Lello Voce incontra Giacomo Verde

di Lello Voce

Verde Giac traduttore e interprete del Direttore Pino Ventoso durante l’inaugurazione del Museo Popolare della Pineta – edizione 2019. Foto di Alessandro Giannetti / DADA Boom https://dadaboom.org

Quest’intervista è il risultato di tre giorni di intensa discussione con Giacomo, più o meno un quinquennio dopo l’inizio della nostra collaborazione artistica: Giacomo “immergeva” le mie performance poetiche e poetico-musicali nella luce, nei lampi e nei colori delle immagini che realizzava dal vivo, con il macro e l’utilizzo dei suoi caratteristici piccoli oggetti.

Eravamo nel 1995, più o meno agli albori della diffusione delle reti (non a caso si discute di BBS, quale tra i lettori più giovani può oggi sapere di cosa si trattava?), ma già a leggere quanto sosteneva allora è evidente che chi parla è proprio l’artivista che poi è arrivato anni dopo: essenzialità scabra dei mezzi, impegno politico, ma fondato sulle pratiche artistiche prima che sulle ideologie, una comprensione profonda e direi un’empatia con quanto in quegli anni andava dicendo una delle intelligenze più scintillanti di fine secolo, Antonio Caronia, capacità di immaginare un dopo le arti ‘catastrofico’ ma che le avrebbe rinnovate radicalmente. 
L’ultrascena di cui Giacomo parla è già in nuce una prospettiva del genere, che va oltre anche la spatoliana “arte totale”.

Ciò che mi pare ne venga fuori è l’immagine chiara di quanto profondo, complesso, rischioso e spietato fosse il lavoro culturale, artistico e direi “filosofico” che era dietro a quei semplici gesti, a quelle tecnologie spoglie che sempre lasciavano lo spettatore pieno di un inquieto stupore.

L’intervista è stata pubblicata nello stesso 1995 su «Baldus», una rivista letteraria fondata da me, Mariano Bàino e Biagio Cepollaro nel 1990 e che in quel periodo, dopo anni spesi a combattere contro il lirismo poetese degli autori del mainstream accademico, iniziava ad aprirsi alle altre arti e a scoprire le radici orali della poesia.

* * *

Giacomo Verde è videomaker e artista. Partecipa ai corsi su computer grafica e storyboard al Palazzo Fortuny di Venezia e vince il concorso per storyboard “Le scritture del visibile” al “Pow” di Narni, con Stati d’animo e inventa il Tele-racconto. Nel 1990 fonda il “progetto Tele-racconto” con il Giallo Mare Minimal Teatro. Nel 1992 collabora con il gruppo Van Gogh TV”di Amburgo per la realizzazione di una trasmissione di TV interattiva in Italia collegata al progetto speciale per “Documenta” di Kassel, “Piazza Virtuale”. Dal 1993 intensifica l’attività di laboratorio video ed elabora assieme ad altri artisti e critici italiani il documento Per una nuova cartografia del reale. Nel 1994 dà “vita” al personaggio virtuale “Euclide” di Correnti Magnetiche. Nel 1995 realizza per la mostra “Oltre il villaggio globale” alla Triennale di Milano l’installazione multimediale Poltrona InMobilCasa ed entra nella “Fabbrica – futuro-presente” di Benetton a Treviso.

Lello Voce: La prima cosa che mi viene in mente subito, parlando con un video-artista, è il problema del virtuale. Prima di tutto è corretto pensare che il termine “virtuale” sia entrato in modo massiccio all’ interno del nostro vocabolario quotidiano più o meno in corrispondenza con lo svilupparsi e il diffondersi dei video-clip?

Giacomo Verde: Allora… se vogliamo essere filologicamente esatti… prima dell’arrivo della “realtà virtuale”, almeno qui in Italia, si è parlato di “immateriale”, di arte immateriale, oppure di “artificiale”, poi quando il termine “virtuale” è arrivato sulla scena ha trascinato con sé anche le esperienze video.

