La danza, il blog e i Dance Club

di Roberto Castello

Una delle implicazioni della professione di danzatore contemporaneo che di solito non si considerano è l’imbarazzo, spesso, di rispondere alla semplice domanda: che lavoro fai? Non in tutte le situazioni, infatti, si riesce a rispondere “il danzatore contemporaneo” con la stessa tranquillità con cui altri risponderebbero il chirurgo, il commercialista, l’infermiere o il meccanico. I danzatori contemporanei lo sanno, ammettere di esserlo il più delle volte implica una serie di conseguenze che non sempre si ha voglia di affrontare. I più infatti si sorprendono a scoprire che esiste davvero una professione del genere, ben pochi hanno comunque un’idea di come questa funzioni e, nelle rare volte in cui l’interlocutore ha sinceramente voglia di capire, bisogna fatalmente addentrarsi in una lunga e noiosa serie di precisazioni e distinguo. Quando invece l’interlocutore ti fa capire che non occorrono spiegazioni, puoi essere quasi certo che sta cercando di immaginarti in bandana e leggings a sollevare soubrette in tv. Per i maschi le cose sono poi ulteriormente complicate dal fatto che danzare non è affatto ritenuta una professione virile.
Comunque tutti, indistintamente, stentano a credere che davvero si possa sopravvivere solo danzando, e non hanno tutti i torti, perché scegliere la danza come fonte di sussistenza si porta dietro una serie di conseguenze che non è facile spiegare a chi in definitiva considera il denaro l’unico metro oggettivo per misurare le cose, se stesso e gli altri.

La danza è totalmente estranea al ciclo di trasformazione della materia. Non produce beni, e non utilizza strumenti. Per danzare basta essere vestiti, ma anche questo non è in definitiva così essenziale. Finito di danzare, ci si fa una doccia e si mangia. Molti danzatori sono vegetariani o vegani e per la maggior parte conducono una vita vagabonda che non permette di possedere molto più di ciò che si può portare con sé. La danza inoltre non lascia tracce, una volta terminata non resta nulla. L’impronta ecologica dei danzatori è irrisoria, i danzatori lo sanno e ne vanno abbastanza fieri. Si danza ad alti livelli per pochi anni poi bisogna ridurre o smettere. Non esiste nessuna reale possibilità di carriera. Arrivati ai 40-45 anni una danzatrice – o un danzatore – in quanto tale è socialmente ed economicamente irrilevante. Eppure ci sono persone intelligenti, istruite e consapevoli che scelgono questa vita.

La ragione è che danzare bene, bene davvero, è qualcosa che ha senso in sé. Arrivare a dimenticarsi di sé danzando è qualcosa che non ha nulla a che fare con la parola – anche Nietzsche lo aveva molto chiaro – e vale tutti gli anni di studio e fatica che richiede. E’ qualcosa che si può trasmettere solo direttamente da maestro ad allievo condividendo un tempo non frettoloso. Quanti sono gli ambiti in cui questo oggi ancora avviene ed ha senso che continui ad avvenire? L’intelligenza del corpo è qualcosa di cui tutti hanno in qualche modo esperienza ma che la cultura occidentale, quella che ha colonizzato il pianeta, molto più concentrata sulle cose che sulla qualità della vita delle persone, tende a confinare alla sfera affettiva e sessuale. Questo spiega almeno in parte il retrogusto di minorità, il senso di imbarazzo, che spesso provano i danzatori nel parlare con estranei del proprio lavoro.

Nello stesso sistema teatrale d’altronde, almeno in quello italiano, i più, figli di una cultura libresca, considerano tutte le forme di non verbalità nella migliore delle ipotesi come forme minori e non concepiscono la possibilità che possano davvero esistere opere fatte di solo persone che si limitano a muoversi senza parlare e siano ciononostante in grado di produrre non meno intelligenza di un ottimo testo teatrale messo in scena da un ottimo regista con ottimi attori. Eppure è evidentemente così. Anche un testo teatrale d’altronde smette di essere letteratura e diventa umano, diventa teatro, solo quando c’è qualcuno che gli da corpo utilizzando tutto ciò che attiene alle potenzialità espressive del movimento umano, compresa la voce.

La danza, il linguaggio del corpo, è qualcosa che accompagna, che è per sua natura complementare alle parole e il suo campo inizia esattamente dove quelle finiscono, e viceversa. E’ inutile provare a raccontare l’assedio di Stalingrado o spiegare la formula della gravitazione universale danzando. Per farlo occorrono parole e numeri. Non c’è modo di tradurre le parole in gesti, né i gesti in parole perché questi, per quanto semplici, contengono istante per istante molte più informazioni e ambivalenze di quanto il linguaggio permetta di descrivere.

