tutti i fiati delle mie risate, le lacrime di bile che colano dense dalla bocca, la miseria di me che paralizza.
Scarabocchiare è accartocciare tutto questo “io” in un gesto informe e puro.

A posteriori, Michael – che non ha assistito a nessuna prova, ma che ha partecipato almeno a cinquanta repliche – ha dichiarato che le parole dello spettacolo sono le sue, ma che il discorso è diverso, ed è quello che cercavo.
Per me infatti lavorare alla metamorfosi scenica dei suoi fumetti rappresentava un’opportunità eccezionale per spingersi al limite nella tensione verso la spoliazione dell’orpello, che denota la cifra stilistica del Teatro Rebis, oltre che il segno grafico di Maicol & Mirco. Nella dinamica tra pieno e vuoto, prediligere il sottrarre all’aggiungere, il sospendere al rivelare, l’incompiuto al modellato, lo scarto alla trovata.

Scegliere la via del figurale.
Per sfuggire al carattere narrativo della pittura, Cezanne individuava due vie: uno verso la forma pura, per astrazione, l’altra attraverso la sensazione, quella che Lyotard prima e Deleuze poi chiameranno “via del figurale”, che avviene per estrazione e isolamento.
Se il disegno deve strappare la figura al figurativo, allora il teatro deve strappare la persona al personaggio, estrarre il soggettile dal soggettivo, precipitare l’accaduto nell’accadere.

E per far questo c’è bisogno di attori scelti – aperti e squadernati.
Per lo spettacolo Scarabocchi erano necessari: Meri Bracalente, storica attrice e asse portante del Teatro Rebis; Fernando Micucci, attore con cui avevo già collaborato in passato all’interno di FOR.MA.T.I. (Forum Marche Teatri Indipendenti); Sergio Licatalosi conosciuto invece durante gli incontri del L.G.S.A.S. (Libero Gruppo di Studi di Arte Scenica), coordinato da Claudio Morganti.
In ognuno di loro ho calzato la figura di un ‘tipo’ di scarabocchio, ricalcandolo sulla loro fisicità e sulla loro capacità di intarsiare di sfumature le mie suggestioni.

Meri Bracalente, Sergio Licatalosi e Fernando Micucci in “Scarabocchi”, foto di Marco Biancucci

Lo scarabocchio di Sergio è aforistico, lapidario, massimalista, presuntuoso. Ha modi raffinati per svilirsi. Si rivolge direttamente al pubblico, nel tentativo utopico e apatico di provocare una reazione. È vestito elegante, ma per servire. Nei momenti di lucidità invecchia.
Quello di Fernando è eccitabile, scurrile, brutale, rasenta l’idiozia, dunque è il più vicino alla santità. È panico, dà del tu all’Universo e a Dio, non ha dubbi, non ha pudori, è “logica diretta” come l’orecchio mozzato di Van Gogh per Artaud – è l’unica speranza proprio perché non ce n’è traccia, in lui. La sua animalità è la sua lucidità. È a petto nudo e fuori moda. Ha una lapide a tracolla.
Lo scarabocchio di Meri è interrogativo, insicuro e aggressivo, ama più domandare che ascoltare, si attorciglia su se stesso, auto-condannandosi ad un perenne stato larvale. Si rivolge al futuro, ad un interlocutore fantasma, oppure finge di rivolgersi agli altri scarabocchi mentre in realtà si parla addosso, ingarbugliandosi nel gomitolo delle sue stesse indecisioni. Nei momenti di lucidità è glaciale e spenta.
Lo spettacolo ha conosciuto numerose repliche in luoghi e contesti dei più disparati, spesso fortissimamente voluto da chi lo aveva già visto, pur non essendo direttamente un organizzatore teatrale. Rara soddisfazione è quella di incontrare un pubblico realmente variegato. Non solo apprezzamenti dai teatranti, che spesso poco leggono fumetti, o dai fumettisti, che spesso poco frequentano i teatri, ma spettatori ignari di entrambe le parti e che si ritrovano spiazzati, commossi e qualche volta (perché no?) scandalizzati, e te lo vengono a dire.