L. Voce: La cosa che mi ha sempre colpito del “virtuale” è che poi, esso, per quanto virtuale sia, ha degli effetti di sconvolgente materialità sulla vita e sulla struttura antropologica degli individui, al punto che per esempio ci è bastato vivere virtualmente il “the day after” per dimenticarci di questo pericolo, in realtà il numero di testate nucleari sparse in giro per il mondo è più o meno lo stesso di quello che era nel momento in cui veniva distribuita la pellicola americana, anzi da un certo punto di vista i nostri pericoli sembrano molto aumentati a causa della “deregulation” nucleare seguita allo sbriciolarsi dell’ impero sovietico, Eppure praticamente nessuno parla più di “day after”, probabilmente perché ha perso notiziabilità, perché non è più vendibile come prodotto “estetico”, perché è un racconto che non “affascina” più. Però il pericolo è restato. La sua sparizione dall’ orizzonte della nostra comunicazione virtuale, dalla “piazza virtuale”, fa sì che esso, materialmente, realmente, non venga percepito più come un pericolo per la maggior parte di noi. Ecco, io vorrei entrare nel cuore del nostro dialogo da qui. Come nel tuo lavoro vivi questo rapporto, insieme ossimorico e complementare tra reale e virtuale?

G. Verde: La questione secondo me si pone in questi termini. La parola “virtuale” che è ritornata sulla scena con l’affermarsi delle tecnologie virtuali, ha acquistato un senso che prima non aveva. E come se si fosse espansa e avesse posto sotto il suo nome tutta una serie di cose che prima si chiamavano in un altro modo. Di conseguenza adesso si sente spesso usare il termine “virtuale”: la politica virtuale, per esempio, le votazioni virtuali, gli exit poll. Ma cosa è stato da sempre “virtuale”? L’informazione. Tutte le informazioni, se ci pensi bene, sono “virtuali”. La novità della realtà virtuale è che rende percepibile tridimensionalmente l’informazione, con una consistenza e “credibilità”. anche emozionale, prima mai raggiunte. Così è successo che il discorso si è fatalmente allargato, nel senso che, a partire da ciò, è stato “naturale” fare il percorso all’indietro. Si è effettuato un riconoscimento, una sorta di agnizione à rebours, del “mondo delle informazioni” fino all’analisi del mito platonico della caverna alla luce delle acquisizioni delle tecnologie e delle teorie del virtuale…

L. Voce: Contini avrebbe detto che si è proceduto alla costruzione di una “linea del virtuale” come la linea Gadda per intenderci…

G. Verde: Certo c’è stata una sorta di massiccia rivisitazione… filosofi, teorici… Ora, secondo me, il nodo problematico è questo: quanto influisce tutto ciò sulla nostra vita? In fondo l’informazione è sempre immaginazione; quando qualcosa ci viene comunicato noi immaginiamo che cosa sia questa cosa. Nella realtà virtuale questa cosa non viene più semplicemente “comunicata” ma viene trasmessa già “data”…

L. Voce: Viene già immaginata in partenza, giunge insomma a noi già immaginata?

G.V.: Certo.

L. Voce: Tutto ciò non comporta un impoverimento, un inaridimento delle nostre capacità fantastiche?

G. Verde: Non saprei, in realtà non si tratta di un’azione di impoverimento, è una questione di ristrutturazione globale del concetto stesso di “fantasia”, si rimettono in gioco quelle che sono le “categorie” di “fantasia”, comunicazione, immaginazione. Tutte queste categorie che noi in precedenza avevamo stoccate in un certo modo ora vengono rimesse in discussione.

L. Voce: Ma non divaghiamo troppo. La questione principale era come si poneva la tua operazione all’ interno di questa dicotomia reale/virtuale… se pure di dicotomia si tratta, perché mi pare che siamo entrambi d‘accordo sul fatto che poi, per molti versi, sia possibile parlare di una “materialità” del virtuale. Mi pare che intendessi questo quando sostenevi che il virtuale dà corpo alle informazioni.

G. Verde: Certo, e ciò che mi interesserebbe approfondire è: quanto e in che modo l’immaginario influenza il nostro comportamento reale? Una semplice trasmissione televisiva, che so? Una telenovela, o anche il telegiornale stesso (che è comunque secondo me “immaginario” e non “informazione”, o comunque un’ informazione che ha molto di immaginario, di emotivo, che è un racconto) quanto influisce, dicevo, tutto ciò sul nostro comportamento quotidiano? Perché poi in fondo cos’è la realtà e cos’è l’immaginario…? È questo probabilmente il punto: Dick sosteneva che «la realtà è quella cosa che anche quando smetti di crederci continua ad esistere», e mi sembra una definizione davvero efficace… Esistono dunque dei comportamenti che possiamo definire reali, questi comportamenti, però, nascono sulla base di informazioni o di aspettative che si hanno, prima di tutto rispetto al proprio comportamento, le quali, invece, appartengono all’immaginario. È come se ci fosse un software che comanda un hardware… l’hardware sono le azioni, i comportamenti reali, il software è costituito dall’immaginario… è chiaro che in una situazione del genere l’immaginario e l’irreale contano enormemente…

