Quanto è nero l’universo

di Marco Montuori

Possotomè, Benin, 2015 – ph Lucia Perrotta

Il sole è tramontato e la notte si avvicina. È un momento magico, forse perché è il passaggio tra due mondi: dal mondo della luce che ben conosciamo a quello delle tenebre molto meno noto e anche per questo più affascinante per noi. Se è una notte senza Luna, il cielo diventa nero, si accende di una miriade di punti luminosi e la curiosità e l’immaginazione dell’uomo possono liberarsi in questo spazio che ci appare sconfinato.
Non è un caso che l’esplorazione di questo mondo, l’astronomia, sia fra le più antiche avventure dell’intelletto umano: cosa siano il Sole e la Luna e cosa sia questo cielo nero pieno di stelle scintillanti sopra di noi la cui contemplazione porta a trascendere i limiti dell’esistenza umana sono domande che l’uomo si pone dall’alba della storia.
Ma perché il cielo di notte è nero?
Sembra una domanda strana e dalla risposta ovvia; basta un momento di riflessione per capire come la possibile risposta non sia così immediata: una foresta può essere un’utile analogia.
Immaginiamo di trovarci dentro una foresta e di guardare intorno a noi. In ogni direzione vediamo alberi e se spingiamo lo sguardo un po’ più lontano, i tronchi degli alberi presto si sovrappongono gli uni agli altri cosicché in lontananza non ci appare che un fondo continuo di alberi: in ogni direzione guardiamo vediamo alberi. Immaginiamo ora che la foresta sia infinita: non importa allora come gli alberi siano disposti e quanto siano distanti gli uni dagli altri, in lontananza finiremmo per vedere comunque uno sfondo continuo di alberi.

In realtà, se la foresta fosse ordinata in filari di alberi disposti a raggiera a partire da un punto, un osservatore in questo punto non vedrebbe che gli alberi più vicini, essendo gli altri tutti nascosti dai primi.
Fra un filare e l’altro, questi vedrebbe degli spazi vuoti proprio come quelli che vediamo tra le stelle nel cielo notturno.
Questa semplice soluzione richiede però un’organizzazione delle stelle che sembra piuttosto improbabile e al tempo stesso una nostra posizione alquanto speciale: si tratta quindi di una soluzione semplice proposta e scartata già nel 1800.

Escludendo dunque un universo organizzato in ranghi militareschi attorno a noi (una concezione sicuramente desiderabile da alcuni al giorno d’oggi), la soluzione dell’enigma del cielo notturno sembra ricadere in una delle due possibilità: o il cielo notturno che vediamo è in realtà pieno di stelle che per qualche strana ragione non si vedono e riempiono gli spazi neri che vediamo oppure gli spazi neri nel cielo stellato sono veramente privi di stelle.
Nel primo caso, l’enigma si sposta all’esistenza di stelle invisibili, mentre nel secondo caso all’esistenza di un numero finito di stelle.
Il primo caso si potrebbe parafrasare come l’enigma della luce stellare mancante, mentre il secondo come quello delle stelle mancanti (perché solo un numero finito di stelle). In entrambi i casi infatti, la logica ci dice che sembra mancare qualcosa nell’universo: stelle o luce stellare.
Negli ultimi 500 anni sono state proposte molte soluzioni all’enigma, ognuna appartenente a una o l’altra delle due categorie precedenti. Tuttavia, quando attentamente esaminate, tutte si sono dimostrate sbagliate alla luce di quello che oggi sappiamo dell’universo.
Ovviamente, deve esistere una soluzione corretta e probabilmente deve ricadere in una delle due categorie descritte. Curiosamente, a dispetto della sua sottigliezza, l’enigma ha una soluzione piuttosto semplice, che non richiede una profonda conoscenza scientifica e matematica.

Nei corsi e ricorsi storici, dall’antichità a oggi, l’enigma del cielo notturno comparve, ad esempio, nell’opera di Edmund Halley: contemporaneo di Newton (finanziò a proprie spese la pubblicazione dei Principia), fu uno scienziato eclettico e diede vari contributi a varie discipline dall’astronomia alla geofisica, dalla fisica alla matematica alla meteorologia. Analogamente a Thomas Digges centocinquanta anni prima, argomentò che l’universo infinito popolato di stelle di Newton avrebbe implicato un cielo notturno totalmente coperto di stelle. Halley propose quindi che la soluzione potesse essere nell’enorme distanza delle stelle, che le avrebbero rese invisibili ai nostri occhi. Si trattava dello stesso argomento di Digges, corretto nel valutare l’effetto sull’osservazione a occhio nudo di una singola stella, ma sbagliato nel non considerare l’effetto cumulativo di tutte le stelle non percepibili singolarmente.