Ma non dimentico lo sguardo vitreo degli attori quando gli avevo proposto lo spettacolo; lo stesso di Michael al principio, nonché il mio di quando lui, dopo Scarabocchi, rilanciò una nuova proposta di collaborazione, questa volta per la messa in scena de Il papà di Dio, il romanzo a fumetti che aveva nel cassetto da anni e che finalmente la Bao Publishing coraggiosamente aveva deciso di pubblicare.
Un tomo di mille pagine bianche – la metà totalmente bianche, vuote di disegno ma cariche di segno – ma soprattutto una storia, benché profondamente leggera e geniale, comunque una trama, qualcosa di molto distante dal mio intendere il teatro; qualcosa dunque di irresistibile.
In sintesi è la storia di un Dio còlto nella sua infanzia, un Dio pasticcione, senza voglia di studiare, che scappa di casa per andare a creare questo nostro mondo imperfetto, di nascosto dal padre, il papà di Dio appunto, lui invece creatore di infiniti mondi ideali, dove non c’è morte, non c’è dolore.
Solo suo figlio gli è venuto male. Il piccolo Dio ha un amico immaginario, Satana (che nella nostra versione teatrale è femmina), che gli boicotta puntualmente le invenzioni, ma anche lo cura e lo sprona all’indipendenza. Non manca un fascinoso zio ribelle, fratello maggiore del padre, il quale abdica alla demiurgia per divenire un frikkettone che gira i mondi strimpellando la chitarra, cantando e ballando, e ballando e cantando, all’infinito.
È una tenera storia sul rapporto padre e figlio, sulla famiglia, sull’amicizia, ma soprattutto è una storia con una quasi esopica morale: creare non è mai sbagliato.

Andrea Filipponi in “Il papà di Dio”, foto di Vito Laucellio

Benché si tratti di una messinscena visivamente e strutturalmente molto diversa, ho comunque perseguito una continuità con Scarabocchi, scegliendo gli stessi attori… più uno, “Dio”, nella persona di Andrea Filipponi. Si tratta di un talentuoso attore non professionista, che fa parte del Gruppo Teatrale Clorofilla di Jesi, un progetto che il Teatro Rebis ha affiancato per circa un decennio, composto anche da persone con disabilità. Andrea soffre di epilessia, come l’idiota di Dostoevskij, come lo stesso Dostoevskij – il male sacro – ma a parte questa coincidenza, poeticamente necessaria, è un attore istintivo, dalla forte presenza scenica e con in più l’infanzia scolpita addosso.
Quando Michael l’ha visto per la prima volta in scena gli ha detto: «Se ti avessi conosciuto prima, avrei disegnato Dio come te».

Anche le tematiche care a Maicol & Mirco – la solitudine, la morte, la relazione con l’altro e col divino, l’esistenza e la desistenza – sono state riprese, ma in questo caso ho deciso di legare le scene narrative ad altre cariche d’astrazione linguistica e filosofica.
Nel testo originale, a dare ritmo al racconto è la pagina bianca. Un segno vertiginoso e prenatale in cui perdersi, scavando nel sognare di un Dio sgraziato e innocente, sedotto dalla demonica urgenza di creare.
Se Pasolini auspicava nelle sue opere l’avverarsi della ierofania, cioè l’apparizione del sacro nel quotidiano, Maicol & Mirco hanno disegnato l’epifania opposta, cioè l’apparizione del quotidiano nel sacro.
Ho tentato una fallimentare sintesi: la congiunzione dei punti limite di questo doppio movimento, assumendo come fuochi di tale ellissi del pensar lontano la comicità e la poesia.
Comicità tenera e sgangherata, ispirata soprattutto alla tradizione dell’avanspettacolo, filtrata da quelle avanguardie artistiche che si riconoscevano nella dialettica tra Alto e Basso, nobiltà stracciona e raffinato sberleffo.
Poesia seguendo l’assunto di Novalis: «Poetare è generare».
Grazie alla fondamentale collaborazione con la filosofa e poetessa Rubina Giorgi, alla sua vicinanza e alla sue illuminazioni, ho tentato di penetrare le forme/parole germinali e telluriche di Dylan Thomas, come le visioni/preghiere/gorghi di Jakob Boheme, mistico e teosofo ciabattino del Seicento, che rintracciava l’origine del Bene nel Male e quella di Dio nel Nulla (immateria con la quale il piccolo Dio si diverte a giocare nascostamente dal papà).
Nel saggio Alla ricerca delle nascite (lingua e mania), in cui l’autrice scandaglia la potenza linguistica dei due autori, ho trovato i versi che cercavo, tratti dalla raccolta Vision and Prayer di Dylan Thomas: una poesia in forma di calligramma, che in scena è diventata un’opera d’arte misteriosa, un obelisco romboidale che oscilla, viene trafitto, si sdoppia, disvelando parole. Tale finestra sull’Altrove è stata realizzata grazie alla capacità visionaria di Frediano Brandetti, artista e scenografo, prezioso collaboratore.

Poesia in forma di calligramma, versi tratti dalla raccolta ‘Vision and Prayer’ di Dylan Thomas

Infine, fondamentale è stata anche la collaborazione con la musicista e compositrice Lili Refrain, capace di connaturare una vocalità lirica a sonorità distorte, come nella sua struggente versione del capolavoro di Nat King Cole, Nature Boy, che abbiamo inserito nello spettacolo:
«There was a boy / A very strange enchanted boy / They say he wandered very far / Very far, over land and sea / A little shy and sad of eye / But very wise was he / And then one day, a magic day / He passed my way, and while we spoke / Of many things, fools and kings / This he said to me / “The greatest thing you’ll ever learn / Is just to love and be loved in return”».

Credo che Il papà di Dio sia divenuto, dopo due anni di lavorazione, un’opera buffa che si trasforma in mitodramma e viceversa. Un sogno che sorge e svanisce con un raglio.

Uno spettacolo che forma, insieme a Scarabocchi, quello che abbiamo definito “Dittico in carta e ossa”; proposta che prevede, ove possibile, oltre le due rappresentazioni, un’esposizione di tavole di Maicol & Mirco, incontri con studiosi di teatro, filosofia e fumetto e laboratori liminali; un pro-getto, un ‘gettare avanti’ che travalica la semplice messinscena dei singoli spettacoli.

A distanza di qualche anno l’amicizia tra me e Michael mi appare ancora come una prospettiva di prossimità e deviazioni. Lui ora insegna fumetto all’Accademia di Belle Arti di L’Aquila, io Storia del Teatro e dello Spettacolo all’Università di Macerata – ma continuiamo a non studiare insieme.

 

 

Andrea Fazzini

Andrea Fazzini è autore, regista e direttore artistico. Nel 2003 fonda il Teatro Rebis di Macerata, che dirige insieme all’attrice Meri Bracalente.
Ha rappresentato i suoi spettacoli in Italia e all’estero (Romania, Francia, Svizzera, Germania, Senegal).
Tra i riconoscimenti: Premio Claudio Gora come miglior spettacolo con Il dolce miraggio di Ulisse, Premio Rota in festival come miglior spettacolo e miglior regia con Lucky e Pozzo, Premio Fringe2Fringe al Napoli Teatro Festival con Di una specie cattiva, finalista del Premio In-Box e vincitore del Premio come miglior drammaturgia al Festival Utovie con Scarabocchi.
Sin dal principio, con il Teatro Rebis si dedica anche ad attività di divulgazione culturale e artistica, attraverso l’organizzazione di festival pluriennali (Limen Festival; Ci si incontra così, per miracolo; Che razza di sogni; Defigura; Youbiquity; Al riparo di un tetto di fortuna) e la conduzione di numerosi progetti rivolti principalmente alle scuole e a situazioni di marginalità sociale.
Con il sostegno del ‘Centro per lo Sviluppo Creativo Danilo Dolci’ di Palermo, il Teatro Rebis sta sviluppando dal 2010 un percorso laboratoriale, intitolato Ciascuno cresce solo se sognato, che unisce il metodo educativo non formale della maieutica reciproca alla pratica teatrale.
Dal 2006 al 2015 ha gestito il Teatro di Villa Potenza (Macerata), organizzando rassegne di teatro indipendente (Giochi d’alma, dal 2011 Palpitare di nessi), incontri e  laboratori condotti da alcuni tra i maggiori artisti della scena teatrale nazionale ed  internazionale.
Dal 2004 è presidente di FOR.MA.T.I. (Forum Marche Teatri Indipendenti), ed è stato co-direttore del festival Non ho tempo e serve tempo, organizzato dal Comune di Macerata e dedicato, dal 2006 al 2008, rispettivamente ad Antonio Neiwiller, Demetrio Stratos e Danilo Dolci.
Dal 2007 fa parte del LGSAS (Libero Gruppo di Studio di Arti Sceniche), diretto da Claudio Morganti.
Attualmente è docente di ‘Storia del teatro e dello spettacolo’ presso la Facoltà di Studi Umanistici dell’Università di Macerata.

Teatro Rebis: https://teatrorebis.wixsite.com/teatrorebis
Maicol & Mirco: https://www.facebook.com/GliScarabocchiDiMaicolmirco
Lili Refrain ‘Nature Boy’: https://www.youtube.com/watch?v=Y7fQaqckY6s