Silenzio: Beckett

di Graziano Graziani

Samuel Beckett – ph Getty Images

Quando, nel dicembre del 1989, Eugène Ionesco fu chiamato a pronunciare qualche parola per commemorare il suo collega Samuel Beckett, scomparso tre giorni prima di Natale, da osservatore dei dettagli qual era egli decise di raccontare una piccola storia. O meglio, un ricordo. Spiegò che ciò che secondo lui raccontava meglio la figura del grande scrittore irlandese era qualcosa che questi era solito fare: si vedeva di pomeriggio in un noto caffè di Parigi e passava il tempo con un amico pittore. Per quasi tutto il tempo non parlavano, bevevano un caffè, stavano in silenzio. Quando a sera facevano per andarsene, lui diceva all’amico: «Siamo stati bene, è stato un bel pomeriggio». E tutto si concludeva lì. Vera o immaginaria che sia questa storia, Ionesco centrava, servendola condita dalla sua proverbiale ironia, un nodo centrale dell’opera e della vita di Samuel Beckett: l’uso della parola era sempre assolutamente ponderato, mai superfluo. Di fronte alla non necessità, meglio il silenzio.

Può sembrare strano che un periodico dedicato alla “cultura non verbale” come è «93%» decida di dedicare un numero a una figura come quella di Beckett che, per quanto autorevole e centrale nell’arte del Novecento, resta comunque un romanziere, drammaturgo e poeta; in definitiva, una persona che esiste artisticamente attraverso le parole. Tuttavia risulta evidente come uno degli elementi davvero centrali dell’opera beckettiana sia il silenzio. Non solo le famose pause di cui sono infarciti i suoi testi, che hanno una valenza ritmica importante quanto quella semantica, e che sono state imitate, fino al manierismo, da moltissimo teatro successivo. Sono proprio le ambientazioni e i personaggi beckettiani che, di frequente, tendono verso un esaurimento delle parole, anzi, forse bisognerebbe usare la parola “prosciugamento”, perché spesso fiumi di verbosità finiscono per risolversi nel nulla, per tornare al punto di partenza, per arrivare all’impotenza e incappare nella ripetizione. Allo stesso modo i personaggi delle pièce sembrano procedere irrimediabilmente verso una dissoluzione delle energie vitali, una corsa inarrestabile verso il silenzio della morte.

Il silenzio, nel teatro di Beckett, è importante quanto le parole. Forse persino di più. Tanto è vero che gli esperimenti più tardi del teatro beckettiano, quando l’autore irlandese aveva cominciato a sperimentare le forme video attraverso il cinema e la televisione, sono concepiti completamente in assenza di parole. Dai celebri Atto senza parole I e II, fino ai quadri teatrali pensati per la tv tedesca come Quad o Trio degli spiriti, passando per il cortometraggio che Beckett intitolò laconicamente Film, e che affidò non a caso a uno dei grandi interpreti del cinema muto, Buster Keaton, vera e propria ossessione artistica di Samuel Beckett, che in questa breve opera tornava a recitare senza parlare, indossando la maschera decrepita tipica dei personaggi beckettiani.

Beckett ha segnato con il suo immaginario tutta la seconda metà del Novecento ed è stato un detonatore di immaginario per almeno tre generazioni di artisti teatrali. Il che per certi versi è stupefacente, poiché il giovane assistente e discepolo di Joyce probabilmente pensava a se stesso più come un romanziere che come a un drammaturgo. La trilogia narrativa costituita da Molloy, Malone muore e L’innominabile è probabilmente la vetta letteraria della sua opera, ma è anche una sperimentazione troppo raffinata e complessa per fare breccia nel grande pubblico, per il quale resterà principalmente l’autore di Aspettando Godot. Oggi, a trent’anni dalla sua morte – e a cinquanta dal premio Nobel per la letteratura, che gli fu assegnato nel 1969 – la sua ombra sul teatro mondiale sembra si stia ridimensionando.
Eppure, se guardiamo in controluce molte creazioni contemporanee, non possiamo non notare come il suo immaginario, proprio nel momento in cui non viene più citato esplicitamente (e, a volte, pedissequamente), si sta pian piano trasformando in stilema, forse addirittura in linguaggio. E, in questa grammatica, ancora una volta, centrale resta il silenzio.
Per rendere omaggio alla figura di Beckett a trent’anni dalla morte abbiamo deciso di fare una ricognizione attraverso la scena contemporanea italiana, per capire cosa rimane della sua lezione e cosa si è depositato del suo immaginario sulla nostra coscienza teatrale. Quattro artisti della scena di oggi, tra teatro e danza – Alessandro Carboni, Fabiana Iacozzilli, Maurizio Lupinelli, Alessandro Serra – raccontano i loro spettacoli più beckettiani e riflettono sull’utilizzo del silenzio. Il loro percorso si inserisce in una lunga storia di influenza beckettiana sulla ricerca italiana, che va dalle regie dei testi originali da parte di Carlo Quartucci a quelle di Giancarlo Cauteruccio, passando per l’opera di Remondi & Caporossi, che proprio su una personale idea di un Beckett senza parole hanno impostato buona parte della loro produzione artistica. Chiude questa ricognizione una riflessione di Luca Scarlini sulla ricezione dell’opera di Beckett da parte dell’Italia, un rapporto non privo di complicazioni per un autore così complesso e profondo.

Vale la pena, prima di chiudere, ricordare la citazione che Ionesco utilizzò, al netto dell’ironia utilizzata nella prima parte del suo discorso, per omaggiare Beckett. Si tratta di una frase del poeta e drammaturgo francese Alfred de Vigny: «Solo il silenzio è grande, tutto il resto è debolezza».