L. Voce: Visto che continui a scantonare la questione delle poetiche e siccome la metafora hardware/software mi intriga molto ti propongo un’ulteriore digressione, provocatoria… Quanto tu affermi è tanto vero che è questo addirittura il meccanismo messo in atto a livello finanziario, con buona pace della fine delle grandi narrazioni che, per parte loro, sembrano più vive e operanti che mai, almeno a livello di controllo sociale… Se fossero già finite tutte le grandi narrazioni il sociale probabilmente esploderebbe o imploderebbe, magari esse sono oggi solo deplacées in ambiti più produttivi. Vero o falso che sia, poi, l’exit poll, se diffuso, crea, col suo software, delle aspettative che influiscono strutturalmente sul “mercato elettorale”…

G. Verde: Ma è sempre stato così, ieri e oggi il controllo sociale si è sempre basato sul controllo dell’immaginario. In fondo cos’è la religione se non una forma di controllo dell’immaginario…? Le ideologie, qualsiasi ideologia, sono una forma di controllo dell’immaginario; poi, più hanno parvenza di “scientificità”, più sono credibili, più sono tranquillizzanti, più si pensa che siano il software giusto per un giusto comportamento… Ma forse è davvero ora di tornare a parlare di poetiche. Devo insistere su una premessa indispensabile: il video non è la realtà virtuale perché il video, mi si scusi il bisticcio, è virtuale ma non è reale, la realtà virtuale, invece, è reale… magari è un po’ tirata per i capelli come definizione, ma spero che renda l’idea di ciò che intendo… Allo stesso tempo il paradosso è che sovente ai video diamo spessore di realtà poiché si dice che le cose che si riprendono comunque esistono, altrimenti non potrebbero venir riprese, ma questo è evidentemente falso poiché l’immagine naturalmente non è la cosa. Nel caso della realtà virtuale, invece, sovente tacciata d’irrealtà, ci troviamo davvero di fronte ad una realtà materiale, in questo caso davvero l’immagine è una cosa, è la cosa. Tutto il mio lavoro, tutto ciò che faccio e che continuo a fare, ha come scopo precisamente di segnalare la macchina, di segnalare l’irrealtà del video, la soggettività e la parzialità di ciò che reciprocamente si mostra e si vede. La televisione ha sempre avuto la pretesa di “documentare” il mondo e i suoi avvenimenti; invece le cose, a parer mio, non stanno affatto così: ciò che vediamo è sempre immaginario. Essa inoltre ha la pretesa di essere “oggettivante”: ciò che si vede in televisione è vero e valido per tutti. Altrimenti non sarebbe stato ripreso…

L. Voce: Naturalmente i miei allievi rifiutano le mie correzioni a proposito di congiuntivi argomentando che così hanno sentito dire in TV e la televisione assume così valore di iper-grammatica, ma d’altra parte ciò è valso per i giornali prima, fatte tutte le differenze e le aggravanti tra lingua scritta e lingua “orale”, detta…

G. Verde: Certo, perché ciò che ci viene dal televisore è più vero del vero. Tutto il lavoro che sviluppo è teso a dimostrare che non è così, che ciò che vediamo non è l’obiettività di un reale ma un punto di vista, una soggettività, è l’immaginario del cameraman che sta riprendendo quella scena e quindi va trattato come tale e non come “informazione obbiettiva”, va trattato come letteratura, come un quadro, come una pittura. Non ci aspettiamo di avere informazioni obiettive da un quadro, mentre ciò ci sembra normale nel caso della televisione. Io dico no: la televisione è pittura…

L. Voce: Per di più una pittura in movimento, con una dimensione temporale, e con una capacità mimetica, illusionistica tale da oscurare qualsivoglia precedente wunderkammer… Ma praticamente ciò come avviene nei tuoi lavori? Qual è la prassi che ti permette di attirare l’attenzione dello spettatore sul mezzo e così, denunciando la finzione del video, di spostare il suo sguardo di nuovo verso la realtà…? Potremmo partire da Stati d’animo che mi pare un lavoro abbastanza particolare: in fondo si tratta di immagini di altre immagini, una sorta d’irrealtà al quadrato…