Il passo successivo nella soluzione del mistero venne da un astronomo svizzero Jean Philippe Loys de Cheseaux nato appunto nel piccolo villaggio di Cheseaux vicino Losanna. Bambino precoce, fu avviato agli studi scientifici dal nonno, il matematico Jean-Pierre de Crousaz e divenne fra i più noti scienziati dei suoi tempi. Morì all’età di trentatré anni mentre si trovava in visita a Parigi. Cheseaux calcolò per la prima volta matematicamente quello che i suoi predecessori avevano proposto solo qualitativamente: quanto grande doveva essere l’universo popolato di stelle per avere un cielo totalmente coperto di stelle. Il calcolo è semplice: assumiamo per semplicità che ogni stella sia uguale al nostro Sole. Immaginiamo di dividere lo spazio intono alla Terra in gusci concentrici, come le bucce di una cipolla con stesso spessore. Gusci più lontani avranno stesso spessore ma superficie maggiore ovvero un volume maggiore. Maggiore volume implica maggior numero di stelle, cosicché gusci vicini conterranno meno stelle e i gusci lontani più stelle (hanno volume maggiore). Oltre al numero bisogna considerare anche la dimensione apparente delle stelle: le stelle più vicine appariranno come dischi più grandi di quelle lontane.
È un semplice risultato geometrico che questi due effetti, aumento del numero di stelle con la distanza e contemporanea diminuzione della dimensione apparente all’aumentare della distanza si compensano esattamente.
Così ogni guscio contribuirà nello stesso modo a coprire una parte del cielo con le stelle che contiene. Utilizzando i numeri dedotti dalle osservazioni astronomiche per le distanze tipiche fra le stelle e per le dimensioni delle stelle (tutte assunte come il Sole) il gioco è fatto: Cheseaux ottenne che la distanza richiesta ad includere tutte le stelle per ricoprire integralmente il cielo notturno era veramente “astronomica”: 6000 trilioni di anni luce ovvero essendo un anno luce pari a 10 000 miliardi di km, pari a 60 000 milioni di miliardi di miliardi di km.
Forse allora la soluzione del paradosso risiedeva in questa immensa distanza e Cheseaux ne propose una nuova: sarebbe bastato che l’universo fosse riempito di una qualche sostanza assorbente della luce stellare e il cielo notturno sarebbe tornato nell’oscurità.
Data l’enorme distanza calcolata, questa sostanza cosmica sarebbe potuta essere infinitamente più trasparente dell’acqua e cionondimeno fornire l’assorbimento richiesto a spegnere il cielo notturno. 
Al pari di una nebbia cosmica, questa avrebbe pervaso le immense profondità dello spazio interstellare e prodotto il familiare cielo notturno. Il modello però presentava un problema, che non poteva essere apprezzato da Cheseaux: la luce stellare assorbita dalla nebbia cosmica dove sarebbe finita? Una delle leggi della natura meglio verificate è quella della conservazione dell’energia e la luce assorbita dal gas è una forma in cui si presenta l’energia. Quando un materiale assorbe della luce, si riscalda e riscaldandosi emette luce. Dato che l’energia deve conservarsi, l’energia luminosa assorbita dalla nebbia cosmica deve essere uguale a quella emessa, così che la nebbia cosmica avrebbe brillato come le stelle la cui luce avesse assorbito. Queste critiche furono sollevate da John Herschel, famoso scienziato e figlio dell’astronomo William Herschel, scopritore del pianeta Urano, anche prima che la legge di conservazione dell’energia fosse pienamente compresa dagli studiosi.

Scartata l’idea della nebbia cosmica, le speculazioni degli astronomi tornarono ad una variante dell’universo stoico, che era stato accantonato dall’affermazione della fisica newtoniana, ovvero alla possibilità di un cosmo popolato di un numero finito di stelle. In questa evoluzione del cosmo degli stoici, l’universo sarebbe stato formato di un singolo super gruppo di stelle (l’universo isola) o vari isole di stelle disperse nell’oceano infinito dell’oscurità. Alla base di queste idee, c’erano le nuove osservazioni delle cosiddette nebulose la cui natura era ancora ampiamente dibattuta. Già registrate da Tolomeo, queste deboli e irregolari macchie di luce nel cielo erano anche chiamate stelle nebulari.
Il genio di Galileo aveva già correttamente ipotizzato essere gruppi di stelle così lontane da apparire macchie indistinte, contrariamente ad Aristotele le aveva interpretate come fenomeni atmosferici terrestri.
Lo stesso Immanuel Kant partecipò al dibattito, proponendo che le nebulose potessero avere natura differente, galassie simili alla via lattea a distanze enormi come anche nubi da gas primigenio in contrazione. La risposta definitiva venne dalle osservazioni di Wilhelm e Carolina Herschel, fratello e sorella, che costruirono i più potenti telescopi del tempo e poterono risolvere in stelle e interpretare come sistemi stellari lontani (gli “universi isola” di Kant) molte delle macchie biancastre osservate nel cielo notturno. Il dibattito, tuttavia, fra i sostenitori di una singola supergalassia immersa in un infinito e vuoto spazio cosmico e quelli di una moltitudine di universi isola, continuò e divenne noto come «il grande dibattito».
Sarebbe terminato nel 1924 quando l’astronomo statunitense Edwin Hubble usando il più potente telescopio esistente (telescopio Palomar sul Mount Wilson) riuscì a misurare in maniera incontrovertibile la distanza della nebulosa detta di Andromeda, trovandola all’immensa distanza di 2 milioni di anni luce e rivelando essere un sistema stellare di grandezza comparabile alla nostra Via lattea.

L’idea che vediamo le cose istantaneamente in un mondo eterno risale al mondo antico e fu comunemente accettata fino alla metà del XVII. Il solito Galileo s’interrogò sull’argomento e condusse un esperimento per verificarlo. Dato l’elevato valore di tale velocità, per quanto ne sappiamo la massima velocità nell’universo (300 000 km al sec), l’esperimento fu inconclusivo, e Galileo poté concludere che se non infinita almeno questa dovesse essere molto elevata.
Furono gli astronomi che trattando con distanze astronomiche furono in grado di misurare gli effetti di una velocità finita seppure estremamente elevata.
Al principio, le conseguenze cosmiche di una velocità finita della luce vennero poco considerate. L’implicazione che l’universo dovesse essere vecchio tanto quanto il tempo impiegato dalla luce per raggiungerci dai corpi più lontani ebbe scarsa attenzione, probabilmente perché in contrasto con le comuni credenze religiose. L’idea che l’universo visibile ovvero la parte di universo accessibile alla nostra osservazione non potesse estendersi oltre la distanza percorsa dalla luce sin dal suo inizio si affermò lentamente quindi nel corso del XVIII secolo.
Tuttavia ci fu un autore, un poeta, che associò questa osservazione con l’enigma del cielo notturno e propose la prima soluzione corretta di questo: nel 1848, un anno prima di morire all’età di quaranta anni, Edgar Allan Poe scrisse un saggio intitolato Eureka: un poema in prosa. Dopo qualche secolo di speculazioni sul mistero del cielo notturno, per la prima volta fu proposta una soluzione qualitativamente corretta. Scriveva Poe: «Se ci fosse una successione infinita di stelle, il cielo ci apparirebbe con un fondo di luminosità uniforme, muraglie dorate (“the golden walls”), come quello che vediamo quando guardiamo in cielo la via Lattea; poiché non ci sarebbe assolutamente nessun punto, in tutto lo sfondo del cielo, nel quale non esistesse una stella. Il solo modo, quindi, per spiegare i vuoti che i nostri telescopi trovano in innumerevoli direzioni, sarebbe di supporre che la distanza di questo invisibile fondo sia così immensa che nessun raggio di luce da esso ci abbia ancora raggiunto».
La velocità della luce (finita) e l’età delle stelle si erano alla fine associate per svelare la soluzione di un antico problema.
Nel ventesimo secolo ci siamo abituati all’idea che la nostra vista attraversa spazio e tempo. Quando osserviamo il cielo notturno e guardiamo lontano nello spazio, siamo ben coscienti che vediamo l’immagine del passato dell’universo. Troviamo difficile capire come ci fu un tempo in cui Cartesio e gli altri filosofi mostrarono apprensione al concetto di vedere attraverso spazio e tempo.
Nondimeno, anche per noi, il pensiero che all’orizzonte dell’universo visibile si trovi il tempo della creazione aperta alla nostra indagine ci impressiona grandemente.
La nostra vista si estende su una limitata distanza in un universo in cui le stelle hanno brillato per un periodo di tempo limitato. L’universo stellato può essere infinito nello spazio e cionondimeno la parte che possiamo osservare, l’universo appunto visibile, è troppo piccolo per contenere un numero sufficiente di stelle da accendere il cielo notturno, per vedere le golden walls di Poe. Questa è la soluzione dell’antico enigma: un universo che ha avuto un inizio e una velocità della luce finita, questi due ingredienti concorrono insieme per donarci la bellissima vista del cielo stellato. Le abbacinanti muraglie dorate di Poe, costituite dalla presenza delle infinite stelle sovrapposte le une alle altre, ci sono state risparmiate.

Ora noi sappiamo che l’universo nacque in uno stato di altissima densità e temperatura e che da allora è in espansione. All’inizio del tempo, circa 13 miliardi di anni fa, il giovane universo risplendeva di una incredibile luce: nel corso del tempo e a causa dell’immensa espansione, la luce si è raffreddata nell’oscurità che vediamo nel cielo notturno: la luce primordiale, trasformata, è ancora intorno a noi e recentemente è stata osservata e studiata dai cosmologi. Si chiama in modo diverso, radiazione di fondo cosmico (CMB) ma è in un certo senso la muraglia dorata di Edgar Allan Poe: questa però è un’altra storia.

 

Marco Montuori

Marco Montuori, PhD in Fisica, ricercatore Istituto sistemi complessi CNR, studi di cosmologia e astronomia galattica.