Ciononostante l’impressione è quella di vivere in un mondo fatto unicamente di parole dove, in particolare quelle scritte, hanno un peso e un valore che nessuna azione potrà mai avere.
La psicologia ci dice invece che oltre i 2/3 della comunicazione fra le persone è non verbale. Albert Mehrabian nel 1972 ha addirittura dimostrato che in una conversazione di argomento emotivo/relazionale i movimenti di corpo e viso incidono per il 55% del contenuto comunicativo, volume, tono e ritmo della voce incide per il 38% e il significato letterale delle parole solo per il 7%. Di qui il nome di questo blog.
Mehrabian dà quindi consistenza scientifica a qualcosa che in qualche modo tutti sanno, cioè che il significato di ciò che si dice deriva in larga misura dal contesto e dal modo in cui lo si dice.
Potrebbe sembrare un’ovvietà, ma solo se non si considera che questo avviene in una cultura che ritiene Sapere unicamente le nozioni trasmissibili attraverso la parola. Eppure sono proprio le componenti non verbali della comunicazione a determinare la qualità delle nostre relazioni col mondo.
Anche la politica, nonostante a volte la usi strumentalmente, non sembra tenere in grande considerazione quanto le informazioni che passano attraverso la componente non verbale della comunicazione incidano sulla percezione che le società hanno di se stesse. La percezione della qualità della vita non è la stessa se in un dato contesto gli estranei si guardano, si sorridono, si salutano, si parlano, se può capitare che si tocchino o è qualcosa che non avviene mai, se questo avviene solo fra persone dello stesso sesso, se, come e in quali circostanze fanno festa o ballano.
La materia di cui è davvero fatta la vita è la relazione emotiva e affettiva con gli altri, quella che passa attraverso il tono della voce, la prossemica, gli atteggiamenti, i gesti, insomma la comunicazione non verbale.
Lo spazio della realtà di ciascuno arriva solo fin dove arrivano i suoi sensi. Sono loro ad attivare gli ormoni, che a loro volte determinano emozioni, che a loro volta determinano ulteriori comportamenti. E’ l’impressione di essere o meno amati e stimati da chi si ha intorno, e desiderati dalle persone da cui si è attratti a determinare la qualità della vita. Tutte cose che si comunicano essenzialmente attraverso sguardi, espressioni, gesti, ritmo, tono e volume della voce, distanze, odori e contatti fra i corpi. Esattamente le stesse cose che, in forme diverse, con ogni probabilità hanno determinato lo stato emotivo dell’animale uomo per 2,5 milioni di anni e determinano oggi lo stato emotivo degli scimpanzé.
Le stesse cose che ci permettono di farci un’idea di uno sconosciuto in pochissimi secondi e di decidere come comportarci con lui e che fanno anche sì che, quando si è in armonia, gesti e voce si sintonizzino e sincronizzino spontaneamente con l’interlocutore. Cosa che avviene non solo nell’interazione da uno a uno, ma anche nei gruppi, perché i comportamenti generano imitazione. In questo risiede il loro potenziale di cambiamento.

Di qui l’idea di una piattaforma di riflessione, confronto, e scambio di materiali sul linguaggio non verbale, sulla festa, sul ballo, sul potenziale politico del corpo e sui suoi bisogni, e quindi in definitiva anche sul ruolo e la dimensione politica del piacere, e su come questi potrebbero diventare consapevole strumento di cambiamento sociale.
Una piattaforma che cerchi di raccogliere e intersecare le linee di pensiero che su questi argomenti si sono sviluppate in ambito antropologico, psicologico, sociologico, filosofico, nelle neuroscienze, nelle scienze sociali, nel pensiero libertario, in quello femminista, insomma in tutti quei contesti che hanno provato ad immaginare una società più consapevole di tutti quegli aspetti della relazione interpersonale che non sono regolati unicamente dall’astrazione della parola ma cercano di tenere in considerazione anche la dimensione della qualità della relazione e del piacere nella vita sociale.

Tutti hanno una loro idea di eden, del luogo di sogno in cui andare a cominciare una nuova vita. In genere un posto in cui la gente è piacevole, gentile, affidabile, sorridente, ha senso dell’umorismo, sa divertirsi, ha un rapporto sano e rilassato con il piacere, in cui è facile fare nuove amicizie o cominciare una nuova relazione sentimentale. Perché quindi non provare a confrontarsi sull’ipotesi che, sviluppando una maggiore consapevolezza collettiva sul potenziale politico dei comportamenti, quindi ponendosi il problema di cosa ciascuno potrebbe fare affinché il posto in cui vive diventi il più simile possibile a quello in cui si vorrebbe vivere, non sia possibile trovare alcuni degli strumenti necessari ad affrontare i cambiamenti epocali che le nostre società stanno affrontando.

Lo spunto per un blog sul potenziale politico dei comportamenti deriva dai Dance Club, una pratica che ALDES ha avviato da circa un anno nel territorio lucchese. Si tende a pensare il ballo come un fenomeno unitario. In realtà i modi in cui le culture affrontano il ballo sono molto diversi. Ci sono luoghi in cui appena c’è musica, tutti si mettono a ballare e altri in cui ballare è qualcosa che proprio non si fa mai. In alcune culture il ballo è una pratica liberatoria, in altre è formalizzato e stilizzato, altre lo hanno circoscritto a momenti precisi e controllati della vita sociale. Poche cose sono comunque altrettanto capaci di strappare un sorriso a chiunque più della vista di qualcuno che balla con entusiasmo divertendosi davvero.
Quando si è contenti si balla e ballare rende contenti, e questo è vero per tutti.
Anche chi non balla e non ballerà mai sa quanto sia piacevole farlo, e con ogni probabilità lo farebbe volentieri se solo si trovasse nella situazione giusta.
I Dance Club non sono altro che appuntamenti in cui semplicemente ci si trova per ballare, dove nessuno dice o insegna nulla e non c’è niente da imparare, solo buona musica, e ballo per ritagliare uno spazio di rilassata, egualitaria, non verbale e promiscua relazione con altri. Una situazione in cui a tutti, soprattutto quando ci sono musicisti live, possa venire facile, spontaneo e naturale lasciare che il corpo prenda il sopravvento e tutti, dai 4 ai 104 anni possano ritrovarsi a ballare insieme per il semplice piacere di farlo. Perché ballare è qualcosa che fa stare bene e che contribuisce a far sì che questo sia vero anche per chi si ha intorno.
Il Dance Club è un esperimento che discende dalla constatazione della scomparsa di luoghi in cui persone di tutte le età, classi sociali, colori e religioni possano ritrovarsi a ballare insieme; dal fatto che il ballo, a differenza dalla parola, annulla le differenze; dall’illuminante relazione che il folgorante aforisma di Emma Goldman If I can’t dance to it, it’s not my revolution stabilisce fra politica e qualità della vita; dalla constatazione della divaricazione fra arte contemporanea e pubblico e dalla capacità invece di molta arte, musica e letteratura africana contemporanea di coniugare impegno, qualità e piacere.

L’idea di affiancare un progetto così ideologicamente non verbale con un blog può sembrare contraddittorio, ma non siamo stati capaci di immaginare uno strumento diverso per provare ad incrociare esperienze, storie e ambiti diversi nella speranza di riuscire a immaginare pratiche culturali e politiche capaci di anteporre il valore della vita delle persone alle convenzioni sociali e alle loro rappresentazioni simboliche, a partire da quelle finanziarie.

Roberto Castello

Danzatore, coreografo e insegnante.
E’ probabilmente da ritenersi il più ideologicamente impegnato e scomodo tra i coreografi che hanno fondato la danza contemporanea in Italia.
Nei primi anni ‘80 danza a Venezia nel “Teatro e danza La Fenice di Carolyn Carlson”, dove realizza le sue prime coreografie.
Nel 1984, è tra i fondatori di Sosta Palmizi.
Nel 1993 fonda ALDES.
Riceve svariati premi, tra cui il Premio UBU nel 1986 e nel 2003 (“Il Cortile” / “Il migliore dei mondi possibili”).
Dal 1996 è curatore di varie manifestazioni e rassegne e, dal 2005 al 2015, è docente di coreografia digitale presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano.
A partire dal 2008, con ALDES, cura il progetto “SPAM! rete per le arti contemporanee” nella provincia di Lucca, ospitando residenze, una programmazione multidisciplinare di spettacoli, workshop, attività didattiche, incontri.
Durante la sua carriera, collabora, tra gli altri, con Peter Greenaway, Eugène Durif, Rai3 / Fabio Fazio e Roberto Saviano, Studio Azzurro.
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