G. Verde: Nel caso di Stati d’animo tutto è stato abbastanza facile, in fondo si tratta di un cartone animato, e la materia pittorica dei dipinti è stato un altro evidente aiuto di partenza, è evidente che la grana dell’immagine è fatta di paint box. Lì rimando alla realtà attraverso un rapporto indiretto; è come se dicessi allo spettatore: guarda queste immagini che tu vedi sono finte, irreali, sono disegni, ma rimandano a degli stati d’animo che sono ben reali, che sono parte della tua realtà. Provocano degli stati d’animo reali, parlano di stati d’animo riconoscibili… Mostro il software per quello che è…

L. Voce: Ma i tuoi video non si limitano a mostrare, spesso tu racconti. Ecco io vorrei che tu spiegassi che cos’è un Teleracconto, un progetto che io ritengo efficacissimo… e come esso si inserisce all’ interno delle coordinate di poetica che abbiamo sin qui tracciato.

G. Verde: Un Teleracconto è una struttura semplicissima. C’è un televisore e una telecamera. La telecamera è posta sopraelevata dietro il televisore e collegata al televisore stesso così che nello schermo si veda ciò che la telecamera inquadra. La telecamera è posta “in macro” ovvero inquadra e mette a fuoco solo cose molto vicine all’obbiettivo e quindi piccoli oggetti. Io sto dietro la telecamera e dietro il televisore e pongo davanti alla telecamera le mie mani o piccoli oggetti che quindi si ingrandiscono enormemente sullo schermo del TV, trasformandosi. Il gioco è quello di mostrare come un oggetto a occhi nudi sia un certo oggetto e come attraverso la telecamera esso divenga un altro oggetto, un’altra cosa. La gente vede contemporaneamente me che manipolo l’oggetto “male” e l’immagine che questo oggetto assume attraverso l’occhio della camera, si crea un attrito, un doppio gioco.

L. Voce: Poi un teleracconto è, oltre che questo doppio gioco d’immagini, un vero e proprio “racconto”; il primo, ad esempio, che è stato concepito per un pubblico di bambini, è il teleracconto della fiaba di Hansel e Gretel. Come nasce, come avviene questo incontro tra specifici differenti, tra racconto fantastico, letteratura, e immaginario televisivo?

G. Verde: Tutto nasce molto semplicemente dalla necessità, dalla voglia di raccontare Hansel e Gretel ai bambini. Poi il racconto in sé per me è solo un “pretesto”. Non è tanto importante il racconto, la sua evoluzione, quanto il “come” lo racconti, è il rapporto che si instaura durante la narrazione tra chi racconta e chi ascolta e vede, che non è mai cosa semplice; si tratta sempre di un rapporto insieme diretto e complesso, ed è questo che è importante. Io mi servo del racconto per creare una situazione di “qui ed ora” reale. Il racconto è solo un pretesto per creare un incontro tra persone. Si crea un vero corto circuito tra immaginario e reale e tutto grazie alla narrazione.

L. Voce: Scusa ma a questo punto la provocazione scatta naturale: ma insomma ai bambini del terzo millennio le favole tocca narrargliele per forza col televisore?

G. Verde: Direi di no… tant’è vero che c’è chi continua a narragliele solo con la propria voce… Bada che il teleracconto funziona perché ci sono io che racconto dal vivo e non perché c’è il televisore. Il televisore c’è perché se io raccontassi Hansel e Gretel senza il televisore la racconterei in un altro modo… il fatto che ci sia il televisore fa sì che io muti la storia; io ho cambiato una serie di microavvenimenti di parole perché funzionassero per la televisione, perché avessero un’efficacia video: ho sostanzialmente ricreato la storia. Quello che è importante, poi, nella narrazione con la televisione è comunque che io uso questo strumento per mostrare lo scarto che c’è tra l’immagine della cosa e la cosa. Senza per questo criminalizzare la televisione e lo scarto… se noi imparassimo ad usare la televisione per quello che è, e cioè come “concretizzazione” dell’immaginario, come precisazione dell’immaginabile, allora essa diverrebbe davvero un’opportunità in più per tutti.

L. Voce: Ti proporrei adesso un altro input. Una cosa che mi pare ci abbia accomunato sempre è stata, da una parte il rifiuto di criminalizzare le tecnologie, dall’ altra la non disponibilità ad innalzare peana alle nuove potenzialità tecnologiche. Gli strumenti ci hanno affascinato, nella misura in cui c’erano, in quanto mezzi che ci permettevano di realizzare determinate espressività, mai come fini in sé. Ora c’è un conosciutissimo testo poetico di Swjft, Lo spogliatoio della Signora, nel quale egli descrive, con grottesca ironia, una affascinante dama che giunta nel suo camerino inizia a spogliarsi e man mano dalle vesti passa allo smontaggio di occhi fin dentiere, protesi di gambe e braccia e così via. Ecco io vorrei parlare con te del valore che ha assunto nel nostro mondo, a partire più o meno dai supereroi della Marvel, la protesi. Ciò che prima era sentito come negativo, come segnale di una mancanza, viene oggi percepito positivamente, ritenuto addirittura indispensabile: la protesi TV la protesi computer, la protesi modem, eccetera, e mi pare dato antropologico di non poco conto questo sovvertimento per cui oggi è colui a cui manca la protesi ad essere percepito come qualcuno a cui manca qualcosa. E come se si fosse passati da un uomo che riteneva di essere un organismo completo e compiuto ad un altro che si vede come parziale e infinitamente interfacciabile.

G. Verde: È una questione di potere, semplicemente. Prima si parlava dei supereroi della Marvell ma si sarebbero potuti tirare in ballo anche gli agenti segreti: 007. Anzi, probabilmente è proprio con le serie cinematografiche dedicate agli agenti segreti, James Bond in testa, che la protesi ha cominciato ad assumere valore positivo nell’immaginario collettivo… i microfoni che permettono di ascoltare a distanza, le telecamere spie, i teleobiettivi, le automobili che si trasformano in elicottero o in sottomarino… e a cosa servivano tutti questi marchingegni ai vari agenti segreti se non a catturare informazioni, e possedere più informazioni significa possedere più potere nei confronti degli altri, del nemico… nella vita dell’uomo comune, oggi, la protesi significa più semplicemente sopravvivenza: se si ha un computer e lo si sa usare, le proprie possibilità di sopravvivenza aumentano… perché poi la tecnologia non serve soltanto per scontrarsi tra singoli ma può anche servire per potenziare collettività. L’esperienza delle BBS amatoriali, delle comunità virtuali è un classico esempio di solidarietà comunicativa…

L. Voce: Anch’ io credo che sia necessario e che possa essere positivo scendere sulla piazza virtuale, mi pare comunque che si ponga a questo punto un problema politico, quello della proprietà delle reti. Tutti parlano di Internet, ma di chi è Internet ed esiste solo Internet o un ruolo va riconosciuto anche alle strutture alternative ed amatoriali?

G. Verde: Internet è solo Internet e la realtà generale è più ampia… Poi non è un caso che in Italia sia stata sviluppata una strategia terroristica e poliziesca contro le reti amatoriali un attimo prima che partisse la campagna pubblicitaria di Internet. Ne hanno fatte chiudere tante e penso ad esempio alla retata contro gli hacker italiani del maggio ‘94… dicevano che c’erano software “piratati”, che le reti servivano a ricettare software rubati, che c’erano informazioni sovversive che inneggiavano a chi sa quale rivolta… ed era tutto falso, naturalmente… hanno sequestrato apparecchiature, danneggiato irreparabilmente banche dati, anche private, comprese lettere d’amore e conti di casa… Questa strategia non a caso è stata rivolta contro le BBS amatoriali che sono una vera rete democratica d’informazione, dove davvero si paga solo il costo di una telefonata, dove non è necessario abbonamento, dove possono essere accessibili programmi free ware, cioè completamente gratuiti, cosa addirittura non prevista dalla legislazione italiana… così hanno pensato che fossero software rubati…. e hanno sequestrato tutto… Ora, parallelamente a questa strategia repressiva, ripeto, c’è stata un gran pubblicità di Internet. Non è un caso… per accedere a Internet c’è bisogno di pagare un abbonamento, mentre le reti amatoriali si reggono sul volontariato, non hanno un padrone e l’accesso è gratuito… anche Internet all’inizio era così, non oggi, oggi è la rete delle reti, ha un cavo dedicato, una strategia finanziaria e non è un caso nemmeno che alle spalle dell’apertura di quello che sarà il principale fornitore d’accesso italiano a Internet, Video on Line, ci sia, via Gianni Pilo, il cavalier Silvio Berlusconi… e la gente vedrai farà la fila per abbonarsi ad Internet, magari senza sapere nemmeno come utilizzare la rete né perché, farà trend, farà moda…

L. Voce: Una parte del tuo lavoro è stata poi dedicata al carcere, due produzioni in collaborazione col Tam Teatro Musica di Padova, che cosa sono, come e perché sono nate?

G. Verde: In precedenza abbiamo parlato di forma, di sperimentazioni sul linguaggio. Il carcere ha avuto per me valore paradigmatico di passaggio da una fase dedicata soprattutto alla sperimentazione sullo specifico del linguaggio, formale, ad un’altra tesa alla concretezza dei contenuti, da un discorso sul video a una fase di discorso con il video, attraverso il video… mi occorrevano dunque situazioni concrete e cosa c’è di più “concreto” del carcere? I reclusi sono reclusi e se vogliono comunicare all’esterno il proprio immaginario, quell’ immaginario che si forma in quella determinata situazione di vita devono affidarlo a qualche mezzo e il video va bene, come la scrittura naturalmente e qualsiasi altro mezzo, ma il video è sicuramente quello più adatto a trasmettere immagini di movimenti, di corpi, di danze… i video che ho realizzato sono infatti basati sulla documentazione di azioni teatrali che non potevano essere rappresentate all’esterno, sono fatti per portare all’esterno l’esperienza creativa prodotta nel carcere. Nel primo caso si tratta di un video di 36 minuti, un piano sequenza di uno spettacolo teatrale intitolato Il cerchio nell’ isola. Nel secondo caso si tratta invece di quattro video lettere che costituiscono un dialogo tra un gruppo di detenuti e gruppo di ragazze esterne al carcere.

L. Voce: Cosa è mutato nella forma, dopo questo bagno nei contenuti?

G. Verde: Per contrasto… ha asciugato tutto, ha reso tutto, se possibile, ancora più povero, mi ha confermato nel mio amore per l’essenzialità…

L. Voce: In effetti tutta la tua produzione ha quasi sempre unito l’utilizzo di tecnologie “povere”, amatoriali, con tecniche e strategie antiche, tradizionali… penso alla performance fatta insieme a Ginevra… lì creolizzavi l’utilizzo della camera live con tecniche gestuali delle mani che sembravano un po’ quelle del teatro cinese delle ombre.., è come se volessi ricordare sempre che c ‘è un uomo dietro e prima della macchina… non posso non leggere in tutto il tuo lavoro una chiave interpretativa che definirei ‘antropologica”…

G. Verde: Certo, e per me tutto ciò è di una evidenza assoluta, addirittura banale, la macchina ha sempre dietro un uomo, anche quando la macchina fa tutto da sola e non c’è più l’uomo, c’è comunque un uomo di mezzo… Mi sembrano stupidi i discorsi che mettono in contraddizione polare uomo e macchina, non esistono macchine disumane e disumanizzanti se non nell’immaginario del terrore, ci possono essere certo, e ciò accade assai frequentemente, macchine di potere o macchine di tortura, macchine di controllo, ma comunque, per quanto malefiche esse siano, sono in rapporto con l’uomo: non esistono macchine disumane. Noi continuiamo a pensare a un soggetto uomo e ad un oggetto macchina, separatamente, ma l’importante non sono i soggetti e gli oggetti ma il rapporto che si instaura tra loro… è il rapporto in ogni caso che andrebbe discusso….

L. Voce: Come quello tra arte e impegno, o è demodé parlare di questo…?

G. Verde: Non ho mai pensato che fosse demodé perché non seguo le mode… comunque in tutto il mio lavoro c’è una costante coscienza politica: mostrare la “soggettività” della comunicazione televisiva, lo scarto tra realtà e immagine, smitizzare le tecnologie ecc. ecc. per me è un’attività “est-etica-mente” politica.

L. Voce: Vorrei ora proporti un altro argomento… spinoso… quello del rapporto Avanguardia/Tradizione… io non credo nel bipolarismo perfetto nemmeno in politica, figurarsi in estetica, credo che si tratti di un rapporto complesso, circolare, un dialogo, uno scambio…

G. Verde: Anche nel nostro campo spesso si sente parlare di Avanguardia, nel video, nell’arte elettronica, e spesso questo coincide con l’utilizzazione dell’ultima tecnologia lanciata sul mercato: due anni fa eri avanguardia se usavi la realtà virtuale, oggi sei avanguardia se usi le reti neurali e la vita artificiale… ma ciò è evidentemente un concetto assai restrittivo dell’essere avanguardia. Comunque non mi interessa essere avanguardia in questo modo… certo potrebbe essere stimolante avere sempre a disposizione gli ultimi ritrovati tecnologici… ma è un po’ infantile, se ci pensi, strumenti come giocattoli… ne posso fare volentieri a meno… Alle spalle, alla fine di tutto, in questi atteggiamenti io ci leggo una concezione dell’artista che è separato dal mondo e che vuole restare tale, in un certo senso a un grado superiore e ciò è in contraddizione con un’epoca che è epoca di diffusione tecnologica; siamo nell’era della diffusione del segnale, della fine dell’aura del segnale, è importante soprattutto ciò che diviene esperienza condivisa… D’altra parte le Avanguardie storiche, le prime, hanno sempre avuto una concezione del mondo “totalizzante”: i futuristi si immaginavano un partito futurista, un mondo futurista dove tutto ciò che loro facevano per la prima volta diveniva poi quotidiano. Il sogno dell’avanguardia è quello di diventare prodotto di massa… Uno dei miei microsogni riposti è quello di riuscire a realizzare uno screen saver “artistico” che funzioni, dieci, venti, trenta screen saver, che entrino di soppiatto in tutti i computer, ho immaginato addirittura uno screen saver per la televisione…

L. Voce: È strano… a Yale recentemente ho incontrato un artista che l’aveva inventato uno screen saver poetico… senza saperlo… un soft che dinamizzava versi poetici, li spostava li ruotava nello spazio… appena gli ho proposto l’idea di utilizzare tutto come screen saver si è irrigidito ed offeso… gli stavo proponendo di rinunciare all’aura di unicità della sua avanguardia tecnologica… insomma il destino dell’ avanguardia è comunque il museo?

G. Verde: Se è così io non sono un’avanguardia e non voglio esser un’avanguardia… io non lavoro per i musei ma per i contesti in cui mi trovo a vivere…. né m’interessa bruciarli, i musei… le opere quando finiscono in un museo semplice mente non sono più opere ma solo la memoria di quelle opere…. poi in fondo il problema è che noi siamo malati di Storia…

L. Voce: Questo mi pare un passaggio che ha echi delle teorie di Emilio Villa, un autore alla cui scrittura, non a caso, entrambi abbiamo dedicato un video…

G. Verde: Certamente… siamo malati di storia nel senso che si sa che ci sono state le avanguardie e allora si cerca di imitare quello che loro hanno fatto… o di evitarlo… che è la stessa cosa, in fondo… questo sulla base dell’informazione storica… che è pur’essa un immaginario… allora ci si rende conto che ci sono musei e che gli artisti vanno a finire nei musei e si crede di dover lavorare per procurarsi il proprio loculo al museo, e non si lavora per il proprio presente… perché la storia dell’arte c’insegna, se viene presa per vera, che per esser certi di aver fatto qualcosa d’importante occorre andare a finire nei musei… La scoperta, scioccante per molti versi, che io ho fatto sulla mia pelle nel corso del mio lavoro è che una volta che si finisce in un museo, una volta che si riesce ad essere invitato a questa o a quella importante rassegna internazionale ci si accorge della vuotezza di tutto ciò… di colpo tutto il mio lavoro non esisteva più… si era trasformato nella memoria del mio lavoro… lI mio lavoro, il lavoro di qualsiasi artista è a monte, è fuori da tutto ciò…

L. Voce: Credo che in tutto ciò ci sia lo zampino di un tuo particolare amore: quello per la teoria delle catastrofi, che credo abbia influenzato anche le tue poetiche.

G. Verde: Si è vero ma c’è soprattutto la voglia di andare oltre le apparenze e le illusioni create dalla cultura dominante. La teoria delle catastrofi mi è stata utilissima per rendere comunicabile, innanzitutto a me stesso, la mia pratica artistica. La teoria delle catastrofi rende comprensibili e scientificamente descrivibili eventi non spiegabili attraverso la teoria dell’evoluzione lineare. Esiste infatti un tipo di evoluzione basata su salti evolutivi… si passa “catastroficamente” da uno stato A ad uno B senza che in questo secondo stato ci sia necessariamente alcun ché di similare allo stato precedente, anche se ne è sostanzialmente “figlio”… Tutto avviene appunto attraverso un salto catastrofico e non attraverso un’evoluzione lineare… e questo finora era considerato innaturale mentre invece avviene continuamente…

L. Voce: Le avanguardie sarebbero terrorizzate da un simile stato di cose. Non c’è avanguardia senza evoluzione storica lineare, senza storicismo… senza magnifiche sorti e progressive e la situazione che prospetti ha invece molto in comune con l’imprevedibile eruzione dello sterminator Vesevo di leopardiana memoria…

G. Verde: Esatto… e tutto ciò aveva molto in comune anche con la mia pratica di lavoro: quando progettavo, e poi quando praticavo quel dato progetto non si trattava mai di un’evoluzione lineare teoria-prassi.., tutto era molto intrecciato e spesso la prassi si presentava come la precipitazione catastrofica, il sedimento catastrofico di una serie di riflessioni che si erano andate sviluppando in diverse direzioni… la prassi si situava al punto di rottura delle riflessioni, della teoria poetica… il risultato è una forma, un’operazione… non a caso la teoria delle catastrofi nasce dallo studio delle morfologie, della mutazione delle forme…

L. Voce: In fondo proponi una dimensione frattale…

G. Verde: Sì, con in più la coscienza che forme simili possono trovarsi in contesti differenti e che quindi la riflessione sviluppata su una determinata forma può esser riportata ad un contesto diverso se in quel contesto si ripete quella determinata morfologia, ciò significa che c’è la possibilità di fare un video come se si facesse musica o poesia… si tratta di un grande arricchimento di possibilità compositive al di là di qualsiasi epifanica aspettativa di arte totale… e di qualsiasi rigida perimetrazione di questo o quello specifico… mi è capitato di parlare al proposito di arte ultrascenica… cioè di una pratica artistica che va oltre le categorie, le scene convenzionali, per attraversarle trasversalmente senza pretendere di esser ne né la somma né tantomeno il superamento, quanto piuttosto una cosa altra, diversa… insomma una nuova categoria artistica figlia delle precedenti ma diversa da tutte le altre. E bada che sto parlando di pratica artistica, cioè di cose, eventi, opere e vite che già esistono, ma che solitamente vengono codificate come sottogeneri eccentrici delle discipline accademiche che continuano a pensare il mondo e gli eventi solo attraverso concetti lineari. Ho teorizzato l’ultrascenica (anche se il termine, forse, non è molto felice) per dare legittimità ad una grande quantità di esperienze che hanno ormai saltato catastroficamente, e con naturale vitalità, gli steccati dei generi artistici. Come ad esempio anche il tuo modo di fare, oltre che di teorizzare, poesia.

 

 

Lello Voce

Lello Voce è poeta, scrittore e performer.
È uno dei pionieri europei dello spoken word e della ‘spoken music’ ed ha introdotto in Italia il Poetry slam.
Ha pubblicato svariati libri e Cd di poesia, con artisti come P. Fresu, F. Nemola, A. Salis, M.P. De Vito, M.Gross, S. Merlino, tra cui Farfalle da combattimento (Bompiani, 1999), Fast Blood (2003 – Premio Delfini di poesia, con le illustrazioni di Sandro Chia), L’esercizio della lingua (Le Lettere, 2010) Piccola cucina cannibale (Squi[libri], con F. Nemola e C. Calia), per il quale è stato insignito del Premio Napoli 2012.
Il suo ultimo libro-CD, sempre con Frank Nemola e con la partecipazione di Paolo Fresu, è Il fiore inverso (Squilibri editore, 2016), a cui è stato conferito il Premio Nazionale “Elio Pagliarani” di Poesia (2016).
Dal 2017 è il Chief Editor, di Canzoniere, collana di libri/CD dedicati alla poesia con musica e ai Poetry comix, presso l’editore Squilibri.

www.lellovoce.it