Io sono una carta: le battaglie delle artiste italiane

di Raffaella Perna

ph Nicola Tanzini

Il corpo delle donne è un terreno sul quale negli anni Settanta si combattono molte battaglie. In questo decennio, in Italia, le donne lottano per il cambiamento dei tradizionali assetti borghesi nell’ambito della famiglia, del lavoro, della cultura, della politica, della sessualità. Il movimento femminista si mobilita in occasione del referendum abrogativo sul divorzio, si batte per la riforma del diritto di famiglia, che sino al 1975 era basato sui precetti del Codice del ’42, lotta per la depenalizzazione dell’aborto e l’approvazione delle leggi sull’interruzione volontaria della gravidanza e contro la violenza sulle donne, all’epoca ritenuta un reato ai danni della morale e non della persona. Il femminismo, nelle sue varie fasi e declinazioni, ha costituito la sfida più profonda e radicale al pensiero occidentale e alla cultura patriarcale della società tardocapitalista.
Numerose sono in Italia le artiste che ne abbracciano la causa, malgrado le resistenze e l’impermeabilità del sistema dell’arte italiano, allo scopo non soltanto di denunciare le ingiustizie subite (la difficoltà di accedere alle grandi rassegne espositive, alle collezioni pubbliche e private, al mercato…), ma anche e soprattutto per porre in discussione le pratiche e i linguaggi maschili. Per le artiste italiane vicine al pensiero e alla pratica del femminismo – come Tomaso Binga, Paola Mattioli, Libera Mazzoleni, Marcella Campagnano – l’urgenza è quella di esplorare nuove modalità espressive, che mettano in crisi i canoni della tradizione artistica in cui il corpo della donna è rappresentato come oggetto passivo dello sguardo maschile.

Tomaso Binga, Oggi-spose – 1977

Alcune di loro militano nei gruppi femministi e praticano l’autocoscienza. Mattioli, ad esempio, partecipa a Milano all’esperienza del “gruppo del mercoledì”, formato da donne che sperimentano l’autocoscienza preferendo l’immagine alla parola. Altre, come Binga e Mazzoleni, pur non militando, abbracciano le idee del femminismo e leggono i manifesti e i testi teorici, soprattutto gli scritti Sputiamo su Hegel e La donna clitoridea e la donna vaginale di Carla Lonzi e Speculum. De l’autre femme di Luce Irigaray, fonti essenziali per la diffusione del pensiero della differenza nel nostro Paese.
L’incontro con il femminismo per queste artiste costituisce l’occasione per ripensare la propria condizione di donna nella vita quotidiana, nei rapporti personali e istituzionali, nel lavoro domestico e soprattutto in quello artistico. La cesura tra la sfera personale e quella pubblica viene messa in discussione e le tematiche legate alla sessualità, al corpo, all’affettività e al desiderio entrano con forza nelle loro opere. Nel 1971 Bianca Pucciarelli, artista attiva nel campo della poesia visiva e fonetica, abbandona il proprio nome di battesimo per assumere lo pseudonimo maschile “Tomaso Binga”: con questo gesto dichiara come l’ingresso nel mondo dell’arte comporti l’adeguamento al canone e al linguaggio maschili. Da sempre oggetto silenzioso del discorso altrui, la donna riparte dal proprio corpo per trovare una pratica espressiva alternativa: nella serie Scrittura vivente, esposta nel 1976, Binga si fa ritrarre mentre assume con il proprio corpo nudo la forma delle lettere alfabetiche. Questo nuovo alfabeto corporeo è concepito per riscattare l’occultamento della fisicità e l’apparente neutralità del linguaggio, in cui la donna non si riconosce, attraverso una rivalutazione dell’imperfetto, dell’errore, del fuori posto.

Tomaso Binga, Lettere in cornice – 1976


“Non vogliamo più sentirci entità astratte”, scrive Binga, “ma persone fisicamente, socialmente, politicamente umane”.
Il senso di estraneità al linguaggio espresso in questa serie è alla base anche della Scrittura desemantizzata, realizzata da Binga a partire dal 1974, tracciando segni grafici in cui la scrittura canonica è deformata al punto da essere illeggibile: “La mia”, sostiene l’artista, “è una scrittura subliminale, nel senso che essa agisce (vorrei che agisse) dentro di noi senza essere distratti dal significato corrente delle parole e senza essere frastornati dal suono delle parole stesse: allora si può anche definire una scrittura silenziosa”. Snervate sino a perdere di significato, le parole di Binga sembrano conservare la memoria dei silenzi imposti alla donna. Con questa grafia l’artista progetta una tra le sue opere più significative: nel 1976 realizza in un’abitazione privata romana l’azione Carta da parato, riproposta l’anno successivo a Riolo Terme e alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna.

Tomaso Binga, Carta da parato, 1976


In occasione della performance l’artista tappezza le pareti delle stanze con carte su cui sono tracciati a mano segni grafici che riempiono lo spazio per intero. Indossando un abito realizzato con la stessa carta, l’artista si mimetizza nell’ambiente e declama a più riprese la poesia Io sono una carta. L’azione dà corpo all’espressione gergale “fare carta da parati”, riferita a quelle donne, considerate poco avvenenti, che alle feste non venivano invitate a ballare e restavano in attesa, incollate alle pareti. Confondendosi con lo spazio domestico, luogo tradizionalmente femminile, l’artista rappresenta la secolare difficoltà della donna di esprimersi liberamente: Binga mette in scena una storia, quella della donna, fatta di silenzi forzati, non detti, parole trattenute e ideali di bellezza a cui non può e non vuole conformarsi.
Il corpo femminile è al centro anche dell’opera Juissance, in cui Paola Mattioli, artista milanese formatasi sotto la guida del filosofo Enzo Paci, tuttora attiva nei gruppi femministi, propone una sequenza di fotografie in bianco e nero tratte da riviste pornografiche. Mattioli ritaglia il particolare di sette volti di donne, colte nel momento dell’orgasmo. In queste immagini il piacere femminile è ridotto a una pantomima, a una ripetizione di smorfie e gesti meccanici, quasi identici, agiti per lo sguardo e il piacere altrui: l’orgasmo femminile è rappresentato soltanto in funzione di quello maschile. Successivamente Mattioli, attingendo al suo archivio fotografico, ha accostato alle immagini trouveés, il ritratto di un uomo che entra furtivo in un cinema porno; è lui, che siederà davanti allo schermo, lo spettatore ideale delle foto di donne raccolte da Mattioli, la quale, inserendone il ritratto nell’opera, rende ancor più esplicito il rapporto di subalternità della donna nella dinamica della visione.
Da questi due esempi, sintomatici di una realtà più ricca e complessa, rimasta a lungo ai margini della storia dell’arte, emerge l’importanza del pensiero e della pratica del femminismo nella ricerca delle artiste attive in Italia negli anni Settanta. Pur tra molte difficoltà, le artiste italiane hanno infatti trovato spazi e modi per condurre sperimentazioni volte a porre in discussione i modelli borghesi di rappresentazione della sessualità, del corpo, dell’identità.

Raffaella Perna

Raffaella Perna consegue nel 2014 il titolo di Dottore di ricerca in Storia dell’arte presso l’Università di Roma La Sapienza. Nel 2015 è assegnista di ricerca presso lo stesso ateneo. Dal 2016 è professore a contratto di Storia dell’arte contemporanea all’Università di Macerata. I suoi studi si sono concentrati sui legami tra la neoavanguardia italiana degli anni Sessanta e Settanta e la fotografia e sui rapporti tra arte e femminismo in Italia, argomenti a cui ha dedicato diversi saggi, conferenze e i libri: Arte, fotografia e femminismo in Italia negli anni Settanta (2013), In forma di fotografia. Ricerche artistiche in Italia tra il 1960 e il 1970 (2009). Tra i saggi: Il potere del secondo sesso: il corpo della donna e il culto della Dea nell’arte femminista degli anni Settanta (catalogo della mostra La Grande Madre, a cura di M. Gioni, Palazzo Reale, Milano 2015); Mostre al femminile: Romana Loda e l’arte delle donne nell’Italia degli anni Settanta (in Ricerche di S/confine, 2015). È inoltre curatrice dei volumi: Ketty La Rocca. Nuovi studi (con F. Gallo, 2015); Etica e fotografia. Potere, ideologia e violenza dell’immagine fotografica (con I. Schiaffini, 2015); Il gesto femminista. La rivolta delle donne: nel corpo, nel lavoro, nell’arte (con I. Bussoni, 2014) e Le polaroid di Moro (con S. Bianchi, 2012). Tra le mostre: L’altro sguardo. Fotografe italiane 1965-2015 (Triennale di Milano, cat. Silvana Editoriale, 2016), Grandi fotografi a 33 giri e Synchronicity. Record Covers by Artists (Auditorium Parco della Musica di Roma), dedicate alle cover realizzate da fotografi e artisti internazionali dagli anni Cinquanta a oggi. Ha recentemente pubblicato la monografia Piero Manzoni e Roma, nella collana Pesci Rossi, Electa 